Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, seconda sezione, [Omissis] c/Italia, sentenza del 12 giugno 2007
– Ricorso n. 39432/06;
DECISIONE SULLA RICEVIBILITA’ del ricorso nº 39432/06 Presentato da Omissis contro l’Italia
La Corte europea dei Diritti dell’Uomo (seconda sezione), riunitasi il 12 giugno 2007 in camera alla presenza di:
F. TULKENS, presidentessa,
A.B. BAKA,
I. CABRAL BARRETO,
R. TÜRMEN,
M. UGREKHELIDZE,
V. ZAGREBELSKY,
A. MULARONI, giudici,
e di S. DOLLE, cancelliera della Sezione,
Visto il succitato ricorso presentato il 22 settembre 2006,
Vista la decisione del presidente della terza sezione di avvalersi dell’articolo 29 § 3 della Convenzione e di esaminare congiuntamente la ricevibilità e il merito della causa,
Vista la decisione di trattare prioritariamente il ricorso ai sensi dell’articolo 41 del regolamento della Corte,
Viste le osservazioni presentate dal governo convenuto e quelle di risposta presentate dal ricorrente,
Dopo aver deliberato, pronunzia la seguente decisione:
IN FATTO
Il ricorrente, omissis, è un cittadino peruviano, nato nel 1975 e residente a Busto Arsizio (Varese), ed è rappresentato dinanzi alla Corte dall’Avv. C. Defilippi, del foro di Milano. Il governo italiano (“il Governo”) è rappresentato dal suo agente, I.M. Braguglia, e dal suo coagente, F. Crisafulli.
I fatti della causa, così come sono stati esposti dalle parti, possono riassumersi nel seguente modo.
Il ricorrente è un transessuale che, in seguito ad operazioni, è passato dal sesso femminile a quello maschile. Il 6 marzo 1998, ossia prima dell’operazione di conversione sessuale, arrivò in Italia in possesso di un passaporto peruviano a nome della signora Omissis.
Il 13 marzo 1998, la Questura di Varese concedette al ricorrente un permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Il 13 aprile 2000, tale permesso fu rinnovato, con scadenza 5 marzo 2004.
Con sentenza dell’11 giugno 2003, il tribunale di Busto Arsizio autorizzò il ricorrente a sottoporsi a un intervento di conversione sessuale ai sensi della legge nº 164 del 14 aprile 1982. Tale operazione fu eseguita con successo l’8 e il 17 febbraio 2004.
Il 18 marzo 2004, il ricorrente chiese la modifica del suo sesso e del suo cognome (articolo 2 della legge nº 164 del 1982).
Con sentenza del 30 aprile 2004, il cui testo fu depositato in cancelleria il 3 maggio 2004, il tribunale di Busto Arsizio ordinò la rettifica del sesso del ricorrente da femminile a maschile e del nome dell’interessato da Omissis a Omissis. Il tribunale ordinò altresì “al competente ufficiale dell’anagrafe” di modificare conseguentemente ogni atto pertinente. Il ricorrente ottenne così dalle autorità italiane una carta d’identità e un codice fiscale con il nome di Omissis.
Al momento della scadenza del suo permesso di soggiorno, il ricorrente presentò alla prefettura di Varese i documenti necessari per chiederne il rinnovo. Tuttavia, la suddetta prefettura dichiarò che tale pratica non poteva andare a buon fine in quanto i dati sul passaporto e sulla carta d’identità del ricorrente non erano gli stessi; inoltre, quest’ultimo mostrava caratteristiche fisiche maschili, incompatibili con le indicazioni contenute nel documento peruviano.
Il 2 marzo 2005 il passaporto peruviano del ricorrente giunse a scadenza. L’interessato sostiene che gli è impossibile ottenerne il rinnovo da parte delle autorità peruviane: la legge del suo paese, infatti, non prevede la possibilità di cambiare sesso.
L’8 aprile 2005, il ricorrente presentò ricorso dinanzi alle giurisdizioni peruviane, chiedendo l’exequatur della sentenza del tribunale di Busto Arsizio del 30 aprile 2004.
Con sentenza del 12 gennaio 2006, la seconda sezione della Corte superiore di giustizia di Lima dichiarò il ricorso irricevibile, osservando che la conversione sessuale non era prevista da alcuna norma di legge peruviana e che la mancanza di reciprocità tra l’Italia e il Perù impediva di concedere l’exequatur.
