Corte costituzionale, sentenza del 22 novembre 2018 n. 212
SENTENZA N. 212
ANNO 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
– Giorgio LATTANZI Presidente
– Aldo CAROSI Giudice
– Marta CARTABIA ”
– Mario Rosario MORELLI ”
– Giancarlo CORAGGIO ”
– Giuliano AMATO ”
– Silvana SCIARRA ”
– Nicolò ZANON ”
– Franco MODUGNO ”
– Augusto Antonio BARBERA ”
– Giulio PROSPERETTI ”
– Giovanni AMOROSO ”
– Francesco VIGANÒ ”
– Luca ANTONINI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3, lettera c), numero 2), e 8 del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76)», promosso dal Tribunale ordinario di Ravenna con ordinanza depositata il 22 novembre 2017, iscritta al n. 32 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Vistol’atto di costituzione di G. Z.G. e G. G., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
uditonella udienza pubblica del 9 ottobre 2018 il Giudice relatore Giuliano Amato;
uditol’avvocato Stefano Chinotti per G. Z.G. e G. G. e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 22 novembre 2017, il Tribunale ordinario di Ravenna ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, lettera c), numero 2), e 8 del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 22, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
1.1.– In particolare, l’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017 inserisce nell’art. 20 del d.P.R.30 maggio 1989, n. 223 (Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente), il comma 3-bis, il quale prevede che «[p]erle parti dell’unione civile le schede devono essere intestate al cognome posseduto prima dell’unione civile».
L’art. 8 dello stesso decreto legislativo dispone che «[…] l’ufficiale dello stato civile, con la procedura di correzione di cui all’articolo 98, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, annulla l’annotazione relativa alla scelta del cognome effettuata a norma dell’articolo 4, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144».
1.2.– Ad avviso del giudice a quo, entrambe le disposizioni censurate violerebbero, in primo luogo, l’art. 2 Cost., poiché la parte dell’unione civile verrebbe privata, d’ufficio e senza contraddittorio, del cognome comune legittimamente acquisito e utilizzato, così determinando la lesione dei diritti al nome, all’identità e alla dignità personale.
Sarebbe violato anche il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., non essendo rinvenibile alcuna giustificazione del potere statale d’intervenire d’imperio, con la procedura senza contraddittorio prevista per la correzione di errori materiali, al fine di mutare l’identità personale di un soggetto.
Inoltre, le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto con l’art. 22 Cost., poiché, con l’eliminazione della valenza anagrafica del cognome comune, la parte dell’unione civile verrebbe privata di un cognome già acquisito.
Esse sarebbero altresì in contrasto con l’art. 76 Cost., poiché il legislatore delegante non avrebbe conferito alcun potere di revoca o annullamento delle iscrizioni e annotazioni già effettuate.
Infine, è denunciata la violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., poiché sarebbe pregiudicato il diritto al nome e al rispetto della vita privata e familiare, garantito dall’art. 8 della CEDU e dagli artt. 1 e 7 della CDFUE.
2.– Il Tribunale ordinario di Ravenna è chiamato a decidere in ordine al ricorso proposto da due persone unite civilmente al fine di ottenere, ai sensi dell’art. 98 del d.P.R.3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), l’annullamento della variazione delle generalità anagrafiche di una di esse, eseguite in applicazione delle disposizioni censurate.
Il giudice a quo riferisce che, al momento della costituzione dell’unione civile, in base all’art. 1, comma 10, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), i ricorrenti hanno scelto quale cognome comune quello di uno di essi, mentre l’altro ha dichiarato di voler aggiungere al proprio il cognome comune. A seguito di tale scelta, è stata modificata la sua scheda anagrafica e sono state conseguentemente rinnovate la carta d’identità, la tessera sanitaria e altri documenti personali.
Il giudice rimettente riferisce che, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2017, l’ufficiale d’anagrafe ha provveduto alla variazione delle generalità anagrafiche e all’annullamento dell’annotazione relativa alla scelta del cognome eseguita in base all’art. 4, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144 (Regolamento recante disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile, ai sensi dell’articolo 1, comma 34, della legge 20 maggio 2016, n. 76), nonché dell’annotazione nell’atto di nascita presso i registri dello stato civile, ripristinando il cognome originario.
