Corte di Cassazione, Ufficio del massimario e del ruolo, Relazione tematica 115 del 23 settembre 2008

IL RICONGIUNGIMENTO FAMILIARE RICHIESTO DA UN CITTADINO ITALIANO NEI CONFRONTI DI UN CITTADINO NEOZELANDESE LEGATI DAL VINCOLO DEL PARTNERARIATO DE FACTO VIGENTE NELL’ORDINAMENTO DELLA NUOVA ZELANDA . PROBLEMATICHE E QUESTIONI DA ESAMINARE.
SOMMARIO:
1.- Le fonti costituzionali e comunitarie:
a) La Costituzione.
b) La Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.
c) Le recenti Direttive Comunitarie in materia di ricongiungimento familiare: il rilievo delle unioni registrate.
2.- La giurisprudenza della CEDU e della Corte di Giustizia. 3.- La legge italiana in materia di ricongiungimento familiare e gli orientamenti della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione. 4.- La peculiarità delle unioni registrate all’estero: l’incidenza del diritto internazionale privato ed il limite dell’ordine pubblico. 1.- Le fonti costituzionali e comunitarie:
a) La Costituzione.
Il diritto al ricongiungimento familiare di cui può essere titolare il cittadino italiano (o comunitario) e il cittadino straniero richiede l’esame di una pluralità di fonti distinte non solo sotto il profilo gerarchico ma anche dal punto di vista settoriale. Le fattispecie concrete più frequenti, ed in particolare quella che forma oggetto della presente indagine, evidenziano infatti, la contestuale e concorrente applicabilità di differenti sistemi di regole. Oltre all’oggettiva interferenza di discipline normative regolanti ambiti diversi, viene in rilievo la non univoca natura delle situazioni meritevoli di tutela che riguardano il ricongiungimento familiare. La tendenziale conflittualità degli interessi in gioco emerge fin dall’esame delle fonti di natura costituzionale e comunitaria. Il diritto all’unità familiare ha un nucleo individuale e un contenuto relazionale. Quanto al primo aspetto la copertura costituzionale e comunitaria è assoluta e non tollera compressioni al pari di qualsiasi altro diritto fondamentale. Si tratta di una delle forme primarie di esplicazione della personalità dell’individuo, tutelata direttamente dall’art. 2 Cost., quanto al contenuto intrinseco ed all’art. 3 Cost. quanto al limite costituito dal divieto di discriminazioni.
b) La Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.
La tutela costituzionale non può, però, che integrarsi con quella direttamente derivante dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo che all’art. 8, primo comma, tutela la vita privata e familiare e all’art. 14 sancisce il divieto di discriminazioni in ordine al godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla Convenzione. Ponendo l’accento sul contenuto relazionale del diritto, il quadro costituzionale si completa con l’art. 29 che qualifica la famiglia, una “società naturale” fondata sul matrimonio, riconoscendo al nucleo relazionale così individuato, una tutela direttamente discendente dalla norma costituzionale e un rango preminente, tra le formazioni sociali che possono concorrere a formare la personalità degli individui. Analogamente l’art. 12 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo stabilisce che l’uomo e la donna hanno diritto di sposarsi e di formare una famiglia, secondo le leggi nazionali che regolano questo diritto. Infine la Carta di Nizza, oggi parte integrante del Trattato di Lisbona, firmato il 13/12/2007 e ratificato dal nostro paese il giorno 8/8/2008, tutela il diritto alla vita privata e familiare, come diritto individuale ed assoluto ed all’art. 9 riconosce il diritto di sposarsi e costituire una famiglia secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio. La formulazione del contenuto dei diritti enunciati all’art. 7 e all’art. 9 della Carta di Nizza, ancorché non direttamente vincolanti per mancanza di una completa ratifica del trattato di Lisbona da parte di tutti i paesi dell’Unione Europea, per un verso sembra escludere l’unicità del modello familiare fondato sul matrimonio mediante l’endiadi diritto di sposarsi e diritto di costituire una famiglia (anche attraverso organizzazioni della vita in comune diverse dal matrimonio), dall’altro non menziona più la diversità di sesso degli sposi o conviventi, configurando il diritto ad avere una vita familiare come un diritto caratterizzato dalle garanzie di assolutezza ed incomprimibilità proprie dei diritti fondamentali. Questa maggiore capacità espansiva proveniente dalla carta di Nizza, è stata sottolineata dalla dottrina (M.SESTA, Diritto di famiglia, Padova 2005, 399; G. FERRANDO, Il contributo della Corte Europea dei diritti dell’uomo all’evoluzione del diritto di famiglia, in Nuova Giur. Civile Commentata, 2005, 263 all. 1 e 2 dottrina), che, peraltro, non ha mancato di sottolineare come anche nella relazione di accompagnamento della Carta, sia stata sottolineata l’apertura verso la famiglia di fatto e verso forme di organizzazione della vita comune non esclusivamente caratterizzate dall’eterosessualità. Come è possibile rilevare già da un primo sommario esame delle fonti sopra indicate, il concreto riconoscimento di unioni diverse da quella coniugale eterosessuale è rimesso alla normazione interna degli Stati membri anche se le aperture contenute nella Carta di Nizza contengono un riconoscimento del pluralismo (e della generale meritevolezza di tutela) dei diversi modelli relazionali, all’interno dei quali può esplicarsi il diritto alla vita familiare senza preclusioni pregiudiziali dovute alla costituzionalizzazione o all’attribuzione di dignità giuridica solo a taluni di essi. Deve, però, escludersi che dall’apertura sopra delineata possa trarsi la conclusione che gli ordinamenti degli Stati membri siano tenuti a riconoscere efficacia giuridica ad unioni familiari diverse da quelle vigenti, all’interno dei singoli stati. Il diritto all’unità familiare, sia nella nuova e più ampia estensione riconosciuta dalla Carta di Nizza, sia nella forma attualmente espressa nella CEDU, non determina a carico degli stati membri ne’ l’obbligo di adeguarsi ad un modello plurale di relazioni familiari, peraltro variamente attuato nei singoli ordinamenti (M. BONINI BARALDI, Le nuove convivenze, Profili internazionalprivatistici, in Diritto di famiglia a cura di G. Ferrando, Bologna, 2007, all. 3 dottrina) ne’ di essere vincolato al riconoscimento automatico di unioni familiari non esistenti nell’ ordinamento interno, al fine di farne discendere il corredo di diritti (anche sociali) ed obblighi direttamente ricollegabili al vincolo. Le conseguenze di maggior rilievo derivanti dall’esistenza di una pluralità di unioni familiari legittime nell’Unione Europea, comprensive anche delle relazioni tra persone dello stesso sesso, possono, invece, rivelarsi proprio quando, come nell’accertamento del diritto al ricongiungimento familiare, la validità dell’unione registrata non viene in rilievo al fine di acquistare in Italia uno status equivalente ma esclusivamente per valutare l’esistenza delle condizioni per l’esercizio di un diritto, (di soggiornare in Italia con il proprio partner cittadino italiano alle condizioni stabilite dalla legge) che non richiede il preventivo e generale riconoscimento della legittimità del vincolo, posto a base della richiesta (P. PALLARO, Coppie di fatto e ricongiungimento familiare nell’ordinamento comunitario in Diritto comunitario e degli scambi internzionali, 2001, 219, all. 4 dottrina).
c) Le recenti Direttive Comunitarie in materia di ricongiungimento familiare : il rilievo delle unioni registrate.