Il ricorrente sostiene che in seguito a ciò si è ritrovato in una situazione di “apolide di fatto”: egli si trova in una situazione irregolare in Italia in quanto privo di permesso di soggiorno, e non può tornare in Perù poiché il suo passaporto è scaduto.
Secondo le informazioni ottenute dal ricorrente presso la prefettura di Varese, l’amministrazione italiana non era competente per trascrivere il cambiamento di sesso all’anagrafe. Così facendo, essa si sarebbe indebitamente sostituita alle autorità peruviane. Tra l’altro, la sentenza del 30 aprile 2004 si rivolgeva “al competente ufficiale dell’anagrafe”, senza però indicarlo.
Il 7 settembre 2006, il ricorrente inviò un memoriale al presidente del Tribunale di Busto Arsizio, spiegando la sua situazione e chiedendo di indicargli la procedura da seguire per tutelare i propri diritti ovvero, se necessario, di prendere qualsiasi decisione atta a “regolarizzare” la sua posizione.
Con nota del 14 settembre 2006, il tribunale di Busto Arsizio osservò che con la presentazione della domanda di rettifica del sesso, il ricorrente aveva accettato la giurisdizione delle autorità italiane, e questo indipendentemente dall’esistenza di condizioni di reciprocità tra l’Italia e il Perù. Inoltre, nel corso del procedimento, nessuna delle parti aveva eccepito un difetto di giurisdizione.
La sentenza del 30 aprile 2004, passata in giudicato, era stata eseguita dal competente ufficio dell’anagrafe, ossia dall’ufficio italiano, dove era stato trascritto l’atto di nascita del ricorrente. In ogni caso, il tribunale di Busto Arsizio non aveva alcuna competenza per ordinare l’esecuzione della sua sentenza a un’autorità straniera. Il fatto che le autorità peruviane avessero rifiutato l’exequatur non rientrava nell’ambito di controllo del tribunale. Al ricorrente rimaneva possibile chiedere, conformemente alla legge peruviana, la modifica dell’indicazione del suo sesso e un nuovo documento d’identità. Infine, ogni questione relativa all’esecuzione della sentenza del 30 aprile 2004 (che tra l’altro sembrava essere stata correttamente eseguita) doveva essere rivolta al pubblico ministero e al magistrato dell’esecuzione.
MOTIVI DI RICORSO
Appellandosi all’articolo 8 della Convenzione, il ricorrente denuncia una violazione del suo diritto al rispetto della propria vita privata e familiare.
Il ricorrente ritiene di essere stato sottoposto a trattamenti contrari all’articolo 3 della Convenzione.
Appellandosi agli articoli 6 § 1 e 13 della Convenzione, il ricorrente sostiene di non avere a sua disposizione, secondo il diritto italiano, alcun ricorso efficace per far valere i propri diritti.
IN DIRITTO
Il ricorrente ritiene di aver subito un’ingerenza nel suo diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, incompatibile con l’articolo 8 della Convenzione, che così formulato:
“1. Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza. “
2. Non può aversi interferenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di questo diritto a meno che questa ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per la sicurezza pubblica, per il benessere economico del paese, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà degli altri.”
Il Governo contesta tale tesi.
Tesi delle parti
Il Governo
Eccezione relativa alla mancanza della qualità di “vittima” del ricorrente
Il Governo sostiene anzitutto che il ricorrente non abbia formalmente chiesto il rinnovo del suo permesso di soggiorno, limitandosi a raccogliere informazioni preliminari presso la prefettura. E’ vero che il ricorrente sostiene il contrario, ma egli non ha fornito alcuna prova in proposito. Se ne deduce che l’interessato non ha compiuto un iter amministrativo legalmente valido e la sua istanza non è stata formalmente respinta dalla competente autorità. Non avrebbe quindi mai acquisito la qualità di “vittima” di qualunque possibile violazione.
