PROPOSTA DI LEGGE d’iniziativa della deputata TINAGLI
Disciplina dell’unione civile
La presente proposta di legge riprende quella presentata nella scorsa legislatura dell’onorevole Anna Paola Concia (atto Camera n. 1631, XVI legislatura) alla quale va la doverosa attestazione per la qualità del lavoro svolto.
La presente proposta di legge si pone come testo base per l’apertura di un confronto rapido e concreto che abbia come obiettivo quello di rimuovere l’attuale situazione di discriminazione vigente nel nostro ordinamento rispetto alla disciplina delle unioni omosessuali.
La mancata predisposizione di qualunque forma di riconoscimento delle unioni stabili tra persone dello stesso sesso nel nostro Paese rischia di assegnare all’Italia, in questa materia, un primato negativo che certamente nuoce alla reputazione internazionale del Paese in materia di tutela dei diritti umani.
Questa proposta di legge, onorevoli colleghe e colleghi, non propone di modificare la disciplina giuridica del matrimonio così come attualmente regolata nella legislazione italiana o la concezione tradizionalmente intesa dell’istituto matrimoniale. Essa neppure intende influire in alcun modo sulla condizione giuridica dei figli o sulla disciplina delle adozioni dei minori.
Lo scopo dell’introduzione dell’istituto dell’unione civile è solo quello di porre i cittadini dello stesso sesso stabilmente conviventi nella condizione di scegliere quale assetto conferire ai propri rapporti giuridici e patrimoniali, come accade per tutti gli altri cittadini. Si tratta cioè di affermare in questo campo un elementare principio di uguaglianza giuridica e la «pari dignità sociale» dei cittadini, secondo il dettato dell’articolo 3, primo comma, della Costituzione.
È evidente l’iniquità della situazione legislativa italiana che, negando ogni tutela alle convivenze tra persone dello stesso sesso, porta a negare perfino al convivente di decenni il diritto di assistere il proprio partner morente in ospedale (non è raro che le famiglie di origine addirittura impediscano al partner l’accesso al luogo di cura e lo escludano da ogni decisione riguardante il partner malato e incapace di agire); che non garantisce al (solo) convivente omosessuale il diritto di subentrare nell’affitto della casa comune in caso di morte o di sopravvenuta incapacità del partner, facendolo finire così, letteralmente, per strada, anche dopo decenni di convivenza; che esclude la reversibilità della pensione del partner omosessuale defunto e che non prevede la possibilità di succedergli in qualità di erede legittimo, in mancanza di testamento; che stabilisce che la parte di patrimonio lasciata in eredità al partner omosessuale con testamento sia falcidiata dalla stessa tassazione prevista per i lasciti a persone del tutto estranee al defunto; che solo in poche regioni prevede che le coppie dello stesso sesso possano avere diritto alla casa popolare, se in possesso dei requisiti di legge, in modo da evitare, tra l’altro, la necessità della separazione forzata di partner anziani, conviventi da decenni, e del loro ricovero più o meno coatto in case di riposo; che, più in generale, nega ogni pur minima forma di tutela al partner economicamente più debole in caso di scioglimento di convivenze anche pluridecennali.
Oltre a questo vi è soprattutto l’ineludibile dovere di riconoscere finalmente anche in Italia ai cittadini omosessuali eguaglianza formale e sostanziale e pari dignità sociale, adeguando la legislazione sui diritti umani nel nostro Paese all’evoluzione della coscienza giuridica europea contemporanea, a quell’«incivilimento dei costumi» di cui la popolazione omosessuale comincia, solo da qualche decennio e solo in Occidente, a godere i benefìci.
Non vi sono ostacoli di natura costituzionale all’approvazione della presente proposta di legge; casomai, il perdurare della mancanza di una legge che riconosca pari dignità alle coppie omosessuali, è una discriminazione irragionevole ai sensi del disposto dell’articolo 3, primo comma, della Costituzione.
Costituisce un’irragionevole e immotivata discriminazione il negare alle coppie omosessuali la possibilità di scegliere una disciplina dei loro rapporti giuridici e patrimoniali che risulti identica a quella che regola, nel matrimonio, i rapporti tra i coniugi, visto che da tale disciplina sono escluse – come lo sono nella presente proposta di legge – le norme sulla filiazione, e che l’istituto che prevede la possibilità di adottare una tale disciplina non modifica ne’ la definizione ne’ l’attuale normativa relativa al matrimonio tradizionale.