Ad avviso del giudice a quo, le censurate disposizioni del d.lgs. n. 5 del 2017 avrebbero determinato la sostanziale abrogazione dell’art. l, comma 10, della legge n. 76 del 2016 e ne avrebbero negato l’originario contenuto precettivo, volto a riconoscere il diritto delle parti dell’unione civile di assumere a tutti gli effetti un cognome comune, consentendo ad una di esse di modificare il cognome originario. Da ciò discenderebbe la violazione di diritti fondamentali della persona, tutelati anche a livello sovranazionale, ed in particolare dagli artt. l e 7 della CDFUE, nonché dall’art. 8 della CEDU.
Ad avviso del rimettente, l’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017, nella parte in cui priva la persona di un cognome già acquisito e utilizzato, disponendo retroattivamente la modifica di una situazione anagrafica legittimamente costituita prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto, violerebbe il diritto al nome, all’identità e dignità personale, nonché il diritto al rispetto della vita privata e familiare.
Il giudice a quo fa rilevare che gli artt. 6 e seguenti del codice civile sanciscono il diritto al nome, prevedendo il generale divieto di mutamento dello stesso. Infatti, non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome, se non nei casi e con le formalità previste dall’art. 89 del d.P.R.n. 396 del 2000. Ancorché previsto da una legge ordinaria, sarebbe indubitabile il rilievo costituzionale del diritto al nome (composto da nome e cognome), quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale, tutelato dall’art. 2 Cost., anche nelle formazioni sociali nelle quali si esplica la personalità dell’individuo. Il rimettente osserva che il nome è stato ritenuto meritevole di un’espressa tutela anche da parte dell’art. 22 Cost. che, sia pure per il solo caso in cui ciò avvenga per motivi politici, prevede che «nessuno può essere privato del nome».
Inoltre, la norma delegata si porrebbe in contrasto con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), poiché non sarebbe rinvenibile alcuna giustificazione del potere statale d’intervenire d’imperio e con la procedura senza contraddittorio prevista per la correzione di errori materiali (art. 98 del d.P.R.n. 396 del 2000) al fine di mutare l’identità personale di un soggetto.
Il giudice rimettente sottolinea che, in caso di mutamento di status, l’interessato ha diritto di essere sentito e di opporsi al mutamento del proprio cognome (art. 262 cod. civ.). Al riguardo, si fa rilevare che con sentenza n. 13 del 1994 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 165 del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile), per violazione dell’art. 2 Cost., nella parte in cui non prevedeva che, ove la rettifica degli atti dello stato civile, per ragioni indipendenti dalla volontà del soggetto, comporti il cambiamento del cognome, il soggetto stesso possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli.
Sarebbe, inoltre, ravvisabile la violazione dell’art. 76 Cost., in quanto l’art. 1, comma 28, della legge n. 76 del 2016, nel conferire la potestà legislativa al Governo «fatte salve le disposizioni di cui alla presente legge», non avrebbe previsto alcun potere di revoca o annullamento retroattivo di iscrizioni e annotazioni già effettuate.
È inoltre denunciato il contrasto con l’art. 8 della CEDU che prevede il diritto della persona al rispetto della vita privata e familiare, nell’ambito del quale la Corte europea dei diritti dell’uomo ha individuato la tutela del diritto al nome, quale espressione del diritto all’identità e dignità personale. Le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto anche con i principi affermati dagli artt. 1 e 7 della CDFUE, i quali enunciano il diritto alla dignità umana e al rispetto della vita privata e familiare.
Ritenendo non praticabile un’interpretazione adeguatrice, tale da attribuire alle disposizioni censurate un significato conforme all’art. 8 della CEDU e agli artt. 1 e 7 della CDFUE, il giudice a quo ritiene necessario rimettere a questa Corte la valutazione della loro legittimità in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., alla luce dei principi e degli obblighi comunitari.
3.– Nel giudizio dinanzi alla Corte si sono costituiti con un unico atto G. Z.G. e G. G., parti ricorrenti nel giudizio principale, chiedendo l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale e ribadendo tali conclusioni con successiva memoria.
3.1.– Le parti costituite evidenziano che, privando di valenza anagrafica il cognome comune, relegato ad una funzione meramente simbolica, sarebbero stati svuotati i diritti soggettivi attribuiti alle parti delle unioni civili dall’art. 1, comma 10, della legge n. 76 del 2016. Sarebbe lesa l’identità personale della parte il cui cognome sia diverso da quello scelto quale cognome comune. Infatti, la cancellazione prevista dall’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017 ridefinisce l’identità personale secondo lo status quo ante.