Eccezione relativa al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne
Il Governo eccepisce altresì il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, sostenendo che il ricorrente, se avesse presentato formale richiesta di rinnovo del suo permesso di soggiorno, avrebbe potuto, in caso di rigetto di quest’ultima, adire la giustizia amministrativa (tribunale amministrativo regionale e Consiglio di Stato). Se il rigetto della sua richiesta fosse stato motivato con la non corrispondenza dei caratteri fisici del richiedente con quelli del titolare del passaporto, il ricorrente avrebbe avuto delle possibilità di vedere accettato il suo ricorso, in quanto la sentenza amministrativa avrebbe potuto essere considerata contraria alla sentenza del tribunale di Busto Arsizio del 30 aprile 2004 e alla legge nº 164 del 1982.
Tra l’altro, le esitazioni espresse dalla prefettura di Varese non avevano alcun valore giuridico, in quanto l’autorità amministrativa era obbligata a conformarsi alle sentenze definitive dell’autorità giudiziaria.
Il ricorrente avrebbe altresì potuto chiedere al pubblico ministero l’esecuzione della sentenza del 30 aprile 2004 “anche dal punto di vista del rilascio del permesso di soggiorno”.
Eccezione relativa al superamento del termine di sei mesi
Secondo il Governo, il ricorso è tardivo.
Il Governo osserva che la tesi del ricorrente, secondo cui egli avrebbe preso coscienza dell’impasse in cui si trovava soltanto il 7 settembre 2006, quando ha chiesto dei chiarimenti al presidente del tribunale di Busto Arsizio, è priva di fondamento. La suddetta richiesta non è una via il cui esaurimento sarebbe necessario e non può quindi costituire il punto di partenza del termine di sei mesi previsto dall’articolo 35 § 1 della Convenzione. Lo stesso varrebbe per la sentenza della Corte superiore di giustizia di Lima e per la scadenza del passaporto del ricorrente, in quanto si tratta di fatti che si sono verificati completamente sotto la giurisdizione di uno Stato terzo.
Rimarrebbe soltanto la data di scadenza del permesso di soggiorno del ricorrente; ora, questa è anteriore alla presentazione del ricorso di due anni e mezzo.
Eccezione di incompatibilità ratione personae
Il Governo osserva che la situazione di impasse in cui si trova il ricorrente è stata provocata soprattutto dall’impossibilità, nell’ordinamento giuridico peruviano, di ottenere il riconoscimento della sua nuova identità maschile. Ciò è sia decisivo che in contraddizione con il diritto di ogni individuo al rispetto della sua identità sessuale, ma rientra nella competenza dell’ordinamento giuridico e della giurisdizione del Perù, Stato che non è parte alla Convenzione.
Sul merito del motivo di ricorso
Il Governo ritiene che il motivo del ricorrente sia in ogni caso palesemente infondato. Il Governo osserva che dalla sentenza Christine Goodwin c. Regno Unito (GC) nº 28957/95, CEDH 2002-VI), la Corte ha esplicitamente affermato che l’articolo 8 della Convenzione implica un obbligo positivo di permettere ai transessuali di far figurare la loro nuova identità su ogni documento ufficiale che li riguardi.
Ora, dal 1982 l’Italia ha una legge che permette ad ogni transessuale operato di ottenere, su ordine di una giurisdizione, la modifica dei registri anagrafici. Tale legge, che soddisfa le esigenze della Convenzione, è stata utilizzata con esito positivo dal ricorrente.
In tali circostanze, il Governo non vede alcuna ingerenza nel diritto al rispetto della vita privata del ricorrente. Le misure da lui citate (rettifica delle sue caratteristiche, esecuzione amministrativa della sentenza del 30 aprile 2004) sono state prese su sua richiesta e a suo favore. Ciò rappresenta non un’ingerenza, ma una risposta positiva delle autorità a una legittima richiesta del ricorrente.
Tra l’altro, la tesi del ricorrente, secondo cui egli sarebbe un “apolide di fatto”, è priva di fondamento. L’interessato infatti è un cittadino peruviano a tutti gli effetti e il Perù rifiuta di riconoscere le sentenze italiane non per mancanza di accordo tra i due paesi, ma perché le sentenze in questione sono ritenute, nel diritto peruviano, come contrarie all’ordine pubblico. Inoltre, non è stato emesso alcun decreto di espulsione nei confronti del ricorrente. I timori di espulsione di quest’ultimo sono perciò teorici, tanto più che l’esecuzione di tale misura porrebbe il problema dell’accettazione da parte del Perù.
