“Matrimonio”, “famiglia” e orientamento sessuale: la Cassazione recepisce la “doppia svolta” della Corte europea dei diritti dell’uomo, di Marco Gattuso

1. Premessa

Due cittadini italiani, entrambi uomini, si sposavano nel 2002 in Olanda e chiedevano la trascrizione dell’atto ai sensi dell’art. 63, comma 2, d.P.R. n. 396 del 2000; ricevuto il rifiuto dall’Ufficiale dello stato civile[1], decidevano di adire l’Autorità Giudiziaria a norma degli artt. 95 e 96 del menzionato d.P.R.[2].

La questione è approdata avanti alla S.C. esattamente dieci anni dopo la celebrazione del matrimonio. Mentre i Paesi Bassi erano al tempo il primo ed unico paese al mondo ad avere aperto il matrimonio alle coppie dello stesso sesso[3], da allora numerosi altri paesi hanno affermato il principio del marriage equality[4] e quasi tutta l’Europa ha ammesso istituti para-matrimoniali per le coppie dello stesso sesso[5]; è entrato in vigore il Trattato di Lisbona, che come noto attribuisce alla Carta di Nizza lo stesso valore giuridico dei trattati e che prevede l’adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo[6]; la Corte costituzionale ha segnato nel 2007 un punto di svolta nel sistema multilivello, imponendo la conformazione delle decisioni del giudice italiano alla CEDU così come interpretata dalla Corte di Strasburgo[7]; le due Corti europee, a loro volta, hanno mosso passi significativi a tutela delle unioni omosessuali, su cui si è espressa anche la Consulta con la nota sentenza n. 138 del 2010[8]; la dottrina e la giurisprudenza italiane, infine, hanno indagato in vario modo la questione, seppure traendone conclusioni non sempre univoche[9].

È per tali ragioni che la Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, pur rigettando il ricorso, ha rivisto a norma dell’art. 384, comma 4, c.p.c. la motivazione dei primi giudici[10]: l’intrascrivibilità dell’atto non dipende più dalla sua “inesistenza” ma dalla “inidoneità” a produrre effetti nell’ordinamento italiano; la sentenza incide inoltre su istituti e categorie dogmatiche – famiglia, matrimonio, inesistenza – collocate tradizionalmente nelle parti generali dei manuali di diritto civile e di famiglia. Per tale ragione è stata salutata da molti come un punto di svolta mentre è stata criticata, anche severamente, da altri[11].

Le prime critiche si sono appuntate tanto sull’eccessiva prolissità e sulla tecnica redazionale, quanto sulla pretesa estraneità di alcune argomentazioni rispetto al thema decidendum, quanto, infine, sulla lamentata “invasione di campo” in materia di competenza del Legislatore[12]. Come si vedrà, i rilievi appaiono in larga misura ingiustificati e segnalano, semmai, una limitata sintonia con i rapidi sviluppi del dibattito, italiano ed europeo, in materia di famiglia ed orientamento affettivo. Non si è sempre compreso, difatti, che la doppia svolta sulle nozioni di “matrimonio” e “famiglia” discende da una lettura costituzionalmente orientata delle norme ordinarie ed è, soprattutto, imposta dalla nostra adesione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Lungi dall’invadere il campo del Legislatore, i giudici della S.C., così come i giudici comuni, sono chiamati a dare applicazione diretta della Costituzione e della CEDU, le quali per un verso contemplano diritti fondamentali d’immediata efficacia e per altro verso fungono da potenti strumenti interpretativi delle leggi ordinarie. Le norme costituzionali e sub-costituzionali, come si vedrà, non attendono invano d’essere attuate dalle leggi ordinarie, ma in quanto immediatamente precettive colmano già il vuoto lasciato dal legislatore. Com’è stato rilevato, ove vi è la Costituzione ed ove vi è la Convenzione «a rigore, anzi, il vuoto non c’è, proprio perché c’è la … CEDU»[13].

La sentenza si dipana secondo uno schema inconsueto: la conclusione raggiunta alla fine della seconda parte dei Motivi, per cui il matrimonio non potrebbe essere trascritto in quanto del tutto “inesistente”, è smentita nelle parti 3 e 4, dove si afferma che la stessa è oggi “radicalmente superata”. Nell’affrontarne la lettura, invertiremo allora l’ordine espositivo al fine di presentare senza indugio il quadro sistematico cui la S.C. perviene da ultimo, tentando quindi di individuare l’effettivo contenuto innovativo dei singoli arresti.

2. La nozione europea di “matrimonio”

L’art. 12 della CEDU dispone che «uomini e donne in età adatta hanno diritto di sposarsi». In sede di interpretazione evolutiva della norma, richiamando in particolare la Carta di Nizza (il cui art. 9 evita di proposito ogni riferimento alla diversità di sesso degli sposi[14]) la Corte di Strasburgo, nell’ormai celebre sentenza sul caso Schalk e Kopf c. Austria[15], ha annunciato che «la Corte non considererà più che il diritto al matrimonio di cui all’articolo 12 debba essere limitato in tutti i casi al matrimonio tra persone di sesso opposto»[16]. Il riferimento diretto al genere dei nubendi non ha impedito dunque il prevalere dell’interpretazione per cui tale norma indica i soggetti titolari del diritto a contrarre matrimonio (il diritto, cioè, deve essere riconosciuto a ogni uomo e ad ogni donna), senza limitare necessariamente la facoltà di scegliere liberamente il partner (dell’uno o dell’altro sesso).

Si tratta di una svolta semantica che «non lascia adito a dubbi» e la cui «ratio decidendi costituisce vero e proprio Overruling»[17]: la parola “matrimonio” non denota più solo i matrimoni tra persone di opposto genere e diventa, per definizione, gender-neutral. Il significante “matrimonio” include nel suo significato ogni matrimonio. Già in precedenza i Paesi aderenti erano liberi, ovviamente, di riconoscere diritti non previsti dalla CEDU (cfr. art. 53), ma con il riconoscimento di un nuovo contenuto del termine matrimonio non è più possibile ipotizzare che i Paesi che lo hanno esteso alle coppie dello stesso sesso abbiano inteso “affiancare” al matrimonio tradizionale un altro e diverso istituto giuridico, poiché l’unione coniugale tra due donne o tra due uomini integra esattamente lo stesso istituto riconosciuto dall’art. 12 CEDU (e dall’art. 9 della Carta di Nizza). L’assunzione di tale nuovo significato non è, peraltro, un mero accidentale obiter, ma assume la connotazione di un vero e proprio annuncio («the Court would no longer consider…»).

Tale rovesciamento non conduce ad imporre agli Stati che aderiscono alla CEDU di aprire il matrimonio anche alle coppie dello stesso sesso. La nozione di matrimonio muta, ma in ossequio alla dottrina del cd. «margine di apprezzamento» dei singoli Stati contraenti, la competenza a garantire tale diritto resta in capo ai Parlamenti nazionali[18]. Come nota la S.C., le norme europee «pur riconoscendo detti diritti, sono state tuttavia formulate in modo tale da separare il “riconoscimento” dalla “garanzia” degli stessi», rimessa ai legislatori nazionali. La “separazione”, nel diritto convenzionale tra il “riconoscimento” e la concreta “garanzia” assume, come si vedrà, un particolare rilievo nella pronuncia della S.C. (e la sua trasposizione nel diritto interno appare invero piuttosto problematica).

È noto che, «secondo il costante orientamento della Corte costituzionale, l’interpretazione e l’applicazione delle norme della CEDU, pur essendo affidate ai giudici degli Stati contraenti, sono attribuite, in via definitiva, alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (…) con la conseguenza che (…) l’interpretazione data dalla Corte europea vincola, anche se non in modo incondizionato, detti giudici e costituisce il “diritto vivente” della Convenzione»[19]. L’adesione al “nuovo e più ampio contenuto” del matrimonio appare alla S.C., dunque, come una scelta obbligata[20].

3. Il tramonto dell’inesistenza

Il mutamento intervenuto a livello sovranazionale spiega effetti nel nostro ordinamento interno: se l’art. 12 «ha privato di rilevanza giuridica la diversità di sesso dei nubendi» è allora «radicalmente superata la concezione secondo cui la diversità di sesso dei nubendi è presupposto indispensabile, per così dire “naturalistico”, della stessa “esistenza” del matrimonio»[21]. La tradizionale classificazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso nella categoria della “inesistenza” è così superata[22].

Come noto, la dottrina ravvisa tradizionalmente l’inesistenza in ipotesi di difetti genetici per i quali si ritiene che non sussista un matrimonio neppure invalido[23], usando indicare, quali esempi, oltre all’identità di sesso degli sposi, anche la radicale carenza di consenso o di celebrazione. Né in dottrina né in giurisprudenza vi è mai stata, in realtà, piena intesa sulle singole fattispecie[24], tant’è che per un’isolata ma assai autorevole opinione, quella di Arturo Carlo Jemolo, proprio l’identità di sesso non darebbe luogo ad inesistenza ma a mera nullità[25]. La classificazione di un atto di matrimonio come “inesistente” è ritenuta utile soprattutto, o forse esclusivamente, per evitare che l’atto produca effetti secondo l’istituto del matrimonio putativo[26]. Tanto Jemolo che autori più recenti hanno evidenziato come non vi sarebbe peraltro alcuna ragione per escludere gli effetti di cui agli artt. 128 c.c. e ss. nei confronti del coniuge che in buona fede abbia sposato persona poi rivelatasi del suo stesso sesso[27]. Dunque, il ricorso all’inesistenza non svolgerebbe nella specie alcuna funzione pratica. Il venir meno, adesso, di una delle tre ipotesi non esclude, d’altra parte, che la categoria possa continuare a sussistere per le altre due situazioni[28].

Superando l’inesistenza, la Cassazione segue dunque quella dottrina minoritaria cui appariva senz’altro “anacronistico” ed “inadeguato” l’appello alla stessa per modelli matrimoniali riconosciuti all’estero, «in quanto traduce in un giudizio ontologico, quello che è invece il risultato della qualificazione di una certa fattispecie in un certo ordinamento», non potendosi «negare il fatto storico della celebrazione e la sua efficacia in un altro ordinamento europeo»[29].

4. La qualificazione dell’atto e la normativa applicabile

Se le conseguenze pratiche della rimozione dell’inesistenza sono limitate, quelle di ordine sistematico sono più evidenti. Se si deve valutare un matrimonio celebrato all’estero[30], non è più possibile ritenere che una volta varcata la frontiera italiana l’atto perda qualsiasi consistenza, divenendo «una istituzione sconosciuta» per il nostro ordinamento[31]. L’atto, difatti, è riconosciuto come atto di matrimonio da una norma del nostro ordinamento. Il ripudio dell’inesistenza ne impone dunque la qualificazione quale “matrimonio” e, nella ricerca delle norme di conflitto – che secondo i principi del diritto privato internazionale indicano quale legge nazionale si debba applicare -, si dovrà fare riferimento alle norme sul “matrimonio”.