Per meglio comprendere l’ambito circoscritto e rigorosamente delimitato dalla disciplina normativa dell’immigrazione, all’interno della quale può trovare attuazione il diritto al ricongiungimento familiare, è necessario completare il quadro delle fonti. L’esame deve prendere le mosse dalle Direttive 2003/86/CE e 2004/38/CE, recepite rispettivamente con i D.lgs n.5 e n. 30 del 2007. (all. 1,2,3,4 normativa) La normazione comunitaria in materia d’immigrazione è di recente introduzione. Soltanto dopo il Trattato di Amsterdam gli Stati membri hanno riconosciuto una competenza quanto meno concorrente della Comunità in materia di circolazione dei cittadini di Stati terzi all’interno del territorio dell’Unione. In particolare, il Trattato di Amsterdam ha trasferito nel primo pilastro, (contraddistinto dal c.d. metodo comunitario che marginalizza il ruolo dei governi nazionali a favore delle istituzioni europee) quasi tutti i settori in precedenza appartenenti al terzo pilastro (tra questi l’immigrazione) comunitarizzando materie sino ad allora trattate esclusivamente in ambito intergovernativo. Per effetto dell’art. 63.3 del Trattato CE, al Consiglio è stato attribuito il compito di adottare misure in materia di politica dell’immigrazione. Proprio sulla base di tale articolo sono state emanate le due direttive sopra indicate. La prima riguarda il diritto al ricongiungimento familiare di cittadini provenienti da Stati terzi, legittimamente residenti nell’Unione, la seconda più direttamente incidente sulla problematica oggetto della presente indagine, riguarda il diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. L’intervento normativo comunitario, peraltro, si è esteso anche all’ambito della protezione internazionale con le Direttive 2004/83/CE e 2005/85/CE (recepite rispettivamente con Il D.lgs n. 251 del 2007 e n. 25 del 2008) attraverso le quali sono state introdotte rilevanti novità ed aperture in ordine alle condizioni dei rifugiati e dei richiedenti asilo od altre misure di protezione internazionale anche temporanee anche con riferimento al diritto al ricongiungimento familiare. Di queste Direttive è opportuno segnalare come tra i motivi di persecuzione che possono investire un particolare gruppo sociale siano stati inseriti anche quelli che si fondano sulle discriminazioni derivanti dall’orientamento sessuale (art. 8 D.lgs n. 251 del 2007).
Nei Considerando delle Direttive n. 2003/86/CE e 2004/38/CE dirette a disciplinare, come sopra indicato, il diritto al ricongiungimento familiare, è espressamente contenuto il divieto di discriminazioni dovuto all’orientamento sessuale (n. 5 Dir. 2003/86/CE e 31) nell’attuazione di tale diritto, anche se nella formulazione relativa alla prima Direttiva (riguardante specificamente il diritto dei familiari extracomunitari di stranieri extracomunitari soggiornanti o residenti negli Stati dell’Unione) viene indicato espressamente che gli Stati membri attuino le disposizioni della Direttiva senza operare discriminazioni fondate, tra le altre, sulle tendenze sessuali mentre nell’altra, riguardante il diritto alla libera circolazione negli Stati dell’Unione dei cittadini e dei familiari (anche extracomunitari) di cittadini dell’Unione, il Considerando finale indica che gli Stati membri “dovrebbero” dare attuazione alla direttiva senza operare discriminazioni dovute alle tendenze sessuali. La stessa formulazione viene adottata nel quinto Considerando di questa direttiva nel quale si dichiara che la nozione di “familiare” dovrebbe includere il partner che ha contratto un’unione registrata. Un’analoga indicazione è contenuta nel decimo considerando dell’altra. Nella Direttiva n. 2003/86/CE che non si applica ai familiari dei cittadini dell’Unione, si indica espressamente l’art. 8 della CEDU come la norma da cui nasce il diritto al ricongiungimento familiare. Manca nei Considerando della seconda direttiva la menzione di questo articolo della CEDU per la specifica finalità di favorire la libertà di circolazione all’interno dell’Unione che è alla base dello intervento del legislatore comunitario. Coerentemente con questa finalità è espressamente vietata ogni forma di discriminazione dovuta alla nazionalità. La rilevanza di questo divieto può cogliersi ove si ponga a confronto con l’altro principio su cui si fondano le due Direttive rivolte alla tutela del ricongiungimento familiare. Si tratta del rispetto della legislazione interna dei singoli Stati membri rispetto al riconoscimento o all’esclusione delle unioni diverse dal matrimonio eterosessuale. La scelta del legislatore comunitario, secondo quanto contenuto nel ventesimo Considerando della Direttiva 2004/38/CE è stata quella di prevenire il cd. fenomeno della discriminazione inversa che si potrebbe determinare tra gli stessi cittadini di uno stato membro che non riconosca dignità giuridica ad unioni diverse dal matrimonio eterosessuale (come l’Italia). La discriminazione inversa consisterebbe nella disparità di trattamento tra il cittadino italiano che chieda il ricongiungimento familiare con uno straniero o una straniera sulla base di un’unione riconosciuta in un altro ordinamento e il cittadino italiano che chieda il riconoscimento della propria unione di fatto con altro o altra cittadina italiana. In entrambe le Direttive può riscontrarsi una definizione ampia della condizione di “familiare”. L’art. 4 della Direttive 2003/86/CE stabilisce che gli Stati membri possono autorizzare l’ingresso e il soggiorno al partner non coniugato che abbia una “relazione stabile duratura debitamente comprovata” e riservare ai “partner legati da una relazione formalmente registrata lo stesso trattamento previsto per i coniugi”. Nel recepimento l’apertura alle famiglie di fatto non viene fatta propria dal legislatore italiano che si limita ad indicare tra i parametri che devono essere tenuti in considerazione nel riconoscimento del diritto al ricongiungimento familiare “la natura e l’effettività dei vincoli familiari dell’interessato”. Nella Direttiva 2004/38/CE, la differenza tra il testo comunitario e il recepimento è ancora più marcato. Nella norma relativa agli aventi diritto al ricongiungimento familiare, viene stabilito che lo Stato membro ospitante agevola l’ingresso e il soggiorno, tra gli altri anche al “partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata”. La fonte comunitaria non esclude che allo specifico fine di garantire la libertà effettiva di circolazione e soggiorno negli Stati dell’Unione ai cittadini e ai loro familiari, sia possibile riconoscere l’esercizio di questo diritto “primario” (secondo la qualificazione del primo Considerando) sulla base della concreta natura dell’Unione ed indipendentemente dal riconoscimento formale nello Stato ospitante. In entrambe le Direttive, così come