Infatti, l’introduzione di un nuovo istituto basato su una tale disciplina, proprio perché riservato alle sole coppie dello stesso sesso, non influisce comunque sulla natura del matrimonio (la cui disciplina complessiva e il nomen juris non si propone vengano estesi al nuovo istituto), il quale continua a essere regolato per intero dalla vigente normativa che non si propone venga modificata in nessuna sua parte. Se non, ovviamente, per esplicitare, come fa l’articolo 1, comma 3, della presente proposta di legge, la reciproca incompatibilità tra vincolo matrimoniale e vincolo costituito dall’unione civile: disposizione che, comunque, non modifica la concezione tradizionale del matrimonio eterosessuale.
Proprio per tali motivi, l’introduzione dell’unione civile non interferirebbe in alcun modo con il disposto dell’articolo 29, primo comma, della Costituzione, quale che sia l’interpretazione che si intenda darne: i «diritti della famiglia» fondata sul matrimonio non sarebbero infatti compromessi né modificati né limitati né intaccati in misura alcuna dall’esistenza delle unioni civili. Andrebbe invece a colmare una lacuna del nostro ordinamento in merito alla disciplina di tali rapporti affettivi.
L’introduzione di una normativa che assicuri eguale trattamento giuridico alle coppie stabili dello stesso sesso che desiderino farlo proprio appare doverosa, sotto il profilo costituzionale, specialmente alla luce di quella parte dell’articolo 3, primo comma, della Costituzione, che espressamente vieta discriminazioni fondate su «condizioni personali» dei cittadini: neppure un espresso divieto costituzionale di discriminare le persone omosessuali potrebbe ritenersi più esaustivo e definitivo di una tale disposizione, dato che l’omosessualità è oggi riconosciuta dalle scienze psicologiche e comportamentali, oltre che dall’Organizzazione mondiale della sanità, precisamente come una «condizione personale», propria dell’individuo e della sua intrinseca identità, condizione in nessun modo patologica ma, appunto, «condizione», cioè identità ascritta, non oggetto di scelta da parte dell’interessato, quanto lo sono la sua identità fisica o quella razziale.
Sulla base di tale sia pur tardivo riconoscimento, non stupisce che la cultura giuridica europea abbia da più di un decennio decisamente adeguato i propri orientamenti. L’articolo 13 del Trattato istitutivo della Comunità europea, come modificato dal Trattato di Amsterdam, di cui alla legge n. 209 del 1998, che detta disposizioni sulla produzione di normative antidiscriminatorie comunitarie, pone esplicitamente sullo stesso piano le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale e quelle fondate su «sesso, razza, origine etnica, religione, opinioni, handicap fisici o età».
Un esplicito divieto di discriminazioni fondate, tra l’altro, sull’orientamento sessuale è stato poi ricompreso nell’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, approvata dal Parlamento europeo il 14 novembre 2000. L’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha poi approvato con la maggioranza del 77 per cento, una raccomandazione in cui si definisce la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale «una delle forme più odiose di discriminazione» (raccomandazione n. 1474 del 26 settembre 2000).
Altrettanto costituzionalmente doverosa l’introduzione di una tale normativa dovrebbe riconoscersi sulla base del secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, dato che non vi è dubbio che l’attuale disparità di trattamento, ultimo riflesso e portato giuridico di secoli di discriminazioni e persecuzioni, sommandosi all’ancora persistente ostilità di alcune fasce sociali, e anzi rafforzandola e in qualche modo fornendole giustificazioni, costituisca essa stessa un «ostacolo di ordine sociale» posto ai danni dei componenti di una minoranza: un ostacolo che, «limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini», può ben costituire impedimento al «pieno sviluppo della persona umana»; un ostacolo la cui rimozione sarebbe quindi suscettibile di tradursi, come in effetti è accaduto nell’ultimo decennio nei Paesi scandinavi, in un segnale e in uno stimolo da parte dello Stato in favore di una più compiuta accettazione sociale della presenza e della «pari dignità» degli omosessuali nella società.
Di più, sembra molto difficile negare che le coppie omosessuali stabili costituiscano «formazioni sociali ove si svolge la personalità» dei loro componenti, secondo la definizione dell’articolo 2 della Costituzione. Ed è opinione autorevole e ampiamente diffusa che lo stesso articolo 29, primo comma, vada coordinato con l’articolo 2 per ricavarne un concetto sociologicamente determinato e storicamente mutevole di che cosa costituisca «famiglia» ai sensi della vigente Costituzione: sicché all’espressione «società naturale» va riconosciuto un valore puramente recettizio. Questa tesi non nasce con lo scopo strumentale di fornire oggi una legittimazione costituzionale al riconoscimento delle unioni omosessuali, ma era già stata sostenuta in epoca non sospetta: per esempio, già nel capitolo del Commentario della Costituzione diretto da Giuseppe Branca dedicato all’articolo 29, redatto nel 1976 da Mario Bessone.