Il ricorrente non ha precisato la natura e l’ampiezza dei suoi rapporti in Italia, limitandosi a indicare il suo desiderio di crearsi una “vita familiare”. La Convenzione, tuttavia, tutela soltanto i rapporti già esistenti.
Il Governo ritiene altresì che non vi sia stata inosservanza degli obblighi positivi dello Stato.
Le autorità italiane non erano tenute a verificare d’ufficio, prima di accettare le richieste del ricorrente, se il diritto peruviano permettesse una rettifica delle caratteristiche fisiche e quali potevano essere le conseguenze dell’iter del ricorrente nei suoi rapporti con lo Stato di cui è cittadino. Il diritto italiano infatti considera la legge straniera come un dato di fatto e non di diritto e spetta quindi alle parti interessate portarla a conoscenza del giudice. Il ricorrente è uno straniero maggiorenne, in grado di intendere e di volere e che è stato assistito da un avvocato dinanzi alle giurisdizioni italiane. Queste ultime potevano giustamente ipotizzare che egli fosse informato sulle norme giuridiche applicabili al suo caso nel proprio paese.
Tra l’altro, l’Italia non può rilasciare un passaporto peruviano al ricorrente e la Convenzione non impone sicuramente l’obbligo di concedere la cittadinanza italiana a uno straniero perché si tratta di un transessuale e il suo paese non lo riconosce come tale.
Sul problema di sapere se le autorità italiane sono tenute a rilasciare al ricorrente un nuovo permesso di soggiorno, il Governo distingue due periodi.
Nel primo, dal 5 marzo 2004 (data di scadenza del permesso) al 2 marzo 2005 (data di scadenza del passaporto), si può ritenere che il ricorrente avesse diritto al rinnovo in questione: infatti, egli possedeva un passaporto valido e i documenti che provavano che il titolare di quel passaporto e della carta d’identità italiana erano la stessa persona. Il ricorrente però non avrebbe chiesto il rinnovo del permesso di soggiorno in buona e dovuta forma, limitandosi a chiedere un parere preventivo alla prefettura.
Il Governo nota altresì che la concessione di un nuovo permesso di soggiorno ha soltanto rinviato un po’ il problema, senza risolverlo. Prima o poi il nuovo permesso sarebbe scaduto e anche il passaporto del ricorrente avrebbe raggiunto il limite di validità. L’interessato si sarebbe allora trovato nella situazione attuale e che caratterizza il secondo periodo.
Questo è iniziato il 2 marzo 2005. Da quella data, il ricorrente non poteva più ottenere un permesso di soggiorno in quanto non aveva un passaporto valido. Ora, “qualsiasi Stato, in ogni epoca e in ogni posto” ha delle norme minime per rilasciare tale permesso.
Imporre la modifica di tali norme implicherebbe un rivolgimento del sistema giuridico nazionale, non direttamente legato alle implicazioni sociali del transessualismo e che metterebbe i transessuali in una posizione privilegiata rispetto a ogni altro straniero. L’Italia, inoltre, declina ogni responsabilità relativamente all’impossibilità, per il ricorrente di andare a trovare i suoi cari in Perù. Infatti, questo dipende dal rifiuto delle autorità peruviane di rilasciare un passaporto all’interessato.
Infine, il Governo osserva che è difficile credere che il ricorrente, una persona adulta che si è volontariamente sottoposto a un intervento chirurgico di cambiamento di sesso, ignorasse che la legislazione del suo paese non riconosceva il transessualismo. In proposito, egli dovrebbe piuttosto rivolgersi alla Corte interamericana dei Diritti dell’Uomo. Il suo ricorso alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo è invece palesemente infondato, e potrebbe perfino essere considerato improprio.
Il ricorrente
Sulle eccezioni del Governo
Il ricorrente contesta anzitutto tutte le eccezioni sollevate dal Governo. Egli sostiene di aver presentato formale domanda di rinnovo del suo permesso di soggiorno. In un primo tempo, questa domanda è stata respinta in quanto i dati del suo passaporto non corrispondevano alla sua nuova identità maschile. La nota della prefettura di Varese che riportava tale problema era, in realtà, un rigetto formale dei documenti presentati dal ricorrente, in quanto questi erano, a prima vista, irregolari, In seguito, dopo la scadenza del suo passaporto, un’eventuale domanda di rinnovo non avrebbe soddisfatto le condizioni fissate dalla legge interna.