nella giurisprudenza della Corte di Giustizia e della CEDU, come verrà in evidenza nel successivo paragrafo, c’è un forte richiamo all’effettività delle situazioni e dei legami, al superamento di divieti ed esclusioni pregiudiziali o formalistici. Ma nella legge di recepimento, questa apertura viene ricondotta alla cd. condizione di reciprocità. L’art. 3 del Dlgs n. 30 del 2007 prevede, infatti, che lo Stato ospitante agevoli l’accesso al partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata dallo Stato del cittadino dell’Unione,. In questo modo il legislatore ha ritenuto prevalente l’obiettivo indicato nel ventesimo considerando, riguardante il divieto di discriminazioni dovute alla nazionalità, escludendo che l’unione di fatto tra un cittadino italiano e un cittadino extracomunitario possa avere, anche ai soli fini del diritto al ricongiungimento familiare, rilevanza giuridica a prescindere dalle sue concrete caratteristiche se la stessa condizione non si verifichi per le unioni tra cittadini italiani. Ma come è stato sottolineato dalla dottrina (M. BONINI BARALDI; Lo spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia : pluralismo di valori e pregiudizi nazionali a confronto all. 5 dottrina; CHIARA RAGNI; La disciplina della convivenza in Europa alla prova del pluralismo dei modelli familiari, all. 6 dottrina; LUISA PASCUCCI, Coppie di fatto: un limite al ricongiungimento familiare? In Famiglia e diritto, n. 11 del 2007 p. 1042, all. 7 dottrina) i rischi della discriminazione inversa si manifestano proprio nel contesto normativo comunitario caratterizzato dalla non ingerenza tra i modelli di unione propri di ogni Stato membro. La Direttiva 2004/38/CE mira a tutelare la circolazione all’interno dell’Unione e riguarda esclusivamente i cittadini dell’Unione che si muovono al suo interno e intendono soggiornare in un altro Stato membro rispetto a quello di provenienza, e i loro familiari
extracomunitari. La limitazione dell’ambito di applicazione della Direttiva è di estrema rilevanza perché pone in evidenza, secondo la dottrina, il duplice rischio di discriminazione inversa, dovuta alla nazionalità che può determinarsi nella situazione normativa attuale. Proprio perché il diritto al ricongiungimento familiare non determina l’attribuzione di uno status ma esclusivamente il godimento, secondo le condizioni stabilite dalle leggi interne sull’immigrazione, del diritto al soggiorno unitamente al familiare, secondo l’art. 3 del Dlgs n. 30 del 2007 ad un cittadino francese o tedesco che soggiorni in Italia per motivi di lavoro potrebbe essere riconosciuto il diritto al ricongiungimento familiare se legato ad un partner extra comunitario per effetto di un’unione valida ed efficace in uno Stato dell’Unione mentre al cittadino italiano, cui non può applicarsi la Direttiva in questione perché non proveniente da un altro Stato dell’Unione e conseguentemente non titolare di un diritto ricollegabile a quello primario alla libera circolazione all’interno dell’Unione stessa, lo stesso diritto potrebbe essere negato, nonostante la parità di condizioni di partenza. Al contrario se lo stesso cittadino italiano intenda esercitare il diritto al ricongiungimento familiare con un cittadino extracomunitario in un paese europeo che riconosce le unioni di fatto, può ottenere tutela sulla base dell’art. 3 della Direttiva, anche se l’unione è stata riconosciuta in un ordinamento extracomunitario, purché sia “debitamente attestata” mentre in Italia non potrebbe usufruire dello stesso beneficio La discriminazione dovuta alla nazionalità (italiana del cittadino dell’Unione) potrebbe così riaffacciarsi nonostante l’espressa previsione contraria della Direttiva e la preoccupazione del legislatore comunitario. Questa tipologia di discriminazioni (alla rovescia od inverse) sono proprie delle normative comunitarie che tutelano la circolazione e si trovano a dover conciliare l’esigenza dell’armonizzazione con quella del rispetto degli ordinamenti interni. Il rimedio alle situazioni di disparità che si vengono a determinare si ritrova nelle norme nazionali a tutela del principio di uguaglianza. Al riguardo la Corte Costituzionale (sentenza n. 443 del 1997, all. 1 giur), ha ritenuto che se la disparità di trattamento tra situazioni a rilevanza comunitaria e situazioni meramente interne non è rilevante per il diritto comunitario, lo è senz’altro per il diritto costituzionale italiano. Pertanto, in caso di violazione dell’art. 3, non resta che assoggettare le une e le altre fattispecie al trattamento normativo previsto dal diritto comunitario. La discriminazione che sorge dall’applicazione indiretta del diritto comunitario può, pertanto, essere corretta dagli Stati membri attraverso le norme costituzionali che sanciscono il diritto all’uguaglianza. Come spiega la Corte, in assenza di una regolamentazione uniforme in ambito comunitario, il principio di non discriminazione impone l’adeguamento del diritto interno (più restrittivo) a quello delle norme comunitarie al fine di evitare “l’effetto discriminatorio che il diritto comunitario verrebbe ad operare”. La trasposizione del principio all’oggetto della presente indagine, dovrebbe condurre all’applicazione della Direttiva, oltre il suo stretto ambito ed anche oltre quanto contenuto dalle norme interne che ne hanno disposto il recepimento, tenendo però presente che le stesse Direttive comunitarie contengono il principio generale del rispetto dei modelli interni delle unioni familiari. C’è un altro profilo di discriminazione che è opportuno affrontare alla luce dell’indagine comparativa tra le fonti comunitarie e quelle di diritto interno. Si tratta della discriminazione dovuta alle tendenze o all’orientamento sessuale. Al riguardo è necessario premettere che il divieto di discriminazioni dovute all’orientamento sessuale è direttamente applicabile soltanto nel settore del diritto al lavoro in virtù della Direttiva n. 2000/78/CE recepita in Italia con il D.lgs n. 216 del 2003. Come si è rilevato dall’esame dei Considerando delle direttive relative al ricongiungimento familiare e dall’esame delle fonti costituzionali comunitarie, esiste un generale divieto di discriminazione per ragioni legate alle tendenze e all’orientamento sessuale, ma la mancanza di un diritto familiare europeo o quanto meno di un sistema di riconoscimento automatico degli status familiari all’interno dell’Unione non consente di applicare in modo generalizzato questo principio che, anche di recente, ha invece trovato rilevanti conferme nell’ambito lavoristico nella giurisprudenza della Corte di Giustizia e della CEDU come verrà posto in evidenza nel paragrafo che segue. Rimanendo soltanto sul piano delle fonti costituzionali, comunitarie e normative interne ci si può tuttavia domandare se il