L’introduzione dell’unione civile nell’ordinamento italiano, dunque, non solo non e’ in contrasto con la Costituzione – consentendo al contrario una piena attuazione del principio di non discriminazione- ma verrebbe inoltre a configurarsi come un’applicazione parziale delle indicazioni contenute nella risoluzione approvata fin dall’8 febbraio 1994 dal Parlamento europeo sulla «parità dei diritti per le persone omosessuali», e più volte ribadita successivamente nei suoi princìpi (si veda la risoluzione «Sulla parità di diritti per gli omosessuali nell’Unione europea», approvata dal Parlamento europeo il 17 settembre 1998; analoga la citata raccomandazione n. 1474, approvata dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa il 26 settembre 2000). Applicazione parziale, dato che tale risoluzione, dopo aver auspicato che vengano rimossi «gli ostacoli al matrimonio di coppie omosessuali ovvero “che venga introdotto” un istituto giuridico equivalente, garantendo pienamente diritti e vantaggi del matrimonio», indica quale obiettivo da raggiungere anche quello di «porre fine a qualsiasi limitazione del diritto degli omosessuali (…) di adottare o avere in affidamento dei bambini». Con l’articolo 3 della presente proposta di legge si è invece ritenuto di optare per un criterio gradualistico, e di seguire in questo l’esperienza dei Paesi che già hanno introdotto istituti analoghi a quello qui proposto, limitando l’introduzione del principio di parità di trattamento a quei rapporti che non incidano in modo immediato e diretto sulla sfera giuridica dei figli, e tanto più dei minori in stato di adottabilità, stanti i più complessi risvolti etico-politici ed emozionali che tale materia non può non implicare.
Tale materia potrà essere affrontata da altri eventuali futuri provvedimenti di riforma, o eventualmente diversamente riformulata e impostata nel caso di un orientamento che dovesse manifestarsi in sede parlamentare in favore dell’integrale applicazione della citata risoluzione europea del 1994.
Essendo la disciplina dei rapporti tra i coniugi improntata ormai nell’ordinamento italiano al principio della piena parità, senza distinzioni tra la posizione del marito e quella della moglie, si è ritenuto sufficiente operare, con l’articolo 1 della proposta di legge, un rinvio mobile alle norme che regolano tale materia, espressamente esteso anche alle eventuali modificazioni legislative che dovessero intervenire in futuro, proprio in omaggio all’obiettivo che si è indicato di regolare la disciplina delle unioni civili sulla base dell’eguaglianza con quanto disposto, limitatamente ai rapporti tra i coniugi, nel matrimonio. Trattandosi tuttavia di una proposta di legge ordinaria, è evidente che il rinvio mobile qui predisposto alle norme future opererà comunque nei limiti che saranno stabiliti dal futuro legislatore ordinario, il quale, nel caso non intendesse estendere alla disciplina delle unioni civili determinate modifiche da apportare alla disciplina dei rapporti tra i coniugi nel matrimonio, avrà solo l’onere di dichiararlo (salva ovviamente la ragionevolezza della disparità di trattamento ai sensi dell’articolo 3, primo comma, della Costituzione). L’espresso riferimento alle norme future potrebbe a rigore ritenersi superfluo, ma lo si è voluto specificare per fugare ogni dubbio e per rendere ancora più chiare la natura mobile del rinvio e la volontà di uniformare per intero la disciplina dell’unione civile alle norme che regolano i rapporti tra i coniugi nel matrimonio. Tra l’altro, l’ampio ricorso qui proposto alla tecnica legislativa del rinvio esclude la possibilità che gli interpreti possano utilizzare la regola «inclusio unius, exclusio alterius», come potrebbe accadere in presenza di una disciplina legislativa dei rapporti tra le parti dell’unione civile che risultasse meno minuziosa di quella prevista per i rapporti tra i coniugi nel matrimonio, ancorché ad essa analoga e completata da una disposizione di rinvio meno comprensiva.
Unica necessaria eccezione alla tecnica legislativa del rinvio è sembrato di dover individuare in materia di uso dei cognomi, dato che la legge vigente tratta sotto questo profilo la condizione della moglie in modo diverso da quella del marito. L’articolo 2 della presente proposta di legge risolve la questione conferendo ai contraenti piena libertà di scelta in materia. Va rilevato che questa soluzione è la stessa implicitamente accolta dalla legge danese sulla «partnership registrata», dato che la legge matrimoniale danese oggetto di rinvio affida la scelta del cognome familiare alla comune determinazione dei coniugi.
