Corte di Cassazione, prima sezione civile, sentenza del 14 aprile 2005 – 18 giugno 2005
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOSAVIO Giovanni – Presidente
Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere
Dott. MACIOCE Luigi – rel. Consigliere
Dott. PANZANI Luciano – Consigliere
Dott. PETITI Stefano – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona Ministro in carica, ex lege rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato e presso questa domiciliato in Roma, alla Via dei Portoghesi n. 12.
– ricorrente –
contro
A. L. , rappresentato e difeso dagli avv. GRISTINA Sergio e Mario Teofili e presso lo studio di quest’ultimo elettivamente domiciliato in Roma, Via dei Gracchi n. 189.
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di appello di Genova del 7 – 29 marzo 2003.
Udita, all’udienza del 14 aprile 2005, la relazione del Cons. Dr. Fabrizio Forte.
Udito il P.M. Dr. APICE Umberto, che ha concluso per la inammissibilità o il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Lo straniero extracomunitario L. A., coniugato con la cittadina italiana F. L. dal 10 giugno 2000, si opponeva, dinanzi al Tribunale di Massa, al provvedimento del locale Questore del 29 luglio 2002, che aveva respinto la sua richiesta di permesso di soggiorno per motivi familiari, presentata ex artt. 19, comma 2, lett. e, e 30, 1 comma, lett. b, del D.Lgs. 25 luglio 1998 n. 286 (T.U. sulla immigrazione, da ora T.U. n.d.e.) e 28 del Regolamento di attuazione di tale T.U., cioè del D.P.R. 31 agosto 1999 n. 394, ordinandone quindi l’espulsione.
I1 ricorso del A.L. contro il diniego di permesso era accolto con provvedimento del 23 dicembre 2002, dal giudice unico del Tribunale di Massa, che riteneva esservi la prova, fornita dall’opponente, della convivenza di lui con la moglie, con conseguente applicabilità dell’art. 19, comma 2, lett. e. del T.U., che vietava l’espulsione dello straniero convivente con coniuge italiano, essendo comunque tardiva l’eccezione del Ministero, che aveva dedotto l’esistenza di una espulsione precedente al diniego di permesso di soggiorno.
Il Ministero dell’Interno proponeva reclamo avverso il provvedimento del Tribunale, per essere l’opponente un transessuale dedito alla prostituzione, con palese inesistenza del matrimonio, ma la impugnazione era rigettata dalla Corte d’appello di Genova, con la sentenza oggetto di ricorso, ritenendo irrilevante l’esistenza di una precedente espulsione non eseguibile per il matrimonio del reclamato con una cittadina italiana e la sua convivenza con la stessa. Una volta provati il matrimonio e la convivenza, ad avviso della Corte, non rilevavano in senso contrario al permesso e al divieto di espulsione le circostanze indicate in reclamo.
Secondo il Ministero, infatti, le circostanze che avrebbero evidenziato il carattere fittizio del matrimonio erano la grande differenza di età tra i due coniugi, il difetto di mezzi di sostentamento dello straniero, titolare dei soli beni provenienti dalla sua attività illecita, e la discontinuità della convivenza, avendo la L. dichiarato di trascorrere parte della settimana in altro comune, e infine il fatto che il A.L., anagraficamente maschio, era in realtà di sesso femminile.
Secondo la Corte, nessun rapporto di polizia era idoneo a smentire la veridicità del matrimonio dello straniero con una cittadina italiana, mentre la continuità di vita comune non escludeva periodi di lontananza tra i coniugi, giustificati anche da motivi di lavoro, e quindi, pure per detto profilo, doveva negarsi il carattere fittizio del matrimonio, non essendosi dimostrata la circostanza che lo straniero era in realtà di sesso femminile.
In ogni caso, le prove testimoniali avevano dimostrato la convivenza dei coniugi e il reclamato era stato rinvenuto nel domicilio coniugale; quindi il reclamo era da rigettare con compensazione delle spese. Per la cassazione della sentenza propone ricorso con unico articolato motivo il Ministero dell’Interno e il Do Amarai si difende con controricorso.
Motivi della decisione
Preliminarmente deve rigettarsi l’eccezione di inammissibilità del ricorso per Cassazione, proposta dal controricorrente, per violazione del termine di cui all’art. 327 c.p.c..
Infatti la sentenza impugnata è stata pubblicata il 29 marzo 2003 e il ricorso, notificato a mezzo posta, è stato consegnato all’ufficiale giudiziario per la Spedizione il 14 maggio 2004, cioè esattamente un anno e quarantasei giorni dopo la pubblicazione del provvedimento contro il quale si ricorre, nel termine lungo di cui alla citata norma di un anno, al quale vanno aggiunti i quarantasei giorni del periodo feriale, dal 1^ agosto al 15 settembre. Nel merito, l’impugnazione lamenta violazione e falsa applicazione degli artt, 19 e 30, comma 1 bis. del T.U., e dell’art. 28 del D.P.R. 31 agosto 1999 n. 394 (Regolamento di attuazione del T.U.), norme che collegano all’effettiva convivenza dello straniero con il coniuge cittadino italiano il diritto a ottenere il permesso di soggiorno e di non essere espulso dal territorio italiano.