mancato riconoscimento della condizione di familiare al cittadino extracomunitario partner del cittadino italiano in virtù di unione registrata contratta all’estero possa integrare una discriminazione dovuta all’orientamento sessuale, tenuto conto dei limitati effetti del ricongiungimento familiare rispetto all’acquisto di uno status e del diretto collegamento, riconosciuto anche dall’esaminata Direttiva 2004/38/CE, con il diritto alla libertà di circolazione e di lavoro stabiliti nel Trattato. In primo luogo deve osservarsi, a tale riguardo che il mancato riconoscimento giuridico delle convivenze di fatto nel nostro ordinamento porterebbe ad escludere l’esistenza di una discriminazione dovuta all’orientamento sessuale in caso di unione tra due soggetti dello stesso sesso. Non esiste una discriminazione “diretta” , secondo la definizione fornita dalla Direttiva n.2000/78/CE e dall’art. 3 del D.lgs n. 216 del 2003 (all. 5 normativa), perché vi è una parità di trattamento nel nostro ordinamento, tra le coppie di fatto eterosessuali ed omosessuali,
essendo entrambe prive di riconoscimento. Potrebbe invece configurarsi una discriminazione indiretta, ovvero una situazione di particolare svantaggio non direttamente ricollegabile al principio della disparità di trattamento, dovuta al fatto che le persone omosessuali non sono nelle condizioni di richiedere l’applicabilità del beneficio, essendo impedito ad esse anche di unirsi in matrimonio. La discriminazione indiretta, in questo caso, non riguarda il divieto di contrarre matrimonio, pienamente rientrante nell’esclusiva competenza degli Stati membri ma la situazione di svantaggio, inemendabile, nella fruizione di un beneficio che, oltre ad essere una diretta proiezione del diritto individuale all’unità familiare previsto dalla CEDU ed ampliato dalla Carta di Nizza, è una forma di attuazione di uno dei principi cardine del diritto comunitario ovvero il diritto alla libera circolazione. 2.- La giurisprudenza della CEDU e della Corte di Giustizia. La giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo e della Corte di Giustizia in materia di riconoscimento dei diritti dei componenti di nuclei familiari diversi dal matrimonio eterosessuale ha avuto tradizionalmente un orientamento ispirato al rispetto dei modelli familiari degli Stati membri (sullo sviluppo delle tendenze di queste due Corti si rinvia a C. Ragni; P. Pallaro, G. Ferrando cit.), sia con riferimento alle unioni eterosessuali che a quelle riguardanti persone dello stesso sesso (Per una disamina completa, W. ZAGREBELSKY, Famiglia e vita famigliare nella Convenzione Europea dei diritti umani, in Un nuovo diritto di famiglia europeo, 2007, Padova, 115 all. 8 dottrina). Le posizioni assunte erano coerenti con l’esclusione dalla competenza comunitaria della materia familiare ed in quella tangente dell’immigrazione per lavoro fino all’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, mediante il quale è stato introdotto ex art. 13 il divieto di discriminazione dovuto all’orientamento sessuale, ponendo in questo modo all’attenzione delle Corti, una tipologia di discriminazione tendenzialmente relazionale in quanto frequentemente derivante proprio dal sottostante mancato riconoscimento di modelli di unioni diverse dal matrimonio eterosessuale. Gli orientamenti sono, infatti, in parte mutati proprio per effetto di questa seconda rilevante innovazione normativa.
L’analisi della giurisprudenza della Cedu a partire dal 2001, oltre ad evidenziare la preminenza del diritto all’unità familiare all’interno dei diritti tutelabili in ambito UE, ha ritenuto nel caso Mata Estevez contro Spagna del 10/5/2001 (ovvero quando ancora la Spagna non si era dotata di una legge sulle unioni tra persone dello stesso sesso) che non potessero essere estesi al superstite di una coppia omosessuale taluni benefici socio-economici in quanto
“long term homosexual relationships between two men do not fall within the scope of the right to respect for family protected by article 8 of the Convention” mentre nella pronuncia Smith and Grady v. United Kingdom aveva riconosciuto la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare nel caso di un transessuale al quale non poteva usufruire di taluni benefici perché non gli era consentito sposarsi dal momento che la Gran Bretagna non era dotata di una legge di rettifica del sesso. Successivamente, nel 2003 (sent. Karner contro Austria) è stato, invece, affermato dalla Corte che il convivente superstite possa usufruire del diritto a succedere in un rapporto di locazione, dal momento che la norma austriaca estende lo jus successionis anche ai conviventi more uxorio. In questo caso la CEDU ha ritenuto l’esclusione operata dai giudici austriaci in contrasto con gli artt. 14 e 8 della Convenzione da leggersi ed interpretarsi congiuntamente. In particolare la Corte ha affermato espressamente che l’art. 14 contenente il divieto di discriminazione non ha un suo autonomo ambito di applicazione ma è complementare all’esercizio degli altri diritti fondamentali tra i quali quello al rispetto della vita privata e familiare. Pertanto, pur ritenendo in linea di principio accettabile che la protezione del modello tradizionale di famiglia possa determinare una legittima ragione di giustificata differenza di trattamento tra persone dello stesso sesso e persone di sesso diverso, secondo la sentenza Karner è necessario verificare se vi sia proporzionalità tra la misura adottata e la finalità perseguita e se lo strumento sia davvero necessario allo scopo. Nel caso di specie la Corte si è chiesta se
l’interpretazione restrittiva del Rent Act che estende ai conviventi di fatto il diritto a succedere nel contratto di locazione sia un mezzo necessario e proporzionato per l’obiettivo della tutela della famiglia eterosessuale, protetta legittimamente dall’ordinamento austriaco. E molto di recente la Corte ha ritenuto, il rifiuto da parte delle autorità francese di consentire l’adozione da parte di una donna legata da una relazione stabile con un’altra donna, espressione di una discriminazione fondata solo sull’orientamento sessuale in quanto non giustificata da altre valutazioni legate alle sue qualità genitoriali (E.B. c. Francia ric. 43546/02) o alla tutela di specifici modelli familiari. Anche in questo caso l’esigenza di tutela del minore, non ha superato il giudizio di proporzionalità e necessità rispetto allo scopo perseguito, tenuto conto del fatto che nell’ordinamento francese è consentita l’adozione del genitore monoparentale . (Sentenze in abstract all. 2 giurisprudenza; abstract predisposto dall’Istituto di diritto Internazionale dell’Univeristà di Bologna nel Dossier. N. 7 del 27 marzo 2008 ” La nozione di famiglia nella giurisprudenza europea a tutela dei diritti dell’uomo, ).