Il ricorrente non desidera denunciare, in abstracto, la legislazione italiana, ma le conseguenze della sua applicazione sulla sua situazione personale. La concessione di misure favorevoli non potrebbe, di per sé, privarlo della qualità di “vittima” ai sensi dell’articolo 34 dalla Convenzione.
Tra l’altro, il Governo non ha presentato alcuna giurisprudenza a sostegno della tesi secondo cui sarebbe stato ragionevole credere che le giurisdizioni amministrative avrebbero accolto un eventuale ricorso contro il rifiuto del rinnovo del permesso di soggiorno del ricorrente a causa della discordanza con i dati sul suo passaporto e sulla sua carta d’identità. In ogni caso, un ricorso alle giurisdizioni amministrative non avrebbe potuto risolvere la situazione di irregolarità in cui l’interessato si è trovato dopo la scadenza del suo passaporto peruviano. Infine, la procura sarebbe stata competente per intervenire solo relativamente all’esecuzione della sentenza del 30 aprile 2004, una decisione che, in una nota del 14 settembre 2006, il tribunale di Busto Arsizio ritiene “correttamente eseguita”.
Infine, il ricorrente ritiene che il suo ricorso non possa essere dichiarato irricevibile per superamento dei limiti di tempo: da una parte, l’ultima risposta dello Stato italiano è la nota del tribunale di Busto Arsizio del 14 settembre 2006; dall’altra, denuncia una situazione di precarietà continuativa e non ancora terminata. La situazione in questione sarebbe conseguenza della legge italiana e della sua applicazione al suo caso specifico, il che avrebbe avuto delle ripercussioni anche sul mancato riconoscimento della sua nuova identità in Perù.
Sul merito del motivo di ricorso
Il ricorrente osserva che secondo la risoluzione 428(1970) dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, ognuno dovrebbe avere il diritto di “vivere con il minimo delle ingerenze esterne”. Il ricorrente attualmente si trova, e per motivi indipendenti dalla sua volontà, in una situazione irregolare in Italia, un paese in cui risiede dal 1998 e in cui si trova il centro della sua attività professionale e delle sue relazioni umane. Questo ha complicato la sua vita familiare, privata e personale. Il ricorrente sarebbe nella situazione di un “apolide di fatto”: non potrebbe né tornare in Perù, dove risiede tutta la sua famiglia originaria, né costruirsi in Italia una nuova famiglia sulla base della sua nuova identità sessuale.
Il ricorrente osserva di aver chiesto la rettifica del suo sesso, ma non ha chiesto né desiderato di essere messo, in Italia, in una situazione irregolare e precaria, che lo espone al rischio di essere espulso.
Lo Stato italiano avrebbe l’obbligo positivo di evitare che si verifichi una tale situazione e avrebbe dovuto informare il ricorrente sulle eventuali e gravi ripercussioni che potevano derivare dal suo cambiamento di sesso. In particolare, le autorità italiane avrebbero dovuto informarsi sulla possibilità di far eseguire in Perù la sentenza del tribunale di Busto Arsizio e avrebbero dovuto attivarsi al fine di modificare la legislazione interna e internazionale per rimediare a ogni violazione della Convenzione. In proposito, occorre notare che ai sensi dell’articolo 14 della legge nº 218 del 1995, “l’accertamento della legge straniera è effettuato d’ufficio dal giudice”.
Il ricorrente sottolinea di non essere esperto in materia giuridica e di non avere alcuna possibilità di conoscere la legislazione peruviana sulla transessualità, che è tra l’altro inesistente. Egli non poteva neanche prevedere le conseguenze dell’applicazione della legge italiana al suo caso specifico. In proposito, il ricorrente ricorda che l’esistenza di una “base legale” per ogni ingerenza con i diritti tutelati dall’articolo 8 della Convenzione dipende anche dall’accessibilità e dalla prevedibilità dei testi legali interessati. Il ricorrente sostiene altresì che si sarebbe potuto ritenere che, ordinando “al competente ufficiale dell’anagrafe” di modificare gli atti pertinenti che lo riguardavano, di fatto il tribunale di Busto Arsizio gli aveva concesso la cittadinanza italiana.