Il passaggio non è scontato e rappresenta una novità, poiché per una diffusa opinione l’indicazione del matrimonio quale atto inesistente conduceva, sino ad oggi, all’arresto d’ogni valutazione già nella fase della cd. “qualificazione”[32], precludendo in radice l’individuazione del criterio di collegamento[33]. È vero che le norme di conflitto devono essere interpretate – secondo la dottrina maggioritaria – sulla base della lex fori, ossia della legge italiana, ma come sottolineato dalla S.C. l’art. 12 della CEDU è norma “del nostro ordinamento”; alle espressioni giuridiche utilizzate dalle norme di conflitto, inoltre, deve essere riconosciuto un significato più esteso ed elastico rispetto ai corrispondenti istituti del diritto materiale interno, così da assicurare una certa flessibilità funzionale all’apertura del nostro ordinamento verso valori giuridici esterni (che è scopo proprio del d.i.pr.).

Qualificato l’atto come matrimonio, la sua celebrazione secondo la lex loci all’estero non pone solitamente problemi quanto alla forma[34]; per «la capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre matrimonio» l’art. 27 l. 218/1995 rimanda invece alla legge nazionale di ciascun nubendo al momento della celebrazione. Se in base alla norma di conflitto si dovrà applicare una normativa straniera, bisognerà verificare se il matrimonio è valido per la stessa; se bisognerà applicare la normativa italiana, occorrerà appurare se l’atto è conforme ai requisiti richiesti dalla normativa italiana. Nella specie si trattava di due italiani (ma la soluzione non cambia se soltanto uno dei nubendi sia italiano[35]) e quindi, essendo pacifica la validità formale dell’atto, si deve avere riguardo alla legge italiana[36].

5. Il matrimonio per la legge italiana ordinaria e secondo Costituzione

Dovendosi applicare la nostra legge, persuade il rilievo della Corte per cui la risposta in ordine alla trascrivibilità dell’atto, questione posta per la prima volta alla sua attenzione, dipende in linea retta dalla soluzione della più generale questione, anch’essa nuova per la S.C., «se la Repubblica italiana riconosca e garantisca a persone dello stesso sesso, al pari di quelle di sesso diverso, il diritto fondamentale di contrarre matrimonio»[37].

Come noto, né la legge ordinaria né la Costituzione italiana contengono una definizione del matrimonio[38]. Pur in mancanza di un’espressa enunciazione, la S.C. aderisce tuttavia all’orientamento, di gran lunga prevalente, che ritiene la diversità di genere condizione implicitamente prevista dal codice civile italiano[39]. La Corte desume tale requisito «in primo luogo, dall’art. 107, comma 1, c.c. che, nel disciplinare la forma della celebrazione del matrimonio, prevede tra l’altro che l’ufficiale dello stato civile celebrante «riceve da ciascuna delle parti personalmente, l’una dopo l’altra, la dichiarazione che esse si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie»[40].

Con riguardo al matrimonio nella Costituzione, la S.C. dichiara di condividere la recente pronuncia della Consulta n. 138 del 2010[41] (non ritenendo, per conseguenza, di dovere promuovere una nuova questione di legittimità costituzionale[42]). Ciò nondimeno, la Cassazione non afferma in alcun passaggio dell’articolata motivazione che il matrimonio tra persone dello stesso sesso sarebbe vietato dalla Costituzione e perviene, anzi, ad alcune affermazioni che segnano uno dei passaggi più rilevanti della decisione.

Nel 2010 la nostra Corte costituzionale era stata chiamata a valutare se la Costituzione imponga l’apertura del matrimonio e la Consulta aveva rigettato la questione di costituzionalità, rilevando che la Costituzione non impone di mutare la nozione di matrimonio. Le argomentazioni utilizzate nella sentenza n. 138/2010 sono state interpretate tuttavia in vari modi, poiché secondo molti commentatori nella decisione si doveva leggere un’evidente propensione della Consulta per un divieto costituzionale, mentre secondo altra opinione la Corte avrebbe lasciato spazio alla discrezionalità del Parlamento[43]. Va detto, in ogni caso, come ogni affermazione sul punto configurerebbe un mero obiter, peraltro in una sentenza che, essendo di rigetto, è «priva di efficacia vincolante erga omnes»[44]. La questione, che potrebbe apparire del tutto astratta (posto che il Legislatore italiano non appare propenso, a breve, ad aprire il matrimonio), assume invero una speciale rilevanza, sia sotto il profilo sistematico che per alcuni specifici effetti esegetici di cui si dirà più avanti (oltre che sotto il profilo politico, poiché la sussistenza di un preteso schermo costituzionale funge da pretesto per le forze politiche per escludere ogni apertura al matrimonio egualitario).

È dunque in tale quadro e nel pieno di un dibattito piuttosto acceso (si è prodotto un vero diluvio di commenti), che, dando espressamente atto di avere operato un’“attenta analisi” della sentenza della Corte costituzionale, giungono le affermazioni della Suprema Corte: «la sentenza della Consulta n. 138 del 2010 ha negato fondamento costituzionale al diritto al matrimonio tra due persone dello stesso sesso, in riferimento sia agli artt. 3 e 29, sia all’art. 2 Cost. Dunque, il suo riconoscimento e la sua garanzia – cioè l’eventuale disciplina legislativa diretta a regolarne l’esercizio -, in quanto non costituzionalmente obbligati, sono rimessi alla libera scelta del Parlamento». Più oltre la S.C. osserva che «secondo la sentenza della Corte europea 24 giugno 2010, invece, il diritto al matrimonio (…) include anche quello al matrimonio di persone dello stesso sesso, quale “nuovo contenuto” ermeneuticamente emergente (…) dalla Convenzione e dalla Carta, fermo restando tuttavia che la sua garanzia è rimessa al potere legislativo dei singoli Stati» ed il Parlamento è «libero di scegliere, sia nell’an sia nel quomodo» tra la possibilità di garantire tale diritto o prevedere «altre forme di riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali»[45].

Se si ha “libera scelta”, non può dubitarsi che non si faccia riferimento a vincoli costituzionali ed a leggi di revisione costituzionale. Si tenga anche conto, ad abundantiam, che la S.C. parla di libertà di scelta, nell’an e nel quomodo, tra matrimonio ed «altre forme di riconoscimento», mettendo dunque l’opzione matrimoniale sullo stesso piano di altre opzioni per cui è assodato che sia sufficiente la legge ordinaria[46]. Si deve pure evidenziare come la definizione di matrimonio contenuta nella CEDU non rimanga del tutto estranea al nostro ordinamento poiché, come detto, spiega effetto nell’ordinamento italiano con l’abbandono della categoria dell’inesistenza. Se la Cassazione avesse ritenuto che la Costituzione vieti il matrimonio tra persone dello stesso sesso, la Corte starebbe recependo, seppure con limitati effetti, un’interpretazione del termine “matrimonio” non conforme al parametro costituzionale; vi sarebbe contrasto tra la norma costituzionale (29 Cost.) e quella cd. subcostituzionale (12 CEDU)[47].

Si deve rimarcare, allora, l’importanza della decisione anche sotto il profilo del sistema multilivello, posto che la S.C. perviene non soltanto ad un clamoroso overruling sulla base di una norma convenzionale, ma pare anche trarre dalla lettura della CEDU argomenti per interpretare in senso evolutivo la stessa Carta costituzionale, forse persino per aggiornare l’interpretazione data, da alcuni, alla pronuncia della Consulta (come si rileva dalla lettura dei par. 4.1 e 4.2 della motivazione, la sentenza italiana e di Strasburgo sono lette insieme, traendo da ognuna un tassello atto a ricomporre il quadro della tutela primaria).

È vero che le questioni di illegittimità costituzionale sono, in ultima analisi, di competenza della Consulta, ma l’interpretazione della Costituzione rientra tra le attività di ogni giudice, e l’interpretazione data dalla S.C. assume, com’è ovvio, speciale rilievo. Si deve pure sottolineare come nella specie non si possa parlare neppure di vero contrasto tra Corte costituzionale e Corte di Cassazione posto che, come detto, la Consulta, con espressioni certamente non univoche, non aveva preso chiara posizione sulla sussistenza di un divieto, com’è attestato dal ventaglio di prospettive esegetiche della stessa pronuncia. La S.C. – molto ragionevolmente – pare ricomporre adesso il quadro, evitando ogni conflitto tra la Costituzione repubblicana e la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e tra le corti tra loro.

Ciò detto, tornando alla domanda sulla latitudine del diritto al matrimonio nel nostro ordinamento giuridico la Corte, ripudiatane l’inesistenza, afferma in conclusione che il  matrimonio same-sex non è comunque attualmente previsto dalla legge italiana.

6. I poteri del pubblico ufficiale in sede di trascrizione

La Cassazione afferma senz’altro il potere dell’ufficiale di stato civile di rifiutare la trascrizione. Si tratta di un passaggio non scontato (tant’è che le difese dei ricorrenti avevano battuto sull’assenza di poteri di controllo, sostenendo la necessità di procedere comunque alla trascrizione, salvo successivo accertamento giudiziale dell’invalidità).

Come noto, la norma che autorizza a non trascrivere l’atto se contrario all’o.p. (art. 18: «gli atti formati all’estero non possono essere trascritti se sono contrari all’ordine pubblico») è stata introdotta per la prima volta con il nuovo regolamento sullo stato civile (d.P.R. n. 396/2000)[48] ed è tuttora assai controverso se inerisca alle funzioni dell’ufficiale di stato civile una specifica valutazione sulla sussistenza delle condizioni di validità del matrimonio[49]. Con riguardo agli obblighi e poteri del pubblico ufficiale, la S.C. rileva adesso come a questi siano «attribuiti penetranti poteri di controllo (anche) sulla trascrivibilità degli atti di matrimonio celebrati all’estero»[50]; la Corte richiama sul punto la propria giurisprudenza pregressa per cui la trascrizione – essendo pacifica la sua natura non costitutiva ed il suo valore solo probatorio e di pubblicità[51] – è doverosa «sempre che sussistano i requisiti sostanziali relativi allo stato ed alla capacità delle persone»[52], osservando che il dovere dell’ufficiale di stato civile di trascrivere sussiste soltanto «in assenza di (altri) impedimenti “dirimenti”»[53]. Com’è ovvio, tale potere del pubblico ufficiale è sottoposto – ex artt. 95 e 96 del d.P.R. – al sindacato giurisdizionale di legittimità (esercitato nella specie), che consente pure di verificare la compatibilità costituzionale delle norme che lo configurano.