Tali parametri rivestono particolare importanza nell’ambito della tutela dei diritti fondamentali in quanto sono stati utilizzati dalla dottrina internazionalistica per elaborare il criterio dell’ordine pubblico attenuato da usare proprio per la corretta valutazione di alcune concrete situazioni caratterizzate non dalla necessità di costituire in uno Stato che non lo consente, status o rapporti giuridicamente protetti ma esclusivamente per lasciare che si producano effetti leciti derivanti da una condizione relazionale sconosciuta dall’ordinamento al quale si chiede tutela. Il limite dell’ordine pubblico costituisce infatti il principale ostacolo alla circolazione e al riconoscimento delle unioni registrate. Le problematiche connesse alla corretta individuazione di tale limite dovranno essere esaminate unitamente alle norme di diritto internazionale privato applicabili in materia di diritti della personalità e capacità dei soggetti e, pertanto si rinvia al paragrafo successivo per una più puntuale esposizione di tali principi. Gli orientamenti più recenti della Corte di Giustizia hanno, infatti, posto in evidenza come le maggiori aperture riguardano proprio l’estensione di benefici sociali e previdenziali in quanto favoriti dall’espressa previsione del divieto di discriminazione dovuta all’orientamento sessuale contenuta nella citata Direttiva n. 2000/78/CE. Anche la Corte di Giustizia ha avuto un’evoluzione giurisprudenziale nel riconoscimento di specifiche posizioni soggettive tutelabili. Dal caso Grant (causa C-249/96) del 17/2/1998 nel quale la Corte ha escluso che i benefici previsti dal Regolamento delle ferrovie britanniche per i dipendenti sposati o conviventi con persone di sesso diverso potessero essere estesi alle coppie omosessuali ritenendo che, in mancanza di norme specifiche di
diritto comunitario, era rimessa alla potestà legislativa degli Stati membri la facoltà di estendere i diritti delle coppie eterosessuali a quelle omosessuali, secondo l’interpretazione
dell’art. 12 CEDU adottato, allora, anche dalla Corte di Strasburgo. Ma di recente è stata emessa una decisione di segno opposto dal momento che la Corte ha ravvisato una discriminazione diretta nel mancato riconoscimento del beneficio della pensione di reversibilità al convivente superstite di un’unione solidale omosessuale, registrata in Germania. Rilevato che la legge tedesca riconosce una sostanziale equiparazione di trattamento tra unioni solidali e unioni coniugali con riferimento a trattamenti pensionistici di carattere solidaristico e previdenziale, la Corte ha ritenuto che esista una disparità di trattamento ingiustificata nella esclusione dei conviventi dello stesso sesso di un’unione solidale dal beneficio della pensione di reversibilità, perché a causa del loro orientamento sessuale non sarebbe ad essi possibile accedere al matrimonio. (Corte di Giustizia CE Grande Sezione 1 aprile 2008 ricorrente Maruko; testo della sentenza con nota di M.Bonini Baraldi, in Famiglia e Diritto, 7/2008 p. 653 all. 3 giurisprudenza). La decisione non incide nel regime giuridico riguardante lo stato civile del beneficiario, comunque escluso dall’ambito di applicazione della Direttiva 2000/78/CE (ventesimo considerando) ma si limita a ravvisare con riferimento ai modelli di unione riconosciuti dall’ordinamento tedesco un’ingiustificata disparità di trattamento adottata in violazione del diritto comunitario.
3.- La legge italiana in materia di ricongiungimento familiare e gli orientamenti della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione. Prima di iniziare l’esame della disciplina legislativa del ricongiungimento familiare così come prevista dal D.lgs. n. 286/1998, è necessario premettere che le Direttive 2000/78/CE e 2000/43/Ce trasfuse nei D.lgs n. 216 e n. 215 del 2003, con le quali è stata introdotta una specifica disciplina
antidiscriminatoria all’interno del nostro ordinamento, escludono dal loro ambito di applicazione e conseguentemente fanno salve le disposizioni riguardanti l’ingresso ed il soggiorno adottate dallo Stato italiano (art. 3 , secondo comma D.lgs n. 216/2003 e 215/2003). È, infine, opportuno precisare che la Direttiva 2000/78/CE riguarda le discriminazioni riguardanti il diritto al lavoro e la Direttiva 2000/43/CE non disciplina discriminazioni dovute a tendenze od orientamento sessuale.
Può conseguentemente escludersi, sul piano dell’esegesi normativa che tale esclusione possa incidere sull’esame della fattispecie concreta da esaminare.
Secondo quanto stabilito negli artt. 28, 29, 30 del D.lgs n. 286 del 1998, nel testo attualmente in vigore (modificato dal D.lgs n. 5 del 2007, ampiamente esaminato nel primo paragrafo, in quanto testo normativo di ricezione della Direttiva 2003/86/CE), il permesso di soggiorno per motivi familiari, ex art. 30, primo comma lettera c) del D.lgs n. 286 del 1998 è concesso al familiare straniero di cittadino italiano o di uno Stato membro residente in Italia che sia nelle condizioni di richiedere il ricongiungimento familiare. In questo caso il titolo di soggiorno in precedenza posseduto deve essere convertito in permesso di soggiorno per motivi familiari. La norma sopra descritta, rilevante nel caso di specie, non è stata modificata dal citato D.lgs n. 5 del 2007 e, conseguentemente, non si pongono problemi di diritto intertemporale.