Ciò determinerebbe la violazione del diritto di una delle parti dell’unione civile (quella che abbia assunto il cognome comune in luogo del proprio o in aggiunta al proprio) di trasmettere alla prole il proprio cognome, come modificato a seguito della scelta consentita dal citato comma 10. Si osserva inoltre che, ove una delle parti di unioni civili già costituite abbia generato figli, ai quali sia stato assegnato ex legeil cognome del proprio genitore, modificato per effetto delle disposizioni dettate dal d.P.C.m. n. 144 del 2016, sarebbe lesa anche l’identità personale dei figli, in quanto ne sarebbe trasformato il presupposto costituito dal nome.
L’eliminazione retroattiva delle annotazioni e degli aggiornamenti anagrafici già eseguiti determinerebbe il sacrificio di diritti soggettivi tutelati anche a livello sovranazionale. Al riguardo, sono richiamate alcune pronunce della Corte di Strasburgo che hanno ricondotto il diritto al nome nell’ambito dell’art. 8 della CEDU (sentenze 21 ottobre 2008, GuzelErdagozcontro Turchia; 1° luglio 2008, Daróczycontro Ungheria; 6 settembre 2007, Johansson contro Finlandia; 16 novembre 2004, UnalTekelicontro Turchia; 22 febbraio 1994, Burghartzcontro Svizzera).
Le parti costituite deducono che, ai sensi dell’art. 52, comma 3, della CDFUE, in caso di corrispondenza tra i diritti riconosciuti dalla Carta di Nizza e quelli garantiti dalla CEDU, il significato e la portata dei primi sono identici a quelli conferiti dalla Convenzione. Pertanto, ad avviso delle parti costituite, tutti i diritti previsti dalla CEDU che trovino corrispondenza nella CDFUE debbono ritenersi tutelati con la medesima forza di quelli sanciti nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Ciò sarebbe confermato anche dall’art. 53 della CDFUE, il quale sancisce il divieto di interpretarne le disposizioni in senso limitativo dei diritti riconosciuti dalla CEDU.
Sono, quindi, richiamate alcune pronunce di giudici di merito che hanno ritenuto le disposizioni in esame incompatibili con la tutela sovranazionale dei diritti fondamentali della persona e hanno provveduto alla loro disapplicazione.
3.2.– Ciò premesso, le parti costituite illustrano le ragioni a sostegno dell’illegittimità costituzionale delle censurate disposizioni del d.lgs. n. 5 del 2017.
3.2.1.– Si evidenzia che l’istituto dell’unione civile, pur essendo modellato sulla disciplina del matrimonio, se ne discosterebbe sotto molteplici profili. Sarebbe infatti differente la disciplina relativa alla filiazione, all’adozione e agli obblighi derivanti dal vincolo. Particolarmente innovativa sarebbe poi la disciplina relativa al cognome comune.
Ad avviso delle parti costituite, l’art. 4, comma 2, del d.P.C.m. n. 144 del 2016, esplicitando il contenuto di queste novità legislative, avrebbe dettato la disciplina delle conseguenze anagrafiche della scelta operata dalle parti unite civilmente, in quanto costitutiva della loro nuova identità personale.
La scelta del cognome comune rappresenterebbe l’esercizio di un diritto soggettivo, previsto dalla legge n. 76 del 2016. In quanto espressione di un diritto fondamentale, incidente sulla stessa identità personale, oltre che sulla vita familiare, esso sarebbe incoercibile e non potrebbe essere negato dall’ufficiale dello stato civile, se non per ragioni espressamente ammesse dalla legge.
Viceversa, il d.lgs. n. 5 del 2017 ed il successivo decreto del Ministro dell’interno 27 febbraio 2017, nell’omologare la disciplina del cognome comune dell’unione civile a quella prevista dall’art. 143-bis cod. civ. per il cognome coniugale avrebbe stravolto il significato normativo dell’art. 1, comma 10, della legge n. 76 del 2016, condiviso dallo stesso Governo nel d.P.C.m. n. 144 del 2016.