Il ricorrente non costituisce un pericolo per l’ordine pubblico o la sicurezza nazionale; il solo motivo che ha condotto alla sua situazione di irregolarità e al relativo rischio di espulsione è la sua richiesta di conversione sessuale. Il ricorrente ricorda di aver sempre lavorato regolarmente in Italia, pagando i contributi. Se non fossero sorti i problemi relativi alla sua transessualità, egli avrebbe diritto a un “permesso di soggiorno” riservato agli stranieri residenti da lungo tempo in Italia. Tra l’altro, la sua nuova identità e il suo nuovo aspetto fisico non sarebbero riconosciuti, il che l’esporrebbe a umiliazioni costanti.
Valutazione della Corte
La Corte non ritiene necessario esaminare le eccezioni del Governo relative alla mancanza della qualità di “vittima”, al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne e al superamento del termine di sei mesi previsto dall’articolo 35 § 1 della Convenzione, perché, anche ammesso che tale motivo di ricorso non sia inammissibile per tali motivi, esso è comunque da respingere per le seguenti ragioni.
La Corte ha esaminato le dichiarazioni del Governo relative all’incompatibilità ratione personae delle rimostranze del ricorrente. In proposito, la Corte osserva che il Perù è uno Stato indipendente non parte alla Convenzione. Ora, la decisione di respingere il ricorso del ricorrente per ottenere l’exequatur della sentenza del tribunale di Busto Arsizio del 30 aprile 2004 è stata presa dalle autorità peruviane, e lo stesso dicasi per quanto riguarda il rifiuto di rinnovare il passaporto dell’interessato. Inoltre, i giudici italiani non avevano il potere di ordinare delle modifiche dei registri anagrafici del Perù. La rettifica del sesso del ricorrente da femminile a maschile e del nome dell’interessato da Omissis a Omissis, ordinata dal tribunale di Busto Arsizio, è stata eseguita dalle autorità amministrative italiane, conformemente alla legge del paese, e non si può considerarle responsabili per le relative omissioni o inazione di uno Stato terzo.
Se ne deduce che nella misura in cui il ricorso è relativo ai fatti succitati, riguarda delle circostanze che non rientrano nella giurisdizione italiana ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione.
La Corte ritiene altresì che, in circostanze quali quelle della fattispecie, non si possa dedurre dall’articolo 8 della Convenzione l’obbligo positivo, per uno Stato parte alla Convenzione, di informarsi sulla possibilità di far eseguire le sue sentenze all’estero o di modificare il diritto interno o internazionale per giungere a tale risultato.
Resta da decidere se la situazione di irregolarità in cui si trova oggi il ricorrente in Italia rappresenta una violazione della Convenzione. A tal proposito, la Corte osserva che le parti sono concordi sul fatto che dal 2 marzo 2005, data di scadenza del passaporto peruviano del ricorrente, questi non aveva più la possibilità di ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno rilasciatogli dalla prefettura di Varese. Né è contestato il fatto che il motivo fondamentale, se non esclusivo, del rifiuto del rinnovo del passaporto sta nella conversione sessuale dell’interessato.
Occorre ricordare che gli Stati contraenti hanno, ai sensi di un principio di diritto internazionale ben consolidato e fatti salvi gli impegni che derivano loro da trattati, compresa la Convenzione, il diritto di controllare l’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dei non cittadini (vedi, tra molte altre, Abdulazis, Cabales e Balandali c. Regno Unito, sentenza del 28 maggio 1985, serie A nº 94, p. 34, § 67, e Bouflifa c. Francia, sentenza del 21 ottobre 1997, Raccolta delle sentenze e delle decisioni 1997-VI, p. 2264, § 42). Né la Convenzione né i suoi Protocolli riconoscono, in quanto tale, il diritto al rilascio di un permesso di soggiorno od alla concessione della cittadinanza di una della Alti Parti firmatarie.
Ciò nonostante, la conversione sessuale, operata legittimamente, deve sfociare in una piena consacrazione nel diritto e non deve mettere il transessuale in una situazione anormale che gli provochi sentimenti di vulnerabilità, umiliazione e ansia (Christine Goodwin succitata, §§ 77-78).