L’art. 29 del D.lgs n. 286 del 1998 che riguarda il diritto al ricongiungimento familiare dello straniero regolarmente soggiornante in Italia contiene un elenco dei familiari, abilitati ad ottenere il permesso di soggiorno per questo specifico titolo che esclude qualsiasi unione diversa da quella coniugale. Come è stato evidenziato nel primo paragrafo, le Direttive n. 2003/86/CE e 2004/38/CE includono, invece, nell’elenco dei familiari anche i partner di unioni registrate ma ne rimettono il concreto riconoscimento allo Stato ospitante sulla base di due condizioni :
l’esistenza di una regolamentazione interna di tali unioni e/o la valutazione effettiva delle caratteristiche dell’unione. Nel recepimento della Direttiva 2004/38/CE è stata esclusa l’adozione del parametro dell’effettività preferendo invece quello generale ed astratto della concessione del permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare solo alle unioni riconosciute anche nello Stato ospitante (italiano). In questo modo, rimanendo esclusivamente sul piano del diritto interno si può sostenere che solo i coniugi siano attualmente titolari del diritto al ricongiungimento familiare mentre per le convivenze, l’apertura può limitarsi alle famiglie di fatto con figli minori, alla stregua dell’equiparazione già effettuata dalla Corte Costituzionale tra le due condizioni di convivenza, limitatamente al nucleo familiare con figli minori. La stessa Corte Costituzionale, chiamata a decidere proprio sull’estensione al convivente di fatto del diritto al ricongiungimento familiare ne ha escluso l’applicabilità con la sentenza n.313 del 2000. (all. 4 giurisprudenza). La fattispecie riguardava proprio la convivente more uxorio di un cittadino italiano, colpita da un provvedimento di espulsione, che chiedeva l’applicazione anche in suo favore del divieto di espulsione previsto per il coniuge.
La Corte ha rigettato l’eccezione di incostituzionalità rilevando che il divieto di espulsione previsto per il coniuge ed i parenti fino ad un certo grado riguarda persone che si trovano in una situazione di “certezza di rapporti giuridici” invece assente nella convivenza “more uxorio”. Peraltro la conclusione della Corte è coerente con la propria precedente giurisprudenza relativa al riconoscimento ad alcuni fini specifici delle convivenze more uxorio. Come esaurientemente spiegato nella sentenza n. 8 del 1996 che ripercorre tutto il cammino della Corte Costituzionale relativo alla natura giuridica e ai limiti dell’equiparabilità tra convivenze di fatto e unioni coniugali, la differenza tra le due tipologie di unioni trova nella stessa Costituzione due modalità di rappresentazione e tutela diverse. Le convivenze di fatto fondate sull’autonomia e la soggettività individuale dei componenti devono essere ricomprese nell’art. 2 della Cost., mentre le unioni coniugali nell’art. 29 Cost. L’indirizzo sinteticamente delineato non è stato modificato ed ha trovato riscontro anche nella sentenza n. 2 del 1998 (all. 5 giurisprudenza) e molto di recente nella sentenza n. 118 del 2008 (all. 6 giurisprudenza), avente specificamente ad oggetto l’estensione del divieto di espulsione al convivente straniero di cittadina italiana in stato di attesa di un nascituro, figlio naturale dello straniero. In questo caso la Corte ha dichiarato inammissibile la questione perché il rapporto di filiazione era stato prospettato in modo “meramente ipotetico ed eventuale”, ribadendo, implicitamente, il proprio costante indirizzo sulle convivenze di fatto, in assenza di figli minori. Peraltro la preminenza della posizione del minore ha caratterizzato, in una recentissima sentenza, anche l’orientamento della Corte di Cassazione (Cass. n. 7472 del 2008 rv. 602591, all. 7 giur.), proprio in ordine al diritto al ricongiungimento familiare nel senso che si è ritenuta la “kafalah” in quanto strumento di protezione nel diritto islamico nei confronti di minori orfani, illegittimi od abbandonati, un presupposto idoneo al ricongiungimento familiare ex art. 29, secondo comma, D.lgs n. 286 del 1998. In particolare la Corte ha ritenuto la “kafalah” equiparabile all’affidamento del nostro diritto interno, quando non abbia un contenuto esclusivamente negoziale, sottolineandone la stabilità e la continuità. Con specifico riferimento alle convivenze more uxorio gli orientamenti della Corte di Cassazione (anche penale) si sono caratterizzati per l’attenzione al caso concreto. L’unione di fatto è stata valutata nella sua effettività, nelle sue caratteristiche di stabilità, continuità ed organizzazione interna al fine di stabilire l’estensione di specifiche disposizioni previste originariamente per i soli coniugi e senza modificare, in alcun modo gli status dei conviventi coinvolti nelle decisioni. In particolare la Corte ha esteso la configurazione del delitto di maltrattamenti in famiglia anche al convivente anticipando il legislatore che con la L. n. 154/2001 ha esteso alle convivenze non solo more uxorio il regime degli ordini di protezione (da ultimo Cass. pen. n. 20647 del 2008 rv. 239726 all. 8 giur.). Ad identica determinazione è pervenuta in ordine al gratuito patrocinio (Cass. pen. n. 109 del 2006, rv. 232787, all. 9 giur.). La Cassazione civile ha infine riconosciuto rilevanza alla convivenza more uxorio, in particolare in ordine alla legittimazione ad agire per il risarcimento del danno da morte del convivente (Cass. n. 2988 del 1994 rv. 485945 e n. 8976 del 2005, rv. 581991 all. 10 e 11 giur.), sottolineando l’esigenza della prova della condivisione.