A conferma di tale interpretazione, si osserva che se la legge n. 76 del 2016 avesse voluto consentire a una delle parti dell’unione civile il mero utilizzo del cognome dell’altra, senza alcuna incidenza anagrafica, non ci sarebbe stata ragione di prevedere l’ulteriore diritto di manifestare, con un’apposita dichiarazione, la volontà di mantenere anche il proprio cognome anagrafico. Il citato comma 10 dispone, infatti, che la parte può mantenere anche il proprio cognome, anteponendolo o posponendolo a quello acquisito. Ad avviso delle parti costituite, ciò sarebbe indicativo del fatto che, in caso contrario, la parte perde il cognome originario e assume solo quello comune.
3.2.2.– Ad avviso delle parti, il d.lgs. n. 5 del 2017, anziché costituire attuazione dell’art. l, comma 10, della legge n. 76 del 2016, introdurrebbe una disciplina contrastante con esso, in violazione dell’art. 76 Cost.
Il comma 28 dell’art. 1 della legge n. 76 del 2016, infatti, conferisce la delega facendo «salve le disposizioni di cui alla presente legge». Viceversa, le norme censurate, lungi dal far salvo il comma 10, ne determinerebbero lo svuotamento e la sostanziale abrogazione. Esse impedirebbero a questa disposizione di esprimere tutti i suoi precetti normativi e determinerebbero la lesione di diritti soggettivi riconosciuti sia alle parti unite civilmente nella vigenza del d.P.C.m. n. 144 del 2016, sia a quelle che intendano, in futuro, unirsi civilmente.
La disciplina del d.lgs. n. 5 del 2017 non sarebbe, quindi, coerente con il limite posto dalla delega, né potrebbe ritenersi espressiva di adeguamento e riassetto legislativo.
3.3.– Le disposizioni censurate si porrebbero, inoltre, in contrasto con gli artt. 2, 3, 11, 22 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in riferimento agli artt. 1 e 7 della CDFUE e all’art. 8 della CEDU.
Invero, la cancellazione retroattiva del «cognome comune» già assunto da una delle parti dell’unione civile, lederebbe la dignità della persona e il suo diritto inviolabile al nome e alla identità, protetto dall’art. 2 Cost., nonché il diritto al rispetto alla vita privata e familiare. Si fa rilevare che la Corte di Strasburgo ha garantito il diritto fondamentale alla vita familiare alle coppie omosessuali (sentenza 24 giugno 2010, Schalke Kopfcontro Austria) e che la giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto il diritto fondamentale delle stesse coppie ad essere riconosciute e tutelate ai sensi dell’art. 2 Cost. (sentenza n. 138 del 2010).
Con l’attribuzione della valenza anagrafica del cognome comune, la legge n. 76 del 2016 avrebbe inteso conferire all’unione civile visibilità sociale e caratterizzazione anche sotto il profilo familiare. La modifica del cognome, disposta dalle disposizioni censurate, frustrerebbe questa manifestazione della vita familiare, in violazione dell’art. 2 Cost. e dell’art. 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in riferimento agli artt. l e 7 della CDFUE e all’art. 8 della CEDU. Né sussisterebbe alcuna delle ragioni, previste dallo stesso art. 8 della CEDU, che possa giustificare tale ingerenza del legislatore.
3.4.– In particolare, con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 76 Cost., le parti fanno rilevare che l’art. 1, comma 28, della legge n. 76 del 2016 esprimerebbe un principio di intangibilità, da parte del legislatore delegato, delle disposizioni contenute nella legge delega. Tale principio sarebbe violato dal legislatore delegato attraverso l’adozione di disposizioni abrogative, che avrebbero l’effetto di stravolgere l’assetto normativo delineato dal legislatore delegante, facendo degradare il cognome comune dell’unione civile da cognome anagrafico a mero cognome d’uso.
Ad avviso delle parti, l’esclusione della valenza anagrafica del cognome comune non costituirebbe affatto un’opzione interpretativa di uno tra i diversi significati possibili della disposizione, ma sarebbe una soluzione contra legem: in tal modo, si finirebbe per attribuire all’art. 1, comma 10, della legge n. 76 del 2016 un’accezione priva di senso, in luogo dell’unico significato possibile dotato di senso (in particolare circa la natura anagrafica del cognome). In quanto frutto di un ripensamento del legislatore delegato, le disposizioni correttive introdotte dal d.lgs. n. 5 del 2017 sarebbero illegittime.