Nella fattispecie, le autorità italiane hanno autorizzato il ricorrente a sottoporsi ad un’operazione di conversione sessuale e hanno modificato nei registri anagrafici il sesso e il nome dell’interessato, e hanno inoltre rilasciato al ricorrente una carta d’identità e un codice fiscale a nome di Omissis. In tali circostanze, la Corte ritiene che lo Stato italiano abbia assolto all’obbligo, impostogli dall’articolo 8 della Convenzione, di adottare pratiche che permettano di evitare o di minimizzare il rischio di difficoltà cui il ricorrente si trova esposto (vedi, mutatis mutandis, Christine Goodwin succitata, § 89).
E’ vero che a causa del rifiuto delle autorità peruviane di riconoscere la sua conversione sessuale e di rinnovargli il passaporto, il ricorrente non ottempera ai requisiti richiesti dalla legge italiana per il rinnovo del suo permesso di soggiorno. Tuttavia, la Corte osserva che non ha avuto notizia, a tutt’oggi, dell’approvazione di un decreto di espulsione contro l’interessato o dell’avvio di qualsiasi procedura che possa giungere a tal risultato.
Alla luce di quanto sopra, la Corte ritiene che non si possa individuare alcuna forma di violazione dell’articolo 8 della Convenzione in seguito al comportamento delle autorità italiane.
Ne segue che il motivo di ricorso è in parte incompatibile con le norme della Convenzione, e in parte palesemente infondato, e deve essere respinto ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4.
Il ricorrente sostiene di essere stato oggetto di trattamenti contrari all’articolo 3 della Convenzione, che recita: “Nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o trattamenti inumani o degradanti.”
Il ricorrente fa riferimento alle umiliazioni legate al mancato riconoscimento della sua nuova identità sessuale, che gli avrebbe creato dei sentimenti di angoscia e di inferiorità, destinati a perpetrarsi nel tempo.
Il Governo ritiene che tale motivo di ricorso sia “talmente privo di fondamento (&) che non ha molto senso soffermarvisi”.
In conformità alla giurisprudenza costante della Corte, per rientrare nell’ambito dell’articolo 3, un trattamento crudele deve raggiungere un minimo di gravità. La valutazione di tale minimo è relativa per definizione; dipende dall’insieme dei dati della causa, e in particolare dalla natura e dal contesto del trattamento, nonché dalle sue modalità di esecuzione, dalla sua durata, dai suoi effetti fisici o mentali, nonché, a volte, dal sesso, dall’età e dallo stato di salute della vittima (vedi, tra le altre, Price c. Regno Unito, nº 33394/96, § 24, CEDU 2001-VII, Mouisel c. Francia, nº 67263/01, § 37, CEDU 2002-IX, e Gennadi Naoumenko c. Ucraina, nº 42023/98, § 108, 10 febbraio 2004).
La Corte riconosce che il ricorrente abbia potuto sentirsi frustrato a causa del mancato riconoscimento, da parte delle autorità peruviane, della sua nuova identità sessuale, ma nota che in Italia tale riconoscimento vi è stato. Perciò in Italia il trattamento denunciato non ha raggiunto la soglia di gravità richiesta per rientrare nell’ambito dell’articolo 3 della Convenzione.
Ne segue che tale motivo di ricorso è palesemente infondato e deve essere respinto ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
Il ricorrente ritiene di non avere a disposizione, nel diritto italiano, alcun mezzo di ricorso efficace per risolvere la sua situazione e proteggere i suoi diritti.
Il ricorrente si appella all’articolo 13 della Convenzione, che è così formulato:
“Ogni persona i cui diritti e libertà riconosciuti nella (&) Convenzione fossero violati, ha diritto di presentare un ricorso avanti a una magistratura nazionale, anche quando la violazione fosse stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio di funzioni ufficiali.”
Nelle sue osservazioni in risposta, giunte in cancelleria il 19 marzo 2007, il ricorrente ha sostenuto che la situazione da lui denunciata viola altresì l’articolo 6 § 1 della Convenzione.
Tale norma è così formulata, nelle sue parti pertinenti:
“Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente (&) da parte di un tribunale (&) che deciderà sia in ordine alle controversie sui suoi diritti ed obbligazioni di natura civile, sia sul fondamento di ogni accusa in materia penale elevata contro di lei. (&)
Il Governo si oppone a tale tesi.