4.- La peculiarità delle unioni registrate all’estero: l’incidenza del diritto internazionale privato ed il limite dell’ordine pubblico. La giurisprudenza costituzionale e di legittimità ha, finora, affrontato il tema delle convivenze di fatto prive di qualsiasi riconoscimento giuridico, in quanto sorte nel territorio dello Stato Italiano. Ma la crescente tendenza degli stati dell’Unione e di quelli extra europei di attribuire un’autonoma rilevanza giuridica alle unioni di fatto eterosessuali e tra persone dello stesso sesso pone la questione della validità ed efficacia delle unioni registrate all’estero all’interno di ordinamenti che escludono tali unioni dai rapporti giuridicamente rilevanti. Come è emerso dall’esame della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo e della Corte di Giustizia, le ricadute pratiche della diversa propensione degli Stati verso il riconoscimento di tali unioni sono numerose e sono di diversa natura. In primo luogo sorgono problemi legati al riconoscimento e alla trascrizione nei registri dello stato civile di unioni registrate all’estero, com’è accaduto per il ricorso avverso il rifiuto dell’ufficiale dello stato civile di trascrivere l’unione matrimoniale tra due persone dello stesso sesso contratta in Olanda, ma la stessa questione può porsi con riferimento ad un’unione contratta in uno stato extraeuropeo dal momento che la normazione comunitaria riguardante il riconoscimento dei provvedimenti degli Stati membri non riguarda gli atti dello stato civile, con conseguente applicazione, in via esclusiva delle norme di diritto internazionale privato (decr. Tribunale Latina 10/6/2005 e decr. Corte d’Appello Roma 13/6/2006 del e sent. della Corte d’Appello di Roma, rispettivamente in Famiglia e Diritto, n. 4/2005 p.411 e 2006 p. 411 con note di Schlesinger; Sesta; Bilotta, Bonini Baraldi, Orlandi,Cavana, all. 12 giurisprudenza). In secondo luogo possono sorgere, come nella fattispecie oggetto della presente indagine, problemi non di riconoscimento delle unioni registrate all’estero ai fini dell’introduzione nel nostro ordinamento di status ad esso sconosciuti ma di estensione di benefici previsti per i soggetti legati dal vincolo coniugale o per i “familiari” (da intendersi come soggetti legati da un vincolo di parentela assimilabile a quello coniugale e filiale, come si è riscontrato nella pronuncia riguardante la kafalah) anche ai partners di unioni registrate all’estero. Le soluzioni per le due diverse questioni controverse possono essere di due tipi. Da un lato si può ritenere che la condizione soggettiva per il riconoscimento di un beneficio come il ricongiungimento familiare postuli indefettibilmente l’esistenza di un vincolo (coniugale o non coniugale) valido ed efficace nel nostro ordinamento. Dall’altro, sviluppando gli attuali orientamenti della Corte di Giustizia (caso Maruko cit) e Corte Europea dei diritti dell’uomo (casi Smith and Grady contro Regno Unito e Caso Karner contro Austria cit), si può condurre l’indagine partendo dalla considerazione che il diritto all’unità familiare pur essendo una delle modalità di estrinsecazione della personalità individuale, garantita dall’art. 2 Cost., non può essere esercitato, in condizioni di parità, da tutti i soggetti che hanno contratto un vincolo giuridico e non si sono limitati a far valere un’unione di fatto, risultandone escluse le persone che a causa dell’orientamento sessuale non possono unirsi in matrimonio. Secondo quest’ultimo punto di vista, il diritto a godere dei benefici derivanti da un’unione registrata, non richiederebbe il preventivo riconoscimento del vincolo nell’ordinamento a tutti gli effetti, risultando sufficiente un giudizio di comparazione effettuato con riferimento alla parità o disparità di trattamento rispetto alla situazione concreta.
Secondo la prima delle due opzioni applicative, i vincoli familiari nascono esclusivamente da unioni riconosciute dal nostro ordinamento o perché corrispondenti alle fattispecie normative interne o perché compatibili con il complesso di principi che compongono il parametro dell’ordine pubblico. Per meglio comprendere come questa posizione, peraltro seguita dalla Corte d’Appello di Firenze nella pronuncia impugnata (all.12 giur. con nota di L. Pascucci ), può, a sua volta, assumere diverse angolazioni che corrispondono agli indirizzi della dottrina privatistica più autorevole, di recente investita della problematica della trascrivibilità in Italia dell’unione matrimoniale contratta tra due persone dello stesso sesso in Olanda. L’orientamento più intransigente (P. Schlesinger, all. dottrina; M. Orlandi all. dottrina) ritiene inesistente qualsiasi unione registrata contratta (ovunque) tra persone dello stesso sesso, reputando del tutto irrilevante il riconoscimento giuridico da parte di un altro Stato e non distinguendo, quanto agli effetti, tra ordinamenti di Stati dell’Unione e Stati extraeuropei. L’assunto si fonda sul rilievo che l’eterosessualità è un requisito primario per qualsiasi unione giuridicamente rilevante ed in particolare per quella coniugale, tanto da non dover nemmeno essere menzionata negli articoli (84 e seguenti richiamati dagli artt. 115 e 116 cod. civ, relativi al matrimonio contratto all’estero) che regolano la capacità a contrarre matrimonio. Ne consegue l’assoluta contrarietà all’ordine pubblico di qualsiasi unione tra persone dello stesso sesso e la irriconoscibilità della qualificazione di “familiare” a nessuno dei due parterns dell’unione. Peraltro, deve essere sottolineata, rispetto a questo specifico orientamento, la fattispecie di partenza costituita come già osservato, dalla richiesta (negata) di trascrizione nei registri dello stato civile di un’unione registrata in Olanda, ovvero una richiesta finalizzata all’acquisto di uno status da parte di entrambi i partners. Per questa ragione da parte dei sostenitori di questo orientamento si è ritenuto che alla medesima conclusione si pervenga, per il partner italiano anche ai sensi dell’art. 27 della L. n. 218 del 1995, secondo la quale la capacità matrimoniale è regolata secondo la legge nazionale del nubendo e per quello straniero ex art. 65, non potendo un istituto inesistente essere compatibile con il nostro ordine pubblico.
Accanto a questa posizione di totale chiusura si segnala da parte della dottrina di orientamento culturale cattolico un’apertura rispetto all’esigenza di regolare situazioni ed organizzazioni di vita in comune sempre più frequenti e sempre più caratterizzate da stabilità, continuità e forte spinta verso