Secondo la S.C., tale controllo deve esercitarsi tanto con riguardo alla carenza di impedimenti dirimenti, considerato che ai medesimi rimanda l’art. 18 con la nozione di ordine pubblico[54]; quanto con riguardo alla stessa riconducibilità dell’atto perfezionato all’estero al modello legale di matrimonio secondo l’ordinamento italiano, posto che l’art. 64 del d.P.R. ne elenca gli elementi indispensabili[55], i quali «imponendo precisi contenuti dell’atto di matrimonio trascrivibile, attestano l’esistenza di tali poteri e l’astratta legittimità del loro esercizio»[56]; tra tali elementi l’art. 64 cit. prevede alla lettera e) «la dichiarazione degli sposi di volersi prendere rispettivamente in marito e moglie»; l’espressione è identica a quella contenuta nell’art. 107, comma 1, c.c. che, come s’è visto, concorre a delineare secondo la S.C. un requisito implicito del negozio giuridico. Il combinato disposto tra art. 107, I comma c.c. e 64 d.P.R. n. 392/2000 fornisce dunque alla S.C. la saldatura tra la conformazione regolamentare dei poteri del pubblico ufficiale e la (implicita) definizione codicistica[57].

7. Invalidità ed inidoneità a produrre effetti

Affermando «l’intrascrivibilità delle unioni omosessuali» la S.C. aggiunge che la stessa «dipende – non più dalla loro “inesistenza”, e neppure dalla loro “invalidità”, ma – dalla loro inidoneità a produrre, quali atti di matrimonio appunto, qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano»[58]. A parte l’evidente refuso (posto che la trascrizione, l’inesistenza e l’invalidità concernono com’è ovvio l’atto e non certamente la coppia) l’affermazione necessita di qualche chiarimento.

Si può forse ritenere – a prima lettura – che la Corte, sgomberato il campo dalla dottrina dell’inesistenza, abbia voluto comunque rassicurare sull’impossibilità di attribuire “qualsiasi effetto” ad un matrimonio tra persone dello stesso sesso, configurando una sorta di nuova categoria della “non conformità al matrimonio italiano” che precederebbe la stessa valutazione di (in)validità[59]. Nelle intenzioni della S.C. la stessa varrebbe probabilmente ad escludere – una volta eliminata la categoria dell’inesistenza – l’eventuale cd. validità interinale dell’atto invalido[60]. In tal modo l’affermazione dell’esistenza dell’atto avrebbe scarse conseguenze sotto il profilo pratico, tanto da apparire, tutto sommato, solo apparente: l’atto, in quanto non conforme al modello legale, sarebbe riguardato dall’ordinamento come un atto inesistente.

Le conclusioni cui giunge la S.C. meritano tuttavia alcune riflessioni e qualche critica, tanto con riguardo all’affermata «inidoneità a produrre qualsiasi effetto giuridico», quanto con riguardo all’esclusione della «invalidità».

La perentoria affermazione dell’«inidoneità a produrre qualsiasi effetto giuridico» può essere condivisa soltanto se circoscritta al caso di specie, poiché nella generalità dei casi alcuni effetti giuridici dell’atto sono inevitabili, mentre altri appaiono quantomeno opportuni. Come noto, una volta che sia, fortunosamente, avvenuta la trascrizione di un matrimonio (anche tra persone dello stesso sesso) è necessaria una sentenza per la sua rimozione, poiché al pubblico ufficiale (che pure deteneva “penetranti poteri di controllo” nel procedimento di pubblicazione/celebrazione/trascrizione), è preclusa, a norma dell’art. 453 c.c., ogni successiva modifica dell’atto trascritto: non è dunque dubbio che in questo caso, sino a che non vi sia la sentenza, i coniugi si avvaleranno del loro status, né potrebbero essere autorizzati dall’ufficiale di stato civile a contrarre nuove nozze[61]. Come si è visto, inoltre, secondo una condivisibile dottrina non v’è ragione d’escludere gli effetti dell’atto nell’ipotesi – invero assai improbabile – in cui uno dei coniugi contragga in buona fede matrimonio con persona che solo successivamente si riveli dello stesso sesso (e per tale ragione tale dottrina riteneva che il matrimonio non si dovesse valutare inesistente ma più semplicemente invalido)[62]. Gli effetti dopo la trascrizione sono dunque inevitabili; quelli ex art. 128 c.c. potrebbero essere, almeno in linea di principio, opportuni. La S.C., verosimilmente, non ha inteso attribuire una radicale inefficacia a matrimoni fortunosamente trascritti, né ha inteso prendere posizione in ordine alla tutela del coniuge di buona fede, poiché si tratta di questioni che esulano totalmente dall’oggetto della causa e, dunque, l’affermazione dell’inidoneità può essere più ragionevolmente circoscritta, com’è pure naturale, al caso sottoposto al suo giudizio.

Anche l’esclusione dell’«invalidità» merita un approfondimento. Mentre il superamento dell’inesistenza impegna decine di pagine, la non assimilabilità all’invalidità è affermata senza alcuna ulteriore illustrazione. Come detto, la Cassazione sembrerebbe introdurre nell’ordinamento un’inedita ed assai incerta categoria della “non conformità” dell’atto di matrimonio (si badi: atto di matrimonio esistente per l’ordinamento, la cui non conformità non precede ma segue il raffronto con le condizioni per contrarre matrimonio richieste dalla normativa applicabile); la stessa si sommerebbe alla tradizionale classificazione nullità/annullabilità/inesistenza, il che non semplifica, certo, una materia per cui la dottrina lamenta da tempo «incertezza terminologica», «utilizzo indifferenziato dei termini nullità ed annullabilità», oscillazioni, come abbiamo visto, nella descrizione della categoria dell’inesistenza[63]. Nonostante la rapida affermazione della S.C., sembra allora maggiormente coerente e persuasiva l’opinione per cui il matrimonio è, invece, affetto da nullità insanabile, per la mancanza di una condizione per contrarre matrimonio[64].

8. Matrimonio tra stranieri

Esula dall’oggetto della decisione l’ipotesi in cui sia richiesta la trascrizione di un matrimonio tra due stranieri dello stesso sesso[65]. In tal caso, come detto, non sorgono dubbi sulla qualificazione dell’atto quale atto di matrimonio, mentre a norma degli artt. 27, 28 l. 218 del 1995, la legge da applicare sarebbe certamente quella straniera. Dal complessivo quadro sistematico delineato dalla Corte, si deve ritenere inoltre che non possano assumere rilievo neppure gli ulteriori limiti dell’ordine pubblico internazionale ex art. 16 e delle norme di applicazione necessaria ex art. 17.

Pur non affrontando in questa sede una compiuta analisi, si deve rilevare come la pronuncia incida anche su tali profili, poiché sarebbe adesso un vero assurdo giuridico ritenere contrario all’ordine pubblico internazionale un matrimonio riconosciuto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Dalla pronuncia emerge come il matrimonio tra persone dello stesso sesso non sia in contrasto ma sia semplicemente non normato dall’ordinamento italiano. Come s’è visto, non v’è incompatibilità con l’impianto costituzionale né, ovviamente, l’unione coniugale può dirsi discordante con principi morali (ché, anzi, il senso etico muove nella direzione del rispetto della persona e del riconoscimento dei diritti fondamentali). A fronte di clausole indeterminate, come quelle contenute negli artt. 16 e 17 cit., spetta allora al giudice farsi interprete dell’evoluzione del sistema[66]. Appare senz’altro coerente coll’impianto del d.i.pr. che quando il matrimonio sia contratto tra stranieri il nostro ordinamento giuridico prenda semplicemente atto della sua validità secondo la legge nazionale dei coniugi, mentre ogni questione relativa alla configurazione del matrimonio per il diritto interno trovi il proprio naturale ambito dove debba applicarsi la legge italiana. L’esito, peraltro, non è diverso da quanto accade in altri Paesi che come il nostro non garantiscono il diritto al matrimonio tra persone dello stesso sesso[67].

Va detto, infine, come a livello di normazione secondaria le circolari del Ministero dell’Interno (n. 2 del 2001 e n. 55 del 2007) escludano la trascrizione soltanto nel caso di matrimonio same-sex contratto da italiani, consentendola così se il matrimonio riguardi cittadini stranieri[68]. La questione attiene, dunque, soltanto alla natura di tale trascrizione, che la P.A. tende a sminuire, mentre la dottrina pressoché unanime e la giurisprudenza di merito ne hanno sottolineato più volte la piena efficacia pubblicitaria[69].

9. La seconda svolta di Strasburgo (e della Cassazione): la nozione di famiglia

Oltre che sulla nozione di “matrimonio” i giudici europei, nella sentenza Schalk e Kopf c. Austria, hanno annunciato, come detto, un’ulteriore significativa sterzata interpretativa. Richiamata la propria pregressa giurisprudenza per cui anche le famiglie de facto sono da ricondurre nella nozione di “vita familiare” e premesso che «le coppie dello stesso sesso hanno la stessa capacità delle coppie di sesso diverso di entrare in relazioni stabili e impegnative», i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che sarebbe oramai “artificiale” mantenere la pregressa distinzione tra omosessuali ed eterosessuali, annunciando che le unioni omosessuali non saranno più comprese soltanto nella nozione di “vita privata”, ma nella nozione di “vita familiare” pure contenuta nell’art. 8 CEDU. Anche la Corte Costituzionale nella sentenza n. 138 del 2010 aveva mosso un passo nella stessa direzione, avendo ritenuto che le «unioni omosessuali» sono protette dall’art. 2 Cost. come le convivenze eterosessuali, così da suggerire l’accostamento alla nozione di “famiglia di fatto”, nota al nostro ordinamento.

Secondo la S.C. «le su riportate affermazioni, considerate unitamente al richiamo di specifici precedenti da parte della Corte costituzionale, non danno adito a dubbi circa il senso e, soprattutto, gli effetti dei dicta delle due Corti nell’ordinamento giuridico italiano», nel senso che i componenti della coppia omosessuale sono «titolari del diritto alla “vita familiare”»[70]. Con il recepimento anche del secondo revirement europeo, dunque, anche nel nostro ordinamento giuridico le unioni omosessuali sono “famiglia”.