3.5.– D’altra parte, l’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017, nel prevedere la modificazione retroattiva delle risultanze anagrafiche, sarebbe lesivo anche del diritto al nome e alla sua conservazione (art. 22 Cost.), quale prima e più immediata manifestazione del diritto all’identità personale e del diritto alla dignità personale (art. 2 Cost. e art. 1 della CDFUE).
Infatti, le coppie unite civilmente, che abbiano assunto un cognome comune nell’intervallo di tempo intercorrente tra l’entrata in vigore della legge n. 76 del 2016 e l’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2017, sarebbero titolari di un diritto fondamentale alla conservazione di tale cognome, ormai divenuto elemento costitutivo della loro identità personale. Pertanto, sarebbe illegittima la disposizione in esame che, con efficacia retroattiva, incide sul cognome legittimamente assunto.
Inoltre, l’indicazione della procedura di correzione di cui all’art. 98, comma 1, del d.P.R.n. 396 del 2000 sarebbe impropria ed incongrua. Le parti costituite ritengono, infatti, che l’annotazione della scelta del cognome, già effettuata in base al d.P.C.m. n. 144 del 2016, non costituisca un errore materiale, ma sia invece un adempimento amministrativo effettuato dall’ufficiale di stato civile nell’esecuzione di puntuali istruzioni legislative e regolamentari. L’annullamento delle annotazioni rappresenterebbe un tentativo surrettizio di dissimulare una rettificazione anagrafica imposta d’ufficio e in assenza di contraddittorio. Ciò determinerebbe il sacrificio dei diritti fondamentali delle coppie unite civilmente che abbiano esercitato il diritto di scelta del cognome comune.
4.– Nel giudizio innanzi alla Corte, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque non fondate.
4.1.– L’interveniente ha eccepito, in primo luogo, l’inammissibilità delle questioni per l’incompleta ricostruzione del quadro normativo. Il rimettente avrebbe omesso di considerare la disciplina delle schede anagrafiche individuali, di cui all’art. 20 del d.P.R.n. 223 del 1989, e dell’annotazione negli archivi dello stato civile di cui all’art. 63 del d.P.R.n. 396 del 2000.
Si fa rilevare che con il matrimonio la moglie acquista il diritto di aggiungere il cognome del marito al proprio (art. 143-bis cod. civ.); da ciò non deriva alcuna modifica anagrafica del cognome della moglie, ma solo il diritto di usare il cognome del marito, aggiungendolo al proprio. La relativa scheda anagrafica non subisce modificazioni e continua a riportare il cognome da nubile.
Per le unioni civili, la legge n. 76 del 2016, all’art. l, comma 10, consente alle parti di scegliere un cognome comune. Nel prevedere che le schede anagrafiche siano intestate al cognome posseduto prima dell’unione civile, l’art. 3 del d.lgs. n. 5 del 2017 sarebbe coerente con le disposizioni in materia di matrimonio.
Inoltre, sempre nell’intento di regolare in modo uniforme unioni civili e matrimoni, il legislatore delegato ha modificato l’art. 63 del d.P.R.n. 396 del 2000, prevedendo l’iscrizione negli archivi dello stato civile della dichiarazione di voler assumere un cognome comune e di anteporlo o posporlo al proprio.
4.2.– D’altra parte, non sarebbero fondate le questioni sollevate in riferimento agli artt. 2, 22 e 117, primo comma, Cost., con riguardo al parametro interposto dell’art. 8 della CEDU.
Al momento della costituzione dell’unione civile le parti possono scegliere il cognome, rendendo esplicita dichiarazione in tal senso. Secondo quanto stabilito dal novellato art. 20 del d.P.R.n. 223 del 1989, tali dichiarazioni non devono essere annotate nell’atto di nascita, né deve procedersi all’aggiornamento della scheda anagrafica.
4.3.– Ciò posto, si fa rilevare che, nel disporre l’annullamento dell’annotazione del cognome effettuata in vigenza del d.P.C.m. n. 144 del 2016, il censurato art. 8 avrebbe la funzione di norma di coordinamento.
Ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, questa disposizione non inciderebbe su diritti fondamentali della persona e non comporterebbe un cambio di identità. Quest’ultima ha radice nel cognome proprio di ogni soggetto, il quale è immutabile e identifica la persona. Oggetto di modifica sarebbe l’annotazione dello status, per sua natura transitorio, di componente dell’unione civile. Esso sarebbe identificativo non già dell’identità dell’individuo, ma della creazione di un nucleo familiare. Da queste considerazioni deriverebbe la non fondatezza delle questioni, in riferimento agli artt. 2, 22 e 117 Cost., in relazione al parametro interposto dell’art. 8 della CEDU.