l’istituzionalizzazione. (F. Busnelli, all. dottrina, P.Rescigno, all. dottrina ). Pur mantenendo una netta distinzione tra rapporti familiari conseguenti al matrimonio eterosessuale, costituzionalmente garantiti dall’art. 29 della Costituzione e rapporti parafamiliari, rientranti nella tutela prevista dall’art. 2 Cost., quest’orientamento auspica un intervento legislativo analogo a quello francese sui PACS, concentrando l’attenzione proprio sulla natura solidaristica di tali unioni e sull’esigenza primaria di garantire mutua assistenza e contribuzione reciproca e propone due strade, una normativa e l’altra giurisprudenziale. L’una, quella normativa, sembra attualmente impedita da differenze ideologiche troppo nette tra i diversi schieramenti, l’altra quella giurisprudenziale si fonda proprio sulle aperture della Corte di Cassazione, maturate in particolare nel campo del diritto al risarcimento del danno conseguente alla morte del convivente e fondate su una valutazione seria e rigorosa delle caratteristiche dell’unione (si veda 4). Questo orientamento dottrinale non esclude, di conseguenza di attribuire rilievo alle specifiche istanze ed aspettative che sorgono da unioni caratterizzate da continuità e stabilità debitamente comprovate anche mediante un’assunzione d’impegno derivante da un vincolo valido all’estero. Infine, per completezza, è opportuno ricordare gli orientamenti che muovono da una concezione pluralista del modello familiare desumibile dall’art. 29 Cost. soprattutto alla luce delle aperture già esaminate, contenute nella Carta di Nizza (G.Ferrando cit.;
Bin. All. dottrina) e gli indirizzi che sulla base della medesima lettura dell’art. 29 Cost., evidenziano come la diversità di sesso non sia codificata nel nostro sistema giuridico, non ricorrendo tra le condizioni per contrarre matrimonio. Secondo questa ultima prospettiva dottrinaria, conseguentemente, deve escludersi la categoria dell’inesistenza che non consente di ricorrere ai criteri di collegamento posti dal diritto internazionale privato e di valutare la compatibilità con l’ordine pubblico alla stregua del più ampio contesto di fonti (non solo interne) all’interno del quale estrarre i principi dell’ordine pubblico. Premesso che l’approccio di questo orientamento è più specificamente internazionalprivatistico e comparatistico, si pone in evidenza come il diritto all’unità familiare sia un diritto della personalità e, come tale debba essere qualificato sia come diritto individuale sia se collegato ad un rapporto di famiglia. Conseguentemente secondo l’art. 24 L. n. 218 del 1995 sarà la legge nazionale di chi ne chiede il riconoscimento ad essere applicabile, con conseguente validità quanto meno a questo specifico fine, delle unioni registrate contratte all’estero. Si replica a questa impostazione che, così ragionando, rimane il problema della compatibilità delle unioni registrate con l’ordine pubblico in quanto se il diritto della personalità e il rapporto che lo sostiene sono regolati dalla legge del soggetto, tale legge (sulle unioni registrate) riguardando il diritto di famiglia non può sottrarsi al controllo di compatibilità con l’ordine pubblico. La formula non ha un significato univoco e richiede, per essere affrontata con completezza, un esame molto approfondito dello sviluppo del suo contenuto. Si ritiene solo di sottolineare che se si adotta il percorso argomentativo fondato sul parametro dell’ordine pubblico, secondo l’ orientamento della dottrina internazionalprivatistica, sopra citata, si deve escludere che possa essere esclusivamente fondato sul diritto positivo interno. Questa prospettiva viene invece assunta dalla dottrina (e dalla Corte d’Appello di Firenze nella sentenza impugnata) dell’inesistenza giuridica delle unioni registrate all’estero in quanto la contrarietà all’ordine pubblico viene desunta in primo luogo dalla mancanza nell’ordinamento interno delle unioni di fatto o matrimoniali tra persone dello stesso sesso. Ma, si può osservare, come suggerito dalla dottrina prevalente, che l’assunzione di uno spettro di principi più ampi, se non consente di limitare la rilevanza della tradizione culturale e giuridica da cui è scaturito l’art. 29 Cost., atteso il rilievo del sistema di valori interno ai fini della valutazione di compatibilità riguardante istituti familiari esteri, richiede però di non trascurare il panorama complessivo delle fonti, dalla Costituzione Europea ratificata dall’Italia e conseguentemente parte integrante dei valori che il nostro ordinamento esprime, fino ai principi di diritto comunitario stabiliti nel Trattato e nelle Direttive ed, in particolare, la forte affermazione del principio di non discriminazione in ambito UE. Trasferito nell’ambito dei principi di ordine pubblico internazionale, il rilievo della non discriminazione può portare a valutare se il mancato riconoscimento di un diritto fondamentale sia una misura proporzionata e necessaria, con specifico riferimento al caso concreto (ordine pubblico attenuato), per non alterare il sistema dei modelli familiari riconosciuti al proprio interno (sentenza Karner contro Austria all. giur.) da ciascuno Stato.
(Red. Maria Acierno)
Il direttore aggiunto
(Luigi Macioce)
INDICE NORMATIVA
1) Direttiva 2003/86/CE
2) Direttiva 2004/38/CE,
3) D.lgs n.5 del 2007
4) D.lgs n.30 del 2007
5) Dir. 2000/78/CE
6) art. 3 , secondo comma D.lgs n. 216/2003
7) artt. 28, 29, 30 del D.lgs n. 286 del 1998
INDICE DOTTRINA
1) M.SESTA, Il matrimonio estero, tra due cittadini italiani dello stesso sesso, è trascrivibile in Italia?, in Fam. E Dir. 2006 p. 414.
2) G. FERRANDO, Il contributo della Corte Europea dei diritti dell’uomo all’evoluzione del diritto di famiglia, in Nuova Giur. Civile Commentata, 2005, 263.
3) M. BONINI BARALDI, Le nuove convivenze, Profili
internazionalprivatistici, in, Il Nuovo Diritto di famiglia a cura di G. Ferrando, Bologna, 2008, cap. 24.
4) P. PALLARO, Coppie di fatto e ricongiungimento familiare nell’ordinamento comunitario in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 2001, 219.
5) M. BONINI BARALDI; Lo spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia : pluralismo di valori e pregiudizi nazionali a confronto. 6) CHIARA RAGNI; La disciplina della convivenza in Europa alla prova del pluralismo dei modelli familiari,.
7) LUISA PASCUCCI, Coppie di fatto : un limite al ricongiungimento familiare? In Famiglia e diritto, n. 11 del 2007 p. 1042. 8) W. ZAGREBELSKY, Famiglia e vita famigliare nella Convenzione Europea dei diritti umani, in Un nuovo diritto di famiglia europeo, 2007, Padova, 115 all.8 dottrina). Le posizioni assunte erano coerenti con l’esclusione dalla competenza.
9) F. BUSNELLI, La famiglia e l’arcipelago familiare, in Riv. Dir. Civ., 2002, 509.
10) R.BIN., La famiglia: alla radice di un ossimoro, in Studium Jus,2000, 10, 1066.
11) M. R. MARELLA, il Diritto di famiglia tra status e contratto;
il caso delle convivenze non fondate sul matrimonio, in Stare insieme, I regimi giuridici della convivenza tra status e contratto, a cura di F. Grillini e M. Marella, Napoli 2001, p. 41). (da reperire.)
ALLEGATI GIURISPRUDENZA
1) Corte Cost. n.443 del 1997.
2) Abstract sentenze CEDU e Corte di Giustizia citate nella relazione.
3) Corte di Giustizia grande Sezione 1 aprile 2008 C 267/06. 4) Corte Cost. n. 313 del 2000.
5) Corte Cost. n. 2 del 1998.
6) Corte Cost. 118 del 2008
7) Cass.n. 7472 del 2008 rv. 602591
8) Cass. pen. n. 20647 del 2008 rv. 239726
9) Cass. pen. n. 109 del 2005 rv. 232787
10) Cass. n.2988 del 1994 rv.485945
11) Cass. n.8976 del 2005 rv.581991
decr. Tribunale Latina 10/6/2005 e decr. Corte d’Appello Roma 13/6/2006 del e sent. della Corte d’Appello di Roma, rispettivamente in Famiglia e Diritto, n. 4/2005 p.411 e 2006 p. 411 con note di Schlesinger; Sesta; Bilotta, Bonini Baraldi, Orlandi,Cavana, 1