La sottolineatura della S.C. è assai opportuna[71]. Non sempre le nostre corti di merito avevano recepito la diretta incidenza della svolta di Strasburgo: di recente, ad esempio, il tribunale penale di Milano pur riconoscendo correttamente la risarcibilità del danno da perdita di rapporto parentale nei confronti del convivente more uxorio dello stesso sesso, aveva aggiunto «senza dover equiparare in alcun modo la convivenza omosessuale alla famiglia, né legale né di fatto, né ad un rapporto di coniugio foriero di precisi diritti e doveri riconosciuti dall’ordinamento, e senza voler richiamare le interpretazioni della Corte europea dei diritti dell’Uomo, estranei alla nostra carta costituzionale, in tema di equiparazione dei diritti di una coppia omosessuale ad una coppia sposata»[72]. Come rammenta la S.C., invece, le norme della CEDU devono trovare applicazione diretta nell’ordinamento giuridico ed i giudici italiani sono tenuti a conformarsi all’interpretazione affidata ai giudici della Corte europea, che integra la coppia omosessuale nella nozione di famiglia[73].

La piena equiparazione tra convivenze more uxorio eterosessuali ed omosessuali è, in verità, principio già consolidato in giurisprudenza (per quanto non ve ne sia forse ancora piena coscienza, neppure in dottrina). Il principio è stato affermato sin da alcune risalenti decisioni[74] e continua ad essere reiterato in pronunce più recenti per cui «la convivenza omosessuale non modifica il concetto di convivenza more uxorio, poiché tale locuzione, che sta ad esprimere un modo di vivere come conviventi, è conforme sia alla convivenza omosessuale che a quella eterosessuale»[75].

La questione tuttora aperta attiene, invece, al raffronto tra coppie omosessuali e coppie coniugate. La S.C. conferma sul punto la lettura della 138/2010, che era stata già propugnata in questa Rivista, che segnala un’inedita apertura ad un diffuso controllo giurisdizionale sul rispetto del principio di eguaglianza[76]. Rileva inequivocabilmente la S.C. come «i componenti della coppia omosessuale … possono adire i giudici comuni per far valere, in presenza appunto di “specifiche situazioni”, il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata»[77]. La sottolineatura delle “specifiche situazioni” non indica peraltro che le situazioni siano eccezionali o limitate, ma soltanto che, mancando la “disciplina organica” auspicata dalla Corte costituzionale, l’intervento del giudice ordinario dovrà essere necessariamente settoriale e per casi specifici: mentre l’auspicata legge avrebbe i caratteri della generalità e dell’astrattezza, l’intervento giurisdizionale è per sua natura rivolto a “situazioni specifiche” ed “ipotesi particolari”.

Spetta adesso alla giurisprudenza verificare l’operatività in concreto della “necessità di un trattamento omogeneo” tra la famiglia formata da persone dello stesso sesso (e dai loro figli) e la coppia sposata[78].

10. Conclusioni

L’abbandono d’ogni riferimento a questioni ontologiche e “di natura” («essendo stata radicalmente superata la concezione secondo cui la diversità di sesso dei nubendi è presupposto indispensabile, per così dire “naturalistico”, della stessa esistenza del matrimonio»), alla tradizione (la Corte dà atto della “radicale evoluzione” rispetto ad una tradizione millenaria) ed a divieti costituzionali (la “libera scelta del Parlamento”) segna il passaggio della nostra giurisprudenza ad un approccio più laico alla questione del matrimonio e della famiglia tra persone dello stesso sesso.

L’affermazione della S.C. per cui la definizione del matrimonio è rimessa al legislatore ordinario, ha una distinta conseguenza esegetica, ad esempio, in caso di mutamento di sesso di uno dei coniugi ove, come noto, una specifica norma prevede che dopo il passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di sesso il divorzio “può essere domandato da uno dei coniugi”, senza la necessità di preventiva separazione (art. 3, comma 2, l. 1° dicembre 1979 n. 898, lett. g). La legge ordinaria veniva sottoposta, da un predominante orientamento, ad un’interpretazione che forzava il suo tenore letterale, nel convincimento che dopo la rettificazione anagrafica l’unione non potesse essere più ricondotta alla nozione di “matrimonio”. Il “riconoscimento” operato dall’art. 12 CEDU, con rimessione della garanzia al legislatore ordinario, consente oggi di leggere la norma per quanto effettivamente afferma[79].

Ma vi è un altro spunto esegetico di ancora maggior respiro, poiché con la sentenza in commento il dibattito costituzionale sul matrimonio acquista nuova luce.

Nella sentenza n. 138 del 2010 la Consulta, rilevando per un verso che i concetti di “famiglia e matrimonio” contenuti nell’art. 29 vanno interpretati tenendo conto delle trasformazioni dell’ordinamento e dell’evoluzione della società e dei costumi[80], aveva centrato per altro verso la motivazione esclusivamente sull’argomento cd. “definitorio” o definitional, ritenendo che l’accesso ad una nozione egualitaria di matrimonio “in assenza di diversi riferimenti” costituisse “interpretazione creativa” preclusa al giudice[81]. Appena poche settimane dopo, la Corte europea dei diritti dell’uomo attestava, invece, che l’inclusione delle unioni omosessuali nella nozione di matrimonio, lungi dall’essere “interpretazione creativa”, è un dato consolidato della cultura giuridica contemporanea. Il termine matrimonio, di per sé, non costituisce dunque più ostacolo ad un’interpretazione evolutiva.

Nella ricerca della funzione della norma costituzionale (del suo c.d. “nucleo duro”), l’accento dovrebbe essere posto, allora, sull’altra locuzione, pure contenuta nell’art. 29, per cui la famiglia è riconosciuta come “società naturale”. Lasciando perdere alcune argomentazioni francamente sopra le righe (per cui l’aspirazione delle coppie dello stesso sesso a costituire famiglia sarebbe “innaturale”), la funzione dell’art. 29 deve essere più ragionevolmente rinvenuta nella primaria esigenza di prevenire limitazioni o strumentalizzazioni ideologiche ed autoritative, senza che ciò implichi alcun rimando giusnaturalistico. Com’è affermato dalla migliore dottrina e dalla Consulta, l’espressione “società naturale” esprime difatti l’esigenza di salvaguardare la famiglia come realtà sociale, soggetta alle trasformazioni dell’ordinamento ed all’evoluzione della società e dei costumi, che lo Stato non definisce ma si limita a riconoscere e garantire[82]. Si tratta, dunque, di una realtà sociale in movimento, in cui si manifestano esigenze personalissime legate alla sfera più privata degli esseri umani, agli affetti, alla cura, alla reciproca solidarietà, realtà sociale che la Costituzione protegge impedendo che venga soffocata dalla “ragione politica”. In ciò consta il nucleo vincolante dell’art. 29, immodificabile per via interpretativa[83]. La richiesta di riconoscimento da parte delle famiglie composte da persone dello stesso sesso (e dai loro figli) torna allora ad interrogarci sul contenuto attuale dell’art. 29 quale norma di protezione della famiglia e del diritto fondamentale al matrimonio[84].



Note:

[1] L’Ufficiale dello Stato Civile del Comune di Latina con atto dell’11 agosto 2004, conformandosi al parere espresso dal Min. Int., rifiutava la trascrizione «per non essere previsto nel nostro ordinamento il matrimonio tra soggetti dello stesso sesso, in quanto contrario all’ordine pubblico».

[2] Per una vicenda per certi versi analoga, v. Trib. Treviso 19 maggio 2010, in Dir. Fam., 2011, 3, 1239, con nota Winkler, Ancora sul rifiuto di trascrizione in Italia di same-sex marriage straniero: l’ennesima occasione mancata. Nella specie si trattava di una trascrizione conseguita ad un errore nell’atto, poiché uno dei nubendi era indicato come “nata” in Francia, così che l’ufficiale di stato civile del Comune di Quinto di Treviso non si accorgeva dell’identità di sesso e disponeva la trascrizione; il Tribunale di Treviso ha quindi disposto l’annullamento della trascrizione.

[3] Con l. 21 dicembre 2000, n. 9, è stato sostituito l’art. 30, comma 1, del codice civile, il quale dispone adesso che «Un matrimonio può essere celebrato tra due persone di sesso diverso o dello stesso sesso».

[4] Con l’espressione “matrimonio egualitario” si sottolinea come non si tratti di un nuovo, inedito, istituto giuridico, ma dell’accesso ad un diritto fondamentale già previsto. Ad oggi otto nazioni europee contemplano già una definizione gender-neutral del matrimonio (Olanda, Belgio, Spagna, Norvegia, Svezia, Portogallo,  Islanda e Danimarca); analoghe leggi sono state annunciate dal governo in Inghilterra ed in Francia, ma anche Finlandia, Scozia, Lussemburgo e Andorra. Fuori d’Europa, il divieto è stato rimosso in sette Stati degli U.S.A. (tra cui la capitale, Washington D.C., e New York), in Canada, Sudafrica, Argentina e nella capitale messicana.

[5] Oltre che in Italia, non vi è alcuna legge in Turchia, Grecia, Cipro, Malta, oltre che in gran parte dei Paesi ex comunisti.

[6] Art. 6, comma 1 e 2 del Trattato.

[7] C. Cost. 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349, in Giur. cost., 2007, 5, 3475.

[8] C. Cost. 15 aprile 2010, n. 138, in questa Rivista, 2010, 653, con nota Gattuso; in Foro it. 2010, 1367, con note Dal Canto e Romboli.

[9] Per un quadro generale del dibattito giuridico italiano, cfr.: AA. VV., Amore civile, dal diritto della tradizione al diritto della ragione, a cura di De Filippis e Bilotta, Mimesis, 2010; AA.VV., Le unioni tra persone dello stesso sesso – Profili di diritto civile, comunitario e comparato, a cura di Bilotta, Mimesis, 2008; Bonini Baraldi, Le nuove convivenze tra disciplina straniera e diritto interno, Ipsoa, 2005; Bonini Baraldi, La famiglia de-genere Matrimonio omosessualità e costituzione, Mimesis, 2010; Winkler e Strazio, L’abominevole diritto, Il Saggiatore, 2011; AA.VV., La “società naturale” ed i suoi “nemici”. Sul paradigma eterosessuale del matrimonio, a cura di Bin, Brunelli, Guazzarotti, Pugiotto, Veronesi, Giappichelli, 2010; AA.VV., Unioni e matrimoni same-sex dopo la sentenza n. 138 del 2010: quali prospettive, a cura di Pezzini e Lorenzetti, Jovene, 2011; n. 4/2011 di Ianus, interamente dedicato all’argomento.