Quanto alla denunciata violazione dell’art. 3 Cost., l’Avvocatura dello Stato eccepisce l’inammissibilità della censura per errata ed insufficiente descrizione della fattispecie. Nel merito, essa sarebbe comunque manifestamente infondata, poiché non vi sarebbe una modifica dell’identità personale, né d’altra parte sussisterebbe un obbligo di contraddittorio. Si evidenzia, a questo riguardo, che l’art. 98, comma 3, del d.P.R.n. 396 del 2000 consente al procuratore della Repubblica e a chiunque vi abbia interesse di proporre opposizione, con ciò garantendo il diritto di difesa.
4.4.– In riferimento al denunciato eccesso di delega, l’Avvocatura dello Stato eccepisce l’inammissibilità della censura perché generica e non adeguatamente motivata.
Nel merito, la questione sollevata in riferimento all’art. 76 Cost. non sarebbe fondata. La disposizione di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017 sarebbe perfettamente coerente con la legge delega. Essa dovrebbe essere esaminata congiuntamente all’art. 1, lettera m), numero 1), del medesimo d.lgs. n. 5 del 2017. Nel modificare l’art. 63 del d.P.R.n. 396 del 2000, tale disposizione prevede, alla lettera g-sexies), l’iscrizione della dichiarazione relativa alla scelta del cognome comune e alla sua posizione.
Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, nel prevedere il mantenimento del cognome originario sulla scheda anagrafica, nonché nel disporre la cancellazione delle annotazioni difformi effettuate nelle more dell’adozione della disciplina definitiva, il legislatore delegato non avrebbe violato alcuno dei criteri della delega, essendo autorizzato ad adottare le disposizioni necessarie per l’adeguamento alla nuova normativa delle «disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni ed annotazioni» (art. l, comma 28, della legge n. 76 del 2016).
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Ravenna ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, lettera c), numero 2), e 8 del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 22, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
1.1.– In particolare, la prima delle due disposizioni censurate inserisce, nell’art. 20 del d.P.R.30 maggio 1989, n. 223 (Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente), il comma 3-bis, il quale prevede che «[p]er le parti dell’unione civile le schede devono essere intestate al cognome posseduto prima dell’unione civile».
La disposizione dell’art. 8 prevede, d’altra parte, che «[…] l’ufficiale dello stato civile, con la procedura di correzione di cui all’articolo 98, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, annulla l’annotazione relativa alla scelta del cognome effettuata a norma dell’articolo 4, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144».
1.2.– Ad avviso del giudice a quo, entrambe le disposizioni sopra richiamate violerebbero, in primo luogo, l’art. 2 Cost., poiché la parte dell’unione civile verrebbe privata, d’ufficio e senza contraddittorio, del cognome comune legittimamente acquisito e utilizzato, così determinando la lesione dei diritti al nome, all’identità e alla dignità personale.
Sarebbe violato anche il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., non essendo rinvenibile alcuna giustificazione del potere statale d’intervenire d’imperio, con la procedura senza contraddittorio prevista per la correzione di errori materiali, al fine di modificare l’identità personale di un soggetto.
Inoltre, le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto con l’art. 22 Cost., poiché, con l’eliminazione della valenza anagrafica del cognome comune, la parte dell’unione civile verrebbe privata di un cognome già acquisito.
Esse sarebbero altresì in contrasto con l’art. 76 Cost., poiché il legislatore delegante non avrebbe conferito alcun potere di revoca o annullamento delle iscrizioni e annotazioni già effettuate.
Infine, è denunciata la violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., poiché sarebbe pregiudicato il diritto al nome e al rispetto della vita privata e familiare, garantito dall’art. 8 della CEDU e dagli artt. 1 e 7 della CDFUE.
2.– In via preliminare, vanno esaminate le eccezioni di inammissibilità delle questioni, formulate dall’Avvocatura generale dello Stato.