Tesi delle parti
Il Governo
Il Governo osserva che, dal 5 marzo 2004 al 2 marzo 2005, il ricorrente aveva a disposizione un ricorso effettivo per ottenere il rinnovo del suo permesso di soggiorno, ossia la presentazione di formale richiesta di rinnovo e il deferimento delle giurisdizioni amministrative in caso di esito negativo di questa. Tuttavia, il ricorrente non si è avvalso di tale mezzo di ricorso.
Inoltre, per i motivi succitati, il Governo ritiene che il ricorrente non fosse titolare di alcun “motivo di ricorso sostenibile” dal punto di vista dell’articolo 8 della Convenzione; di conseguenza l’articolo 13 non trova applicazione.
Il ricorrente
Il ricorrente osserva che nella sua sentenza del 30 aprile 2004, il tribunale di Busto Arsizio a ordinato “al competente ufficiale dell’anagrafe” di modificare ogni atto relativo tenendo conto della sua nuova identità sessuale. Tuttavia il “competente ufficiale dell’anagrafe” è quello del luogo di trascrizione dell’atto di nascita, e poiché il ricorrente è nato in Perù, l’ordine del tribunale di Busto Arsizio non poteva essere eseguito ed è rimasto inefficace.
Valutazione della Corte
La Corte osserva anzitutto che il ricorrente non ha motivato le sue dichiarazioni dal punto di vista dell’articolo 6 § 1 della Convenzione. In ogni caso, la Corte ricorda che ha appena concluso, dal punto di vista dell’articolo 8, che i registri anagrafici italiani sono stati modificati, in esecuzione della sentenza del tribunale di Busto Arsizio del 30 aprile 2004, e che le sole ripercussioni negative della conversione sessuale del ricorrente che si sono avute nell’ordinamento giuridico italiano riguardano l’impossibilità di rinnovare il permesso di soggiorno dell’interessato. Ora, le decisioni relative all’ingresso, al soggiorno ed all’allontanamento degli stranieri non implicano la contestazione dei diritti od obblighi di carattere civile di un ricorrente, né riguardano il fondamento di un’accusa in materia penale rivolta contro di lui, ai sensi dell’articolo 6 § 1 della Convenzione (Maaouia c. Francia (GC), nº 39652/98, § 40, CEDU 2000-X, Penafiel Salgado c. Spagna (dec.), nº 65964/01, 16 aprile 2002, Sardinas Albo c. Italia (dec.), nº 56271/00, CEDU 2004-I, e Mamatkoulov e Askarov c. Turchia (GC), nº 46827/99 e 46951/99, § 82, CEDU 2005-I).
In tali circostanze, la Corte ritiene che il motivo di ricorso del ricorrente si presti a essere esaminato soltanto dal punto di vista dell’articolo 13 della Convenzione.
Tale norma non può essere interpretata come se l’articolo richiedesse un ricorso interno per qualsiasi rimostranza, anche se ingiustificata, che un individuo può presentare relativamente alla Convenzione: deve trattarsi di un motivo di ricorso sostenibile in relazione a quest’ultima (Boyle e Rice c. Regno Unito, sentenza del 24 aprile 1988, serie A nº 131, p. 23, § 52). Nel presente procedimento, la Corte ha appena concluso che le rimostranze del ricorrente relative alle clausole “normative” degli articoli 8 e 3 della Convenzione o sono palesemente infondate, o sono al di fuori del campo d’applicazione di quest’ultime.
Ora, le considerazioni sugli elementi di fatto che hanno portato la Corte ha respingere i motivi di ricorso del ricorrente dal punto di vista delle clausole normative cui egli si è appellato la portano a concludere, dal punto di vista dell’articolo 13, che non si era in presenza di motivi di ricorso sostenibili (vedi, per esempio e tra molte altre, Walter c. Italia (dec.), nº 18059/06, 11 luglio 2006, e Al-Shari e altri c. Italia (dec.), nº 57/03, 5 luglio 2005). L’articolo 13 non trova perciò applicazione.
Ne segue che questo ricorso è incompatibile ratione materiae con le norme della Convenzione ai sensi dell’articolo 35 § 3 e deve essere respinto ai sensi dell’articolo 35 § 4.
Occorre quindi porre fine all’applicazione dell’articolo 29 § 3 della Convenzione e dichiarare il ricorso irricevibile nella sua totalità.
Per questi motivi, la corte, all’unanimità,
Dichiara il ricorso irricevibile.
S. DOLLE
Cancelliera
F. TULKENS
Presidentessa