[10] Trib. Latina 31 maggio 2005, in questa Rivista, 2005, 411, con note Schlesinger e Bonini Baraldi; in Nuova giur. civ. e comm., 2006, I, 86, con nota Bilotta; in Resp. civ. e prev., 2008, 11, 2344, con nota Ferrando; in Riv. not., 2006, 3, 740, con nota Musolino; in Diritto e giustizia, 2005, 30, con nota Dosi; in Dir. imm. e citt., 2006, 32, con nota Corbetta; in Dir. fam., 2005, 1268, con nota Cavana, cit. in Giur. mer., 2005, 2292, con nota Orlandi; ulteriori commenti in Dir. Fam. 2006, I, 606, con nota di Casini e Di Pietro, Il matrimonio tra omosessuali non è un vero matrimonio; Sinagra, Matrimonio omosessuale validamente celebrato all’estero ed ordine pubblico italiano e Danovi, Sull’inesistenza e non trascrivibilità del matrimonio per identità di sesso. Corte App. Roma 13 luglio 2006, in questa Rivista, 2007, 166, con nota Sesta; in Guida al dir., 2006, 35, 59, con nota Bilotta. Un esame della pronuncia anche in Oberto, Matrimoni misti e unioni paramatrimoniali: ordine pubblico e principi Sovranazionali, in questa Rivista, 2010, I, 75. Le due sentenze di merito sono variamente commentate anche in tutti i manuali e trattati di diritto di famiglia (nei capitoli sulla inesistenza del matrimonio e sul matrimonio contratto all’estero) e di diritto internazionale privato.

[11] Tra i primi commenti: Di Bari, Considerazioni a margine della sentenza 4184/2012 della Corte di Cassazione, in rivistaaic.it, 28 marzo 2012; Falletti, Quattro rondini fanno primavera?, in europeanrights.eu; Finocchiaro, L’atto deve essere considerato inidoneo a produrre effetti giuridici nell’ordinamento e Galluzzo, La Cassazione va in pressing sul legislatore per introdurre regole in favore delle unioni gay, in Guida al dir., 2012, 14, 35; Lorello, La Cassazione si confronta con la questione del matrimonio omosessuale, in rivistaaic.it, 8 maggio 2012; Massa Pinto, “Fiat matrimonio”, in rivistaaic.it, 4 aprile 2012; Schuster, Il matrimonio e la famiglia omosessuale in due recenti sentenze. Prime note in forma di soliloquio, in forumcostituzionale.it, 12 aprile 2012; Winkler, I matrimoni same-sex stranieri di fronte alla Cassazione, in Int’l Lis, 2012, 7.

[12] Si è reso necessario persino un peculiare intervento del Quirinale, che con missiva del suo segretario generale ha affermato, in risposta ad una richiesta d’intervento di due parlamentari, che «non pare che con il loro provvedimento i giudici della Cassazione abbiano voluto sostituirsi al legislatore o interferire sulle scelte che solo ad esso spettano».

[13] Ruggeri, Applicazioni e disapplicazioni dirette della CEDU (lineamenti di un “modello” internamente composito), 2011, il quale prosegue: «è singolare che molti storcano il muso davanti alla eventualità della applicazione diretta della fonte convenzionale, trascurando tuttavia, per un verso, che essa è senza indugio alcuno ammessa con riguardo alla Costituzione e, per un altro e decisivo verso, che la CEDU – non ci si stancherà di ripetere – è pur sempre una “legge” e che i giudici alle leggi stesse sono (esclusivamente) soggetti».

[14] La Suprema Corte già nel 2009 aveva colto che l’art. 9 della Carta europea dei diritti fondamentali «non richiede più come requisito necessario per invocare la garanzia dalla norma stessa prevista la diversità di sesso dei soggetti del rapporto» Cass. 17 marzo 2009, n. 6441, in questa Rivista, 2009, 454, con nota di Acierno.

[15] C. Edu, Schalk e Kopf contro Austria del 24 giugno 2010, in Nuova giur. civ. e comm., 2010, I, 1337, con nota Winkler. La Corte ha affermato la legittimità del c.c. austriaco, che non prevede una definizione egualitaria di matrimonio, poiché l’eventuale apertura del matrimonio è rimessa alla discrezionalità dei singoli Paesi; v. anche Danisi, La Corte di Strasburgo e i matrimoni omosessuali: vita familiare e difesa dell’unione tradizionale, in Quad. Cost., 2010, 867; Sileoni, La Corte di Strasburgo e i matrimoni omosessuali: il consenso europeo, un criterio fragile ma necessari, Ibidem, 870; Conte, Profili costituzionali del riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali alla luce di una pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Corr. giur., 2011, 586.

[16] Schalk and Kopf v. Austria, par. 61.

[17] Par. 3.3.4 della pronuncia in commento. Per la Suprema Corte «il diritto al matrimonio riconosciuto dall’art. 12 ha acquisito, secondo l’interpretazione della Corte europea – la quale costituisce radicale “evoluzione” rispetto ad “una consolidata ed ultramillenaria nozione di matrimonio” -, un nuovo e più ampio contenuto, inclusivo anche del matrimonio contratto da due persone dello stesso sesso» (par. 3.3.4); «il limitato ma determinante effetto dell’interpretazione della Corte europea (…) sta nell’aver fatto cadere il postulato implicito, il requisito minimo indispensabile a fondamento dell’istituto matrimoniale, costituito dalla diversità di sesso dei nubendi e, conseguentemente, nell’aver ritenuto incluso nell’art. 12 della CEDU anche il diritto al matrimonio omosessuale» (par. 4.4.1). Una prima sottolineatura di questa svolta della CEDU era emersa nel recente decreto del Trib. Reggio Emilia 13 febbraio 2012, in Dir. imm. citt., IV, 2011, 155, col quale è stato riconosciuto il diritto di soggiorno del coniuge dello stesso sesso di cittadino italiano (interpretando il termine “coniuge” contenuto nella Direttiva 2004/38/CE in senso includente, alla luce – prima ancora che dell’art. 12 CEDU nell’interpretazione scaturente da Schalk – della menzionata disposizione contenuta nell’art. 9 della Carta di Nizza).

[18] La Corte osserva che «non deve affrettarsi (it must not rush to) a sostituire il proprio giudizio a quello delle autorità nazionali, meglio posizionate per valutare e rispondere ai bisogni della società» (par. 62). L’accento è posto sulla “base comune nelle legislazioni dei Paesi aderenti” che assurge da tempo a criterio ermeneutico guida nell’esame della Convenzione (cd. “argomento consensualistico o statistico”, consensus standard): nella giurisprudenza della Corte il ricorso alla dottrina del cd. “margine di apprezzamento” è inversamente proporzionale al riconoscimento di un certo consenso europeo nel trattamento di una particolare questione. Più è certo e chiaro questo terreno comune (common ground), più ristretto è il margine di apprezzamento. Sarà interessante seguirne gli sviluppi se i governi francese e britannico confermeranno i loro programmi di apertura del matrimonio, poiché a quel punto il consenso europeo sull’equal marriage sarà più ampio di quello ravvisabile, ad es., all’epoca del superamento del divieto di matrimonio per i transessuali (in Goodwin v United Kingdom, 11 luglio 2002).

[19] Par. 3.3.4. A partire dalle sentenze C. Cost. 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349, cit., la giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che le norme della CEDU integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dal nuovo art. 117, comma 1, Cost. e che neppure la Corte costituzionale «può sostituire la propria interpretazione di una disposizione della CEDU a quella della Corte di Strasburgo» (da ultimo, C. Cost. 7 aprile 2011, n. 113, in Giur. cost., 2011, 2, 1523; C. Cost. 11 marzo 2011, n. 80, in Riv. dir. inter., 2011, 2, 578; C. Cost. 15 aprile 2010, n. 138, cit.; C. Cost.  4 giugno 2010, n. 196, in Giur. cost., 2010, 3, 2308; C. Cost. 28 maggio 2010, n. 187, in Giur. cost., 2010, 3, 2212); seguendo la cd. “teoria dei controlimiti”, la Corte costituzionale nel caso, ritenuto “eccezionale”, che la norma della Convenzione si ponga in conflitto con altre norme della Costituzione, ritiene che debba «essere esclusa l’idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro costituzionale considerato» (si avrebbe dunque una “non applicazione” della norma CEDU; cfr., da ultimo, sentenze C. Cost. 7 aprile 2011, n. 113, cit.; C. Cost. 12 marzo 2010, n. 93, in Riv. dir. inter., 2010, 2, 583, salva la possibilità per la Corte «di apprezzare la giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente, in modo da rispettarne la sostanza, ma con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi» (sentenze C. Cost. 22 luglio 2011, n. 236, in Giur. cost., 2011, 4, 3022; C. Cost. 4 dicembre 2009, n. 317, in Riv. dir. inter., 2010, 1, 180).

[20] La cogenza delle interpretazioni della CEDU per il giudice italiano (e la stessa sterzata semantica della Corte EDU) è minimizzata, invece, da Massa Pinto, “Fiat matrimonio”, cit., 4, che lamenta «che un inciso, di un’articolata motivazione, di una sentenza nella sostanza di rigetto, pronunciata da una corte, in un certo luogo, in un certo tempo, possa, d’un sol tratto – come l’atto prometeico che crea con la parola – inverare una sostanza assegnandole il nome proprio di un’altra: fiat matrimonio, e matrimonio fu!».

[21] Par. 4.3.

[22] La questione non era mai stata affrontata dalla Suprema Corte ma l’affermazione, condivisa dalla dottrina largamente maggioritaria, si trova, quale obiter, in Cass. 26 maggio 1976, n. 1808, in Rep. giur. it., 1976, 51; Cass. 22 febbraio 1990, n. 1304, in Giust. civ. mass., 1990;  Cass. 2 marzo 1999, n. 1739, in questa Rivista, 1999, 327; Cass. 9 giugno 2000, n. 7877, in questa Rivista, 2000, 509 e in Giust civ., 2000, I, 2897, con nota di Lacroce.

[23] Non sussistendo una «realtà fenomenica che costituisce la base naturalistica della fattispecie» (Cass. 9 giugno 2000, n. 7877,cit.); per il ricorrere di «situazioni estreme in cui il matrimonio non sarebbe neppure riconoscibile socialmente», Sesta, Diritto di famiglia, Padova, 2005, 67; o, secondo altra nota definizione, «quando manchi una fattispecie astrattamente rispondente all’idea di matrimonio nell’ambiente sociale delle parti», Bianca, La famiglia, Milano, 2005, 166.

[24] Segnalava in merito una “non trascurabile divergenza di opinioni”, Filanti, Inesistenza e nullità del negozio giuridico, Jovene, 1983, 188.

[25] «Ora, potrà offendere il senso dei più, sempre influenzato, in questa materia, da ricordi giusnaturalistici, più o meno precisi, il chiamare invalido anziché inesistente il matrimonio tra due persone dello stesso sesso (sebbene altrettanto dovrebbe offendere il sentir dire invalido e non inesistente il matrimonio tra padre e figlia, che secondo l’insegnamento cattolico osta al diritto naturale, o quello tra due persone già legate da altro vincolo matrimoniale o quello tra bambini); ma se si prescinde da queste impressioni, occorre riconoscere che si versa in un caso in cui il negozio formativo c’è stato, e nei suoi elementi formali è stato perfetto, mentre ciò che è mancato è la capacità delle parti, nei loro reciproci rapporti. Questa mancanza di capacità, se si prescinde da impressioni sentimentali e da rimembranze giusnaturalistiche, non mi pare diversa di fronte al diritto da quella propria del caso che contraessero matrimonio padre e figlia o due persone già legate da precedente vincolo», Jemolo, Il matrimonio, in Trattato di diritto civile, diretto da Vassalli, Torino, 1961, 45.