2.1.– Ad avviso di quest’ultima, il rimettente avrebbe omesso di considerare la disciplina delle schede anagrafiche individuali, di cui all’art. 20 del d.P.R.n. 223 del 1989, e dell’iscrizione negli archivi dello stato civile, di cui all’art. 63 del d.P.R.3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127). La considerazione di tali disposizioni avrebbe consentito di individuare la ratio dell’intervento legislativo in esame nell’esigenza di uniformare la disciplina del cognome delle unioni civili a quella del cognome coniugale.
Tuttavia, è proprio su tale volontà di assimilare la disciplina dei due istituti che il giudice a quo, sulla scorta di argomenti illustrati anche dalle parti costituite, appunta le proprie censure in ordine alle innovazioni introdotte dal d.lgs. n. 5 del 2017. Nella prospettazione del rimettente, l’omologazione della disciplina del cognome comune a quella del cognome coniugale avrebbe svuotato di significato una previsione innovativa e caratterizzante il riconoscimento giuridico e sociale delle unioni civili.
2.2.– L’Avvocatura dello Stato ha, inoltre, eccepito l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza, in considerazione della carente descrizione della fattispecie.
Dall’ordinanza di rimessione risulta che nel giudizio a quo le parti ricorrenti hanno chiesto l’annullamento della variazione delle registrazioni anagrafiche, nonché dell’annotazione nell’atto di nascita di una delle parti, conservato presso i registri dello stato civile. Il giudice a quo ha evidenziato che tali variazioni sono state eseguite in applicazione delle disposizioni censurate. Egli ritiene quindi che la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale discenda dalla natura stessa degli atti impugnati, in quanto meramente applicativi della disciplina censurata.
L’esposizione della vicenda concreta, se pur sintetica, è comunque sufficiente a soddisfare l’onere di motivazione sulla rilevanza, essendo stata adeguatamente rappresentata una situazione in cui le doglianze dei ricorrenti non potrebbero altrimenti essere accolte che a seguito dell’eventuale accoglimento della questione di legittimità proposta nei confronti della disposizione di legge di cui i provvedimenti impugnati sono applicazione (sentenze n. 16 del 2017, n. 151 del 2009, n. 303 del 2007 e n. 4 del 2000).
2.3.– Non è, infine, fondata l’eccezione di inammissibilità della censura relativa all’eccesso di delega, perché generica e non adeguatamente motivata.
Con motivazione sintetica, ma non implausibile, il giudice a quo deduce la violazione dell’art. 76 Cost., in quanto l’art. 1, comma 28, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), nel delegare la potestà legislativa al Governo «[f]atte salve le disposizioni di cui alla presente legge», non avrebbe previsto alcun potere di revoca o annullamento retroattivo di iscrizioni e annotazioni già effettuate.
I termini della questione sono stati dunque enucleati con un’argomentazione adeguata, che supera il vaglio preliminare di ammissibilità richiesto a questa Corte, giacché «[a]ttieneal merito – e non al profilo preliminare dell’ammissibilità – la valutazione della forza persuasiva degli argomenti addotti a sostegno delle censure» (sentenza n. 259 del 2017).
3.– Va d’altra parte dichiarata l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento all’art. 22 Cost.
Il rimettente si limita ad osservare che il nome costituisce elemento distintivo della personalità al punto da meritare un’espressa tutela da parte dell’art. 22 Cost., ma omette qualsiasi argomentazione a sostegno del denunciato contrasto tra le disposizioni censurate e il parametro evocato, il quale esclude la privazione del nome per motivi politici. Inoltre, nessun argomento è svolto circa la natura politica della lamentata privazione.
Tale difetto motivazionale comporta l’inammissibilità della questione. Per costante giurisprudenza di questa Corte, non basta l’indicazione delle norme da raffrontare per valutare la compatibilità dell’una rispetto al contenuto precettivo dell’altra, ma è necessario motivare il giudizio negativo in tal senso e, se del caso, illustrare i passaggi interpretativi operati al fine di enucleare i rispettivi contenuti di normazione (ex multis, sentenze n. 240 e n. 35 del 2017, n. 120 del 2015, n. 236 del 2011; ordinanze n. 26 del 2012, n. 321 del 2010 e n. 181 del 2009).
4.– Nel merito, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017 non sono fondate.
4.1.– Con la disposizione censurata il legislatore delegato ha escluso la valenza anagrafica del cognome comune scelto dalle parti dell’unione civile. Ferma restando la facoltà di scegliere ed utilizzare tale cognome comune per la durata della unione, viene espressamente esclusa la necessità di modificare la scheda anagrafica individuale, la quale resta, pertanto, intestata alla stessa parte con il cognome posseduto prima della costituzione dell’unione.