L’articolo 3 stabilisce che l’unione civile non influisce in alcun modo sulla condizione giuridica dei figli, restando estranea all’unione la disciplina delle adozioni dei minori.
Con l’articolo 4 si ribadisce il principio dell’equiparazione tra condizione dei coniugi e condizione delle parti dell’unione civile, anche in relazione alle disposizioni contenute nei contratti collettivi di lavoro.
L’articolo 5, seguendo in questo alla lettera il modello dell’originaria legge danese e di altre leggi successive, stabilisce che le disposizioni dei trattati internazionali relative al matrimonio non si applichino alle unioni civili senza il consenso dell’altro Stato contraente. Con questa formulazione non si intende solo chiarire che, com’è ovvio, i trattati internazionali in materia di matrimonio non potranno essere interpretati, per di più in una materia così politicamente delicata, in un modo difforme dalla comune volontà delle parti contraenti, e comunque imprevisto al momento della loro stipulazione, ma anche che, per l’estensione delle loro disposizioni alle unioni civili (e quindi per il mutuo riconoscimento dei nuovi istituti tra gli Stati che li hanno introdotti o che si apprestano a farlo), non sarà necessario ricorrere alla stipulazione di nuovi trattati, ma sarà sufficiente il consenso manifestato dall’altro Stato contraente. E ciò, ancora una volta, in omaggio al principio dell’eguaglianza di trattamento con quanto disposto per i rapporti tra i coniugi nel matrimonio. Tra l’altro, anche l’opportunità di regolare l’unione civile in modo omogeneo a quanto già previsto dai Paesi ad ordinamento affine a quello italiano che già hanno regolato la materia costituisce un’ulteriore ragione in favore di una regolamentazione fondata sul rinvio alla normativa matrimoniale.
PROPOSTA DI LEGGE
Art. 1.
(Nozione di unione civile).
1. Due persone fisiche dello stesso sesso, almeno una delle quali in possesso della cittadinanza italiana o regolarmente residente nel territorio della Repubblica, possono contrarre tra loro un’unione civile.
2. All’unione civile, alla sua celebrazione, al suo scioglimento, ai rapporti tra i contraenti e alle loro vicende, anche in materia di successione, si applicano tutte le disposizioni civili, penali, amministrative, processuali e fiscali relative al matrimonio civile, incluse le eventuali modificazioni successive alla data di entrata in vigore della presente legge, in quanto applicabili e con le sole eccezioni espressamente disposte.
3. Ai sensi della presente legge non rileva la distinzione tra «marito» e «moglie» dovunque essa ricorra nelle disposizioni richiamate al comma 2. Le parole «marito» e «moglie», ovunque ricorrono, sono da intendersi sostituite con quella di «partner».
4. Non può contrarre un’unione civile chi è vincolato da un matrimonio precedente o da una precedente unione civile.
Art. 2.
(Uso dei cognomi).
1. I contraenti mantengono ciascuno il proprio cognome, salvo che, all’atto della celebrazione dell’unione civile, stabiliscano che uno dei due, o entrambi, aggiungano al cognome dell’uno quello dell’altro. In tale caso si osservano, in quanto applicabili, gli articoli 143-bis e 156-bis del codice civile e l’articolo 5, comma 2, della legge 1o dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni.
Art. 3.
(Condizione dei figli).
1. La celebrazione dell’unione civile non ha effetti sullo stato dei figli dei contraenti.
2. Le disposizioni relative alla presunzione di concepimento nel matrimonio e al divieto per la donna di contrarre matrimonio prima che siano passati trecento giorni dallo scioglimento, annullamento o cessazione degli effetti civili del matrimonio precedente non si applicano all’unione civile.
3. Le disposizioni che regolano l’adozione di minori da parte dei coniugi non si applicano alle unioni civili.
Art. 4.
(Contratti collettivi di lavoro).
1. Le disposizioni dei contratti collettivi di lavoro dirette a garantire l’assolvimento dell’obbligo di reciproca assistenza, relative al matrimonio e al coniuge del lavoratore, si applicano anche all’unione civile.
Art. 5.
(Trattati internazionali).
1. Le disposizioni dei trattati internazionali relative al matrimonio non possono essere applicate all’unione civile senza il consenso dell’altro Stato contraente.