[26] La categoria nasce in verità al fine di superare il principio di tassatività delle invalidità matrimoniali (in particolare proprio per l’ipotesi di matrimonio con persona rivelatasi successivamente dello stesso sesso) e solo successivamente ha assolto il diverso ruolo sopra menzionato (cfr. Filanti, Inesistenza e nullità del negozio giuridico, cit., nota 16); sottolinea la scarsità di differenze tra inesistenza e nullità, sia con riguardo al reato di bigamia, sia perché neppure il matrimonio “inesistente” può essere oggetto di accertamento meramente incidentale (necessitando di una sentenza per paralizzare gli effetti di un’eventuale sua iscrizione/trascrizione nei registri dello stato civile), sia perché l’insanabilità consegue anche in varie ipotesi di nullità, Ferrando, L’invalidità del matrimonio, in Trattato di Diritto di famiglia, a cura di Zatti, Milano, 2011, 890.

[27] In questo senso, da ultimo, Ferrando, L’invalidità del matrimonio, cit., 898. Secondo Jemolo, per i casi di matrimoni celebrati tra persone dello stesso sesso per mero errore, «rarissimi e pietosissimi», «sarebbe iniquo non cercare di evitare almeno sul terreno economico effetti pregiudizievoli a quegli ch’è stato vittima della spiacevole avventura».

[28] Poiché l’esistenza di un atto, così come la sua validità, si devono valutare pur sempre alla stregua di una norma giuridica, una risalente dottrina ha nondimeno messo in discussione «il valore logico e pratico di ipotizzare casi di inesistenza» evidenziando «l’equivoco verbale su cui è fondata la distinzione tra inesistenza e nullità», F. Finocchiaro, Matrimonio, in Commentario cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Zanichelli, 1971, 898.

[29] Ferrando, L’invalidità del matrimonio, cit., 899. Anticipando puntualmente l’indirizzo della Corte, l’A. rileva che «la conseguenza della mancanza delle condizioni prescritte dalla legge italiana non può essere correttamente apprezzata in termini di “inesistenza”, bensì in quelli di inefficacia del matrimonio nell’ordinamento italiano».

[30] Il matrimonio può essere, ovviamente, valido ed efficace all’estero secondo i criteri di collegamento ivi vigenti, mentre sono qui in questione i suoi effetti anche in Italia. Sul matrimonio contratto all’estero: Ballarino, Diritto internazionale privato, Padova, 2011, 151; Calò, Sulla trascrizione dei matrimoni fra stranieri contratti all’estero, studio approvato dalla Commissione studi del Consiglio Nazionale del Notariato in data 16 dicembre 2002, n. 4191; Calvigioni, Matrimonio degli italiani all’estero: pubblicazione e trascrizione, in Stato civ., 2004, 9 ss.; Campione,  commento sub art. 115 c.c., in Codice della famiglia, a cura di Sesta, ed. II, Milano, 2009, 456; Cianci, Matrimonio, elementi di internazionalità ed ordine pubblico, in Dir. fam., 2003, 461; Dalla Serra, Il matrimonio del cittadino italiano all’estero e dello straniero in Italia, in Il diritto privato nella giurisprudenza, a cura di Cendon, Torino, 154; Ferrando, il matrimonio del cittadino italiano all’estero e del cittadino straniero in Italia, in Tratt. Cicu Messineo, Milano, 2002, V, I, 366; Nascimbene, Il matrimonio del cittadino italiano all’estero e dello straniero in Italia, in Il diritto di famiglia, trattato diretto da Bonilini e Cattaneo, I, 1, Torino, 2007, 189; Panella Il matrimonio del cittadino all’estero e dello straniero in Italia, in Trattato di diritto di famiglia, cit. 733; Renda, Del matrimonio del cittadino italiano all’estero, in Commentario del codice civile, diretto da Gabrielli, Della famiglia, sub. artt. 74-176, Torino, 2010, 215; Spotti Il matrimonio del cittadino italiano all’estero, in Fam. pers. e succ., 2009, 244; Vellano, in Coscia – Vellano, Il matrimonio del cittadino italiano all’estero e del cittadino straniero in Italia, in Il nuovo diritto di famiglia, diretto da Ferrando, Zanichelli, I, 476. Ancora, in generale sul tema: Distefano, Il matrimonio nel nuovo diritto internazionale privato italiano, in Riv. dir. int. priv. e proc., 1998, 325.

[31] Rossolillo, Registered partnership e matrimoni tra persone dello stesso sesso: problemi di qualificazione ed effetti nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. int. priv. proc., 2003, 380.

[32] Carella, Commento agli artt. 27 e 28, in Legge 31 maggio 1995, n. 218, in Commentario a cura di Bariatti, in Nuove leggi civ. comm., 1996, 1157; Rottola La valutazione internazional-privatistica dei presupposti giuridici di norme materiali comunitarie, in Dir. Un. Eu., 2004, 329; con specifico riguardo al caso de quo: Cavana, cit., 1270; Orlandi cit., 2298; Renda, cit., 229; contra, già prima della sentenza della Suprema Corte e della stessa Schalk, Corbetta, Trascrizione, cit. 37, che lamenta come nella sentenza di Latina manchi qualsiasi riferimento alla qualificazione dell’atto e ritiene che persino ammettendo l’inesistenza dell’atto per l’ordinamento italiano, ciò non potrebbe «condurre il giudice a dichiarare inesistente ciò che, invece, altrove già esiste e produce effetti»; criticamente anche Tomasi, La tutela degli status familiari nel diritto dell’Unione europea, Padova, 2007, 220.

[33] Un diverso percorso era segnalato da Mosconi, per il quale l’atto de quo non potrebbe essere qualificato in via diretta come matrimonio ma potrebbe essere sussunto comunque entro la fattispecie ex art. 27, l. n. 218/1995 ricorrendo all’analogia legis ex art. 12, comma 2, preleggi (sull’assunto che il d.i.pr. deve ricoprire ogni possibile soluzione e che non sussiste nella specie altro criterio applicabile), Mosconi – Campiglio, Diritto internazionale privato e processuale. Parte Speciale, Torino, 2006, 63. D’altra parte, per Mosconi sarebbe “altrettanto convincente” pure «il ragionamento che imposta tutto il problema in termini di qualificazione della fattispecie” posto che «una unione omosessuale, sebbene definita matrimonio dalla legge dello Stato estero di celebrazione, non è suscettibile di venire in alcun modo assimilata al matrimonio di diritto italiano» per cui è «inesistente», Mosconi, Europa, famiglia e diritto internazionale privato, in Riv. dir. int., 2008, 347. Lo stesso percorso dell’analogia è seguito dall’A. anche per le unioni registrate, eterosessuali od omosessuali (su cui, con ampi riferimenti bibliografici, Tonolo, Lo scioglimento delle unioni di fatto e degli accordi di convivenza nel diritto internazionale privato e processuale italiano, in Riv. dir. int., 2005, 997). Seguendo tale indirizzo la qualificazione dell’atto come “matrimonio” o come unione registrata sarebbe dunque irrilevante per il nostro ordinamento giuridico, dovendosi comunque procedere alla qualificazione ex art. 12 Prel.. Tale indifferenza non sembra più confacente alla luce della sentenza in commento: il matrimonio dovrebbe essere qualificato ex art. 27 cit. per la via maestra, mentre le unioni registrate, nelle varie forme previste dagli ordinamenti, dovrebbero essere riconducibili alla medesima norma per analogia.

[34] L’art. 28, l. 218/1995 prevede infatti il concorso di ben quattro criteri alternativi di collegamento che rendono estremamente improbabile che non sia riconosciuto nel nostro ordinamento (cd. favor validitatis).

[35] Si tratta infatti di condizione certamente reciproca, analoga all’ipotesi dell’impedimento bilaterale: si parla al riguardo di concorso cumulativo essendo richiesta per la validità del rapporto l’osservanza di più leggi (Ballarino, Diritto internazionale privato, cit., 60).

[36] Il principio, già sufficientemente limpido, è ribadito anche dall’art. 115, comma 1, c.c. («Matrimonio del cittadino all’estero»), che prescrive che il cittadino italiano anche quando si sposi in un paese straniero è soggetto alle norme italiane sulle “condizioni necessarie per contrarre matrimonio” stabilite nel Capo III, sezione I del codice civile. La norma codicistica, sopravvissuta anche alla riforma del d.i.pr., ha scarsa valenza, poiché le norme richiamate troverebbero in ogni caso applicazione in forza dell’art. 27; ha comunque ambito meno ampio poiché fa riferimento ai soli impedimenti dirimenti previsti dagli artt. 84 e ss. c.c. e non, ad es., alla diversità di sesso.

[37] Par. 2.1.

[38] La Costituzione italiana non fa alcun riferimento, neppure indiretto, all’identità di genere dei nubendi, né (per ragioni su cui non è possibile dilungarsi in questa sede, ma vedi infra par. 10), può darsi rilievo alla locuzione “società naturale”, pure contenuta nell’art. 29. Ciò distingue la nostra Carta costituzionale da quelle Carte che contengono un riferimento, almeno indiretto, al genere dei nubendi, in particolare proprio il menzionato art. 12 CEDU e l’art. 32 della Costituzione spagnola («el hombre y la mujer tienen derecho a contraer matrimonio con plena igualdad jurídica») che pure non hanno precluso un’interpretazione evolutiva includente.

[39] Contra Bilotta per cui, atteso che la limitazione alle unioni eterosessuali non è imposta da alcuna norma cogente ma da una mera tradizione interpretativa, la stessa ben potrebbe essere aggiornata dai giudici con interpretazione costituzionalmente orientata, nota a C. App Roma in Guida al dir., 2006, cit. 91.

[40] Par. 2.2.1.

[41] La Cassazione rimanda alle valutazioni della Consulta aggiungendo soltanto che «la Costituzione, non essendo stata ovviamente concepita e formulata in un “vuoto normativo”, richiama innumerevoli volte concetti, nozioni ed istituti che (…) acquistano, con il recepimento nel testo costituzionale (…) valore e forza propri delle norme costituzionali e, quindi, l’idoneità a costituire parametri del controllo di costituzionalità» (par. 3.1.); appare tuttavia sin troppo evidente la contraddizione, nella misura in cui la stessa Suprema Corte ammette che tali “concetti, nozioni ed istituti” (famiglia e matrimonio) abbiano assunto già un nuovo contenuto nella realtà sociale e nel diritto positivo.