I requisiti legali perché sorga il diritto dello straniero extracomunitario a rimanere in Italia sono formali (matrimonio) e sostanziali (convivenza), e di essi deve tenersi conto per accertare la posizione soggettiva dell’istante.
Secondo il Ministero, la Corte d’appello aderisce ad una nozione di -“convivenza matrimoniale” difforme da quella comunemente intesa come tale nella nostra cultura e nel nostro ordinamento giuridico, non tenendo conto che il matrimonio deve considerarsi come “atto” e come “rapporto”.
Come atto, il matrimonio costituisce lo stato coniugale ed ha causa nella comunione di vita tra i coniugi, sorgendo da esso l’obbligo di coabitazione;
convivenza non significa solo coabitazione dopo la riforma del diritto di famiglia e ai sensi degli artt. 144 e 45 c.c., mentre sul piano sostanziale, la coabitazione rileva come segno di unità dei coniugi.
Nel caso, il difetto di convivenza tra i coniugi non è emerso dall’istruttoria espletata in sede di merito perchè, dalle dichiarazioni rese dallo straniero al P.M. di Carrara, risultava che la moglie di lui, residente anagraficamente in altra città e domiciliata ancora in diverso comune, veniva a fargli visita una volta al mese: la Corte d’appello ha invece desunto la convivenza dalla mera esistenza del matrimonio, senza tenere conto dei rapporti della Questura, della Polizia municipale e dei carabinieri e dando invece rilievo a prove testimoniali assunte in primo grado. 2. Il ricorso è infondato, in ordine alle lamentate carenze motivazionali della sentenza di merito, e inammissibile in riferimento alle censure proposte sulle valutazioni date dalla Corte alle risultanze istruttorie, ritenute prevalenti sui rapporti della Pubblica sicurezza.
La Corte di appello ha ritenuto che il giudizio sorto dall’opposizione abbia escluso che l’unione tra il A.L. e la L., formalmente coniugati, “sarebbe fittizia” (pag. 4 sentenza impugnata), come sostenuto dal Ministero, che non ha dato prova di tale sua prospettazione; infatti, nessun effettivo accertamento sul carattere fittizio del matrimonio sarebbe stato sollecitato dal Ministero.
Secondo la Corte territoriale, “i rapporti della P.S. versati in atti hanno valore di atto pubblico solo per la parte attinente alle attività che gli operatori affermano di avere svolto, ma…non per i convincimenti palesati o, per quanto attiene alla veridicità del contenuto di informazioni, che gli stessi avrebbero raccolto da terzi” (pag. 5 della sentenza impugnata).
Negata rilevanza all’attività di prostituzione svolta dal controricorrente non incompatibile con un regolare matrimonio, la Corte, sulla “continuità” della convivenza, ha esattamente rilevato che “le esigenze lavorative possono giustificare e in fatto giustificano per molte coppie, spostamenti e collocazioni logistiche distinte per ciascun coniuge, senza che da ciò possa indursi, in difetto di circostanze ulteriori, il convincimento della natura fittizia della unione” (così la sentenza citata alla pagina da ultimo citata).
Ritenuto indimostrato dal Ministero, che il A.L. fosse di sesso femminile, circostanza che, se accertata e provata, avrebbe comportato l’inesistenza del matrimonio, la Corte ha dato rilievo, a fronte dei rapporti di P.S. che deducevano la mancanza di convivenza, alle deposizioni di testi assunti in primo grado dal Tribunale, che avevano affermato “di aver visto ripetutamente insieme il reclamato e il coniuge, anche nella dimora indicata dalle parti come familiare, presso la quale il reclamato è stato comunque rinvenuto in sede di accertamento” (così a pag. 6 della sentenza di merito).
Logicamente l’istruttoria svolta dal giudice ha assunto rilievo maggiore dei rapporti di P.S. per le parti di questi non fidefacenti e il ricorso, infondato per tale profilo, è inammissibile per la parte in cui prospetta una valutazione diversa del ricorrente, rispetto a quella data dai giudici, delle risultanze probatorie.
Per la soccombenza in questa fase il Ministero deve corrispondere al controricorrente le spese di causa, che si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il Ministero ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese di causa che liquida in euro 2.100, 00 (duemilacento/00), dei quali euro 2000, 00 (duemila/00) per onorari, euro 100, 00 (cento/00) per esborsi, oltre alle spese generali e accessorie come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 aprile 2005.
Depositato in Cancelleria il 18 giugno 2005