[42] La Corte non ritiene inoltre di dovere proporre rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia sull’assunto che nella specie non v’è materia di competenza dell’Unione europea poiché il mancato riconoscimento del matrimonio non ha ostacolato la circolazione (tant’è che i coniugi si trovano in Italia). La questione meriterà ulteriore approfondimento, posto che la migliore dottrina sottolinea da tempo che «le stesse libertà di circolazione intracomunitarie possono essere meglio assicurate se il soggetto che ne beneficia ha la certezza di vedersi riconosciuto il suo status personale ed i rapporti di famiglia anche in altri Stati membri» Cubeddu, I principi di diritto europeo della famiglia, in Trattato di diritto di famiglia, cit. 105. Sulla nozione di “cittadinanza europea” e l’esigenza di reciproco riconoscimento dello status familiae, cfr. Baratta, Verso la “comunitarizzazione” dei principi fondamentali del diritto di famiglia, in Riv. dir. int. priv. proc., 2005, 573; Rossi, L’incidenza dei principi del diritto comunitario sul diritto internazionale privato: dalla “comunitarizzazione” alla “costituzionalizzazione”, in Riv. dir. int. priv. proc., 2004, 63.

[43] Non è questa la sede per esporre le diverse esegesi della decisione della C. Cost. 15 aprile 2010, n. 138, cit.; per una disamina sia consentito rimandare a Gattuso, Il matrimonio tra persone dello stesso sesso, in Trattato di diritto di famiglia, cit., 793.

[44] Come rilevato dalla Suprema Corte par. 3.1.

[45] Par. 4.1 (corsivi aggiunti).

[46] La possibilità di regolamentare le famiglie non matrimoniali, sia etero che omosessuali è ormai indubbia, anche alla luce della riconducibilità alla nozione di formazione sociale ex art. 2 Cost. affermata dalla C. Cost. 15 aprile 2010, n. 138, cit. (il dato non era pacifico: cfr. Giacobbe, Famiglia o famiglie: un problema ancora dibattuto, in Dir. Fam., 2009, 305).

[47] Com’è stato evidenziato (D’Angelo, La Consulta al legislatore: questo matrimonio “nun s’ha da fare”, in forumcostituzionale.it, 16 aprile 2010 ed in termini critici Veronesi, Il paradigma eterosessuale del matrimonio e le aporie del giudice delle leggi, in Studium iuris, 2010, 1007; Gattuso, op. ult. cit., nota 226), in questa materia non si può escludere del tutto il rischio di un conflitto tra Carte.

[48] Sul d.P.R. 396/2000: Arena, Osservazioni sulle modalità per applicare praticamente l’art. 18 del nuovo Regolamento dello stato civile, in Stato civ., 2006, 83; Benedetti, Il nuovo regolamento di stato civile: le novità del d.P.R. 396/2000 in tema di matrimonio, in Familia, 2001, III, 643; Biagioni, Pubblicazioni matrimoniali e ordine pubblico, in Riv. dir. int., 2003, 704; Cafari Panico, Lo straniero e l’ordinamento civile, in Riv. dir. int. priv. proc., 2007, 934; Coscia, A proposito dell’art. 18 del regolamento stato civile sulla intrascrivibilità degli atti formati all’estero contrari all’ordine pubblico, in Stato civ., 2006, 420; F. Finocchiaro, Il nuovo ordinamento dello stato civile, la trascrizione delle sentenze straniere e delle sentenze ecclesiastiche, in Dir. eccl., 2001, 397.

[49] Secondo un orientamento, il P.U. «sicuramente dovrà accertare che nel matrimonio celebrato all’estero dal cittadino italiano risultino rispettate le condizioni ed i requisiti richiesti dal nostro ordinamento e non sussistano impedimenti» (Calvigioni, Matrimonio degli italiani all’estero: pubblicazione e trascrizione, cit., 9 ss.); così anche Renda, Del matrimonio del cittadino italiano all’estero, cit., 232 (il quale sottolinea come «non v’è motivo di nutrire diffidenza» nei confronti di tale controllo amministrativo attesa la possibilità di ricorrere successivamente all’Autorità Giudiziaria); Coscia, A proposito dell’art. 18 del regolamento stato civile sulla intrascrivibilità degli atti formati all’estero contrari all’ordine pubblico, cit., 420 (per cui «questo pubblico ufficiale non è un semplice amanuense o trascrittore passivo dell’atto pervenuto dall’estero, ma è organo istituzionale dotato di poteri propri»); Cafari Panico, Lo straniero e l’ordinamento civile, cit., 934. Contra, invece, altro indirizzo per cui – tenuto conto del noto orientamento della Suprema Corte per cui il matrimonio invalido produce effetti sino alla dichiarazione di invalidità, cfr. Cass. 13 aprile 2001, n. 5537, in questa Rivista, 2001, 557, la norma non dovrebbe «essere applicata sulla base di una contrarietà all’o.p. supposta dall’ufficiale di stato civile, bensì sul piano di una sentenza che detta contrarietà accerti», Arena, Osservazioni sulle modalità per applicare praticamente l’art. 18 del nuovo Regolamento dello stato civile, cit., 83; così anche Orlandi cit., 2297; Winkler, cit., 1239; F. Finocchiaro, op. ult. cit., (per cui «non si vede come l’ufficiale dello stato civile possa essere istituzionalmente attrezzato per esercitare un controllo del genere. … l’ufficiale dello stato civile di un piccolo comune, che dovesse trascrivere e annotare una sentenza straniera in materia matrimoniale, non si vede a quale santo dovrebbe rivolgersi»).

[50] Par. 2.2 (corsivo aggiunto).

[51] L’orientamento è costante anche in giurisprudenza, tra le tante: Cass. 28 aprile 1990, n. 3599, in Giust. civ., 1990, I, 1693.

[52] Cass. 14 febbraio 1975, n. 569, in Dir. fam., 1975, 409; Cass. 17 settembre 1993, n. 9578, in Giust. civ., 1994, I, 79; Cass. 19 ottobre 1998, n. 10351, in Giust. civ. mass., 1998.

[53] Par. 2.2.1. D’altra parte, tale potere di controllo trova corrispondenza per la materia matrimoniale nei poteri dell’ufficiale di stato civile di rifiuto delle pubblicazioni e della celebrazione ex artt. 98 e 112 c.c. (sul punto v. Biagioni, cit., 704).

[54] La Suprema Corte rileva che gli articoli da 84 a 88 del codice civile «stabilendo gli impedimenti al matrimonio cosiddetti dirimenti, pongono certamente, di regola, norme di “ordine pubblico”» (par. 2.2).

[55] Art. 64 d.P.R. n. 396 del 2000 («Contenuto dell’atto di matrimonio») secondo cui «L’atto di matrimonio deve specificamente indicare: a) il nome e il cognome, il luogo e la data di nascita, la cittadinanza e la residenza degli sposi (…); b) la data di eseguita pubblicazione (…); c) il decreto di autorizzazione quando ricorra alcuno degli impedimenti di legge (…); e) la dichiarazione degli sposi di volersi prendere rispettivamente in marito e moglie».

[56] Par. 2.2.

[57] Non pare, invece, che l’ufficiale di stato civile possa trascrivere l’atto non come “matrimonio” disciplinato dalla legge italiana ma come atto contratto all’estero privo degli effetti del matrimonio secondo la nostra legislazione (con efficacia di mezzo di prova del rapporto perfezionatosi all’estero, ai fini ad es. della decorrenza di un rapporto stabile). Il sistema di pubblicità previsto dal Legislatore per gli atti dello stato civile prevede difatti la pubblicazione, nelle forme stabilite dalla Legge, soltanto degli atti dalla stessa previsti, nel loro contenuto tipico, e per gli effetti contemplati dal codice (cfr., con riguardo al sistema previgente, ma i principi non mutano, Andrini, Gli atti dello stato civile, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, IV, III, Torino, 1982, 910); la pubblicità dell’avvenuta celebrazione del matrimonio è diretta a rendere noto ai terzi uno specifico atto che incide sullo status dei contraenti rendendo esigibili tutti i diritti connessi al matrimonio (art. 130 c.c.: «nessuno può reclamare il titolo di coniuge e gli effetti del matrimonio, se non presenta l’atto di celebrazione estratto dai registri dello stato civile»); l’ordinamento dello stato civile detta con riguardo alla compilazione dell’atto regole specifiche e circostanziate e non pare che possa ravvisarsi l’obbligo per l’ufficiale di stato civile di trascrivere atti o fatti giuridici diversi e/o per effetti diversi da quelli ivi contemplati (per l’interpretazione ministeriale nel diverso caso di matrimonio tra stranieri v. però infra nota 69). Si deve rilevare, comunque, la diversa decisione della Corte suprema di Israele che ha ammesso invece la registrazione dei matrimoni celebrati all’estero affermando l’illegittimità del rifiuto di trascrizione del matrimonio canadese di due cittadini israeliani dello stesso sesso poiché la medesima non ha effetti sostanziali, né comporta il riconoscimento di uno status familiare nel foro (Corte Supr. d’Israele 21 novembre 2006 Yosri Ben Ari and others v DPA Ministry of Interior).

[58] 4.3 (corsivi aggiunti).

[59] Si è deplorata al riguardo la nascita di una “teoria della inidoneità”, che come un Golem modellata dall’argilla ricavata “dalle ceneri di un corpo che era già cadavere”, sostituisce adesso “la teoria dell’inesistenza”, Schuster, Il matrimonio e la famiglia omosessuale in due recenti sentenze. Prime note in forma di soliloquio, cit.

[60] È noto, difatti, che l’atto di matrimonio eventualmente invalido possa continuare a produrre determinati effetti sino all’accertamento dell’invalidità, v., ad es., Cass. 2 marzo 1999, n. 1739, in Arch. civ., 1999, 1377, con nota Santarsiere ed in Giust. civ., 1999, I, 2695, con nota Di Gaetano.

[61] Si parla al riguardo di efficacia – non costitutiva – ma “preclusiva” della trascrizione, cfr. Ferrando, L’invalidità del matrimonio, cit., 883.

[62] Cfr. retro note 26 e 28.

[63] Sesta, Diritto di famiglia, cit., 67.

[64] Per Ferrando, L’invalidità del matrimonio, cit., 899, «reputata la differenza di sesso tra gli sposi come condizione per contrarre un matrimonio valido secondo la legge italiana attuale, ne segue la sua intrascrivibilità, non diversamente da quanto dovrebbe dirsi a proposito del matrimonio all’estero del cittadino già coniugato»; ritengono che il matrimonio sia invalido anche Bonini Baraldi, Il matrimonio, cit., 422; Tomasi, La tutela, cit. 222, 231; lo definisce “invalido” anche Mosconi – Campiglio, Diritto internazionale privato e processuale. Parte Speciale, cit., 67 che tuttavia, come detto, ritiene comunque “convincente” anche l’ipotesi dell’inesistenza (Mosconi, Europa, famiglia, cit., 347).

[65] In più passaggi la Cassazione precisa come la “specifica questione” oggetto di suo esame consista esclusivamente «nello stabilire se due cittadini italiani dello stesso sesso, i quali abbiano contratto matrimonio all’estero, siano, o no, titolari del diritto alla trascrizione del relativo atto nel corrispondente registro dello stato civile italiano (corsivo aggiunto)», v. par. 2.2.1 e l’espressione è reiterata nei par. 2.2.3, 3.3.2 e 4.3.

[66] Si deve tenere conto del carattere relativo ed evolutivo dell’o.p.i. e di come il medesimo vada sempre più identificandosi con la protezione dei diritti fondamentali (cfr. Lotti, L’ordine pubblico internazionale, la globalizzazione del dir privato ed i limiti di operatività degli istituti di origine estera, Milano, 2005, 74, il quale evidenzia la “equiparazione perfetta” tra diritti fondamentali dell’uomo ed o.p.i, nella sentenza Cass. Sez. U., n. 189 del 8/1/1981); in particolare, secondo un indirizzo della Suprema Corte, l’indagine deve essere condotta con criteri diversi a seconda che operi soltanto nei confronti di stranieri od (anche) di italiani (Cass. 8 gennaio 1981, n. 189, in Giust. civ., 1982, 279, con nota Bianchini; Per Lotti, L’ordine pubblico internazionale, la globalizzazione del dir privato ed i limiti di operatività degli istituti di origine estera, cit., 70, in termini generali «nessun effetto traumatizzante può scaturire da disposizioni straniere applicate dal nostro ordinamento a persone straniere»; critici Mosconi – Campiglio, Diritto internazionale privato e processuale. Parte Speciale, cit., 256); si dovrà tenere conto, altresì, della posizione particolarmente restrittiva sulle norme nazionali di applicazione necessaria, tanto della dottrina (Treves, Articolo 17 in Legge 31 maggio 1995, n. 218, in Commentario a cura di Bariatti, in Nuove leggi civ. comm., 1996, 976), quanto della Corte di giustizia (Corte di giustizia 23 novembre 1999, n. 369, in Studium oecon, 2000, 282; Corte di giustizia 15 marzo 2001, C-165/98, Mazzoleni e da ultimo Corte di giustizia 19 giugno 2008, n. 319, C-319/06). Fonda invece una “difesa avanzata” dell’armonia del sistema su una (implicita) norma di applicazione necessaria che imporrebbe la diversità di genere, Mosconi, il quale prospetta nondimeno «la possibilità che la Corte venga sollecitata a ravvisare nella norma cogente italiana che esige l’eterosessualità un ostacolo alla libertà di circolazione delle persone, e a rivendicare a se stessa un potere di sindacato» (Mosconi, Europa, famiglia, cit., 350; Mosconi– Campiglio, Diritto internazionale privato e processuale. Parte Speciale, cit., 256).

[67] Già nel 2005, ad es., il Ministro della giustizia francese, in due risposte sull’efficacia in Francia dei matrimoni tra persone dello stesso sesso contratti all’estero, ha rilevato che la questione «deve essere affrontata alla luce dei criteri collegamenti utilizzati nel diritto internazionale privato interno» che richiama, in Francia come in Italia, la legge nazionale di ciascun coniuge. Cosicché il matrimonio contratto tra due francesi non è riconoscibile, mentre lo è quello tra coniugi entrambi stranieri se la loro legge lo ammette, Risposta del Ministro della giustizia francese, in Riv. dir. int. priv. proc. 2006, I, 345 (citata anche in Quierolo, Art. 27 Condizioni per contrarre matrimonio, Diritto comunitario e internazionale. Diritto internazionale privato I Torino, 2011, 749).

[68] La trascrizione è possibile se il matrimonio è celebrato in Italia o se gli stranieri ivi risiedano.

[69] Secondo la Circ. MIACEL del 26 marzo 2001, n. 2, si tratta di trascrizioni «meramente riproduttive di atti riguardanti cittadini stranieri formati secondo la loro legge nazionale da autorità straniere» e per tale ragione non si applicherebbe l’art. 18 cit. sul controllo di o.p.. Secondo tale impostazione la trascrizione prevista dall’art. 19 avrebbe effetti particolarmente limitati, non avendo altro scopo che quello di offrire agli interessati la possibilità di ottenere copia integrale dell’atto senza doversi recare nel luogo in cui esso è stato formato, come si desumerebbe dall’ultimo capoverso dello stesso art. 19 («3. L’ufficiale dello stato civile può rilasciare copia integrale dell’atto trascritto a richiesta degli interessati»). La conseguenza di tale ricostruzione sarebbe, ad es., l’impossibilità di eseguire annotazioni ex art. 69 d.P.R. n. 396/2000. Secondo la dottrina prevalente è, invece, preferibile la tesi della piena efficacia della trascrizione ex art. 19, cfr. Mazzotta, Brevi note sulla trascrizione nei registri dello stato civile dei matrimoni contratti all’estero, in Riv. not., 2007, 1114; Calò, Sulla trascrizione, cit.; Liotta Un altro passo verso la conoscenza dell’art. 69 del d.P.R. n. 396 del 2000 presso gli archivi dello stato civile, in Dir. fam., 2010, 1, 203; in giurisprudenza conformi Trib. Torino 14 maggio 2009, in Riv. not., 2010, 4, 1114, con nota Mazzotta, cit.; Trib. Monza 31 marzo 2007, in Riv. Not., 2007, 1171, con nota Zisa; Trib. Venezia 25 settembre 2006, in Guida al dir., 2006, 82.

[70] Par. 4.2.

[71] Né può dirsi che la Cassazione vada “fuori tema” atteso che il nesso tra matrimonio e famiglia è talmente stretto che anche la Corte di Strasburgo e la nostra Consulta (C. Cost. 15 aprile 2010, n. 138, cit.) hanno affrontato tanto il tema del matrimonio che quello della tutela delle unioni omosessuali.

[72] Trib. Milano, 12 settembre 2011, in Nuova giur. civ. e comm., 2012, I, 205, con nota Lorenzetti.

[73] Ai fini della liquidazione del danno da lesione della vita di relazione, ad esempio, se l’unione presenta carattere di stabilità si dovrà certamente escludere, a norma degli art. 2 Cost. e 8 C.E.D.U., ogni differenziazione di trattamento anche con riguardo al quantum tra unione omosessuale e coppia coniugata.

[74] La giurisprudenza ha attestato, ad es., la rilevanza della relazione di convivenza ai fini della sublocazione dell’immobile, Trib. Roma 20 novembre 1982, in Riv. giur. edil., 1983, I, 959; della qualifica di obbligazione naturale per le donazioni tra conviventi omosessuali, Trib. Firenze, 11 agosto 1986, in Dir. eccl 1989, II, 367; Trib. Milano, 1° luglio 1993, in Gius, 1994, 103; del diritto del convivente omosessuale d’astenersi dal testimoniare contro il partner Corte assise Torino (ord.), 19 novembre 1993, in Riv. pen., 1994, 55. Per una ricognizione della giurisprudenza, anche di merito, v. Gattuso, Orientamento sessuale, famiglia, eguaglianza, in Nuova giur. civ. e comm., 2011, 584.

[75] Trib. Milano 15 dicembre, 2009, in presonaedanno.it., che ha accertato il diritto di iscrizione del convivente omosessuale alla Cassa Mutua nazionale per il personale delle banche di credito cooperativo.

[76] Gattuso, La Corte Costituzionale sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, in questa Rivista, 2010, 658.

[77] Par. 4.2 corsivo aggiunto.

[78] Sottolinea che «non è più possibile negare dignità di vita familiare alla relazione di coppia omosessuale, esattamente negli stessi termini riconosciuti alla coppia eterosessuale coniugata» e che dopo la sentenza della Suprema Corte «a tali coppie deve essere estesa, se non l’etichetta “matrimonio”, sicuramente gli effetti e le tutele che questo garantisce sotto tutti i profili giuridici» Falletti in europeanrights.eu, cit., 2. Sia consentito rimandare a Gattuso, La Corte Costituzionale sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, cit., 658 per alcune notazioni in ordine alla (ir)rilevanza del vincolo matrimoniale; alla differenza rispetto alle convivenze eterosessuali (dove le parti hanno scelto di non sposarsi), tale per cui oggi le unioni omosessuali si collocano in uno spazio intermedio tra coppia coniugata e convivenza eterosessuale; al superamento da parte della Consulta, e adesso della Corte di Cassazione, dell’impostazione sin qui seguita dalle corti europee (che, sinora, hanno raffrontato con la coppia sposata soltanto le unioni omosessuali registrate, ma non con le coppie di Paesi ove non è prevista alcuna unione civile soggetta a pubblica registrazione). Sul giudizio di omogeneità cfr. anche Pezzini, La sentenza 138/2010 parla (anche) ai giudici, in Unioni e matrimoni same-sex, cit., 108.

[79] Sulle ragioni per cui non possono ritenersi dirimenti i termini “provoca” e “determina” contenuti nella legge n. 164 del 1982 (art. 4) e nella novella processuale del 2011 (art. 31, VI comma d.l.vo 1/9/2011 n. 150) sia consentito rimandare a Gattuso, Matrimonio, identità e dignità personale: il caso del mutamento di sesso di uno dei coniugi, in corso di pubblicazione in Dir. Fam..

[80] Par. 9 dei Considerato in diritto: «i concetti di famiglia e matrimonio non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei principi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi».

[81] Ibidem.

[82] «Come si desume dai lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, si volle sottolineare che la famiglia contemplata dalla norma aveva dei diritti originari e preesistenti allo Stato, che questo doveva riconoscere» ibidem.

[83] Sulla funzione dell’art. 29 e sul “paradosso” di una sua lettura contro le famiglie fondate da persone dello stesso sesso, sia consentito rimandare a Gattuso, Costituzione e matrimoni fra omosessuali, in Il Mulino, 2007, 452.

[84] Sulla dissonanza tra la pretesa indifferenza dell’art. 29 per le famiglie composte da persone dello sesso (e dai loro figli) e, ad esempio, le recenti affermazioni della stessa Consulta in materia di vincoli imposti dal legislatore alla libertà matrimoniale degli stranieri, cfr. Di Bari, La lettura in parallelo delle sentenze n. 138/2010 e n. 245/2011 della Corte costituzionale: una breve riflessione, in forumcostituzionale.it, 13 settembre 2011.