È questa la scelta del legislatore delegato che è stata censurata dal giudice rimettente, assumendo che essa contrasti, in primo luogo, con i principi posti dalla legge n. 76 del 2016 e, dunque, con l’art. 76 Cost.
4.1.1.– Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «la previsione di cui all’art. 76 Cost. non osta all’emanazione, da parte del legislatore delegato, di norme che rappresentino un coerente sviluppo e un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del primo sia limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni stabilite dal secondo. Il sindacato costituzionale sulla delega legislativa deve, così, svolgersi attraverso un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli, riguardanti, da un lato, le disposizioni che determinano l’oggetto, i princìpi e i criteri direttivi indicati dalla legge di delegazione e, dall’altro, le disposizioni stabilite dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i princìpi e i criteri direttivi della delega. Il che, se porta a ritenere del tutto fisiologica quell’attività normativa di completamento e sviluppo delle scelte del delegante, circoscrive, d’altra parte, il vizio in discorso ai casi di dilatazione dell’oggetto indicato dalla legge di delega, fino all’estremo di ricomprendere in esso materie che ne erano escluse» (sentenza n. 194 del 2015; sentenze n. 229, n. 182 e n. 50 del 2014).
4.1.2.– Ciò premesso, va in primo luogo rilevato che oggetto della delega in esame era «[l’] adeguamento […] delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni» alle previsioni della stessa legge sulle unioni civili, con salvezza delle disposizioni da essa direttamente introdotte, e in particolare di quella di cui all’art. 1, comma 10, dedicato alla disciplina del cognome comune delle unioni civili.
Quest’ultima disposizione prevede un sistema di individuazione del cognome comune fondato sull’accordo e ispirato alla libertà di determinazione delle parti dell’unione civile. Ad esse è riconosciuta infatti la facoltà di adottare un cognome unico, scegliendolo tra quello dell’una o dell’altra. Parimenti, esse potrebbero legittimamente decidere di mantenere i rispettivi cognomi, rinunciando a contraddistinguere il vincolo con un cognome comune e condiviso.
Ancorché la disposizione del comma 10 non contenga un’espressa qualificazione degli effetti di tale scelta, essa fornisce tuttavia un’indicazione quanto mai significativa circa la necessità di modifiche anagrafiche, laddove espressamente delimita la durata del cognome comune a quella dell’unione civile. Ai sensi del comma 10 in esame, infatti, la scelta del cognome è operata «per la durata dell’unione». Dallo scioglimento dell’unione civile, anche in caso di morte di una delle parti, discende la perdita automatica del cognome comune.
È stata proprio la considerazione di tale delimitazione temporale che ha guidato la scelta operata dal legislatore delegato. Infatti, nella relazione illustrativa che accompagna lo schema del d.lgs. n. 5 del 2017, si rileva che «una vera e propria variazione anagrafica del cognome della parte dell’unione civile avrebbe effetto solo per la durata dell’unione». Tale rilievo sottintende la contraddittorietà e l’irragionevolezza insite nell’attribuire alla scelta compiuta dalle parti dell’unione civile un effetto, la variazione del cognome anagrafico, che è nell’ordinamento tendenzialmente definitivo e irreversibile, mentre nella specie sarebbe temporaneo e limitato alla durata dell’unione.
Vale la pena di rammentare che l’aggiornamento della scheda anagrafica individuale avrebbe comportato che qualsiasi successiva certificazione anagrafica sarebbe stata rilasciata con il solo cognome modificato, con la conseguente necessità di aggiornare non solo i documenti di identità, ma anche i dati fiscali, lavorativi, sanitari e previdenziali.
L’impostazione fatta propria dal rimettente non appare dunque coerente con il principio di ragionevolezza, né con le previsioni della legge delega ed in particolare con l’indicazione rinvenibile nell’art. 1, comma 10, della legge n. 76 del 2016. Nell’adeguare l’ordinamento dello stato civile alle previsioni sul cognome delle unioni civili, è stata dunque compiuta una scelta che rappresenta il coerente sviluppo dei principi posti dalla legge di delega.
4.2.– Anche in riferimento agli artt. 2, 3, 11 e 117, primo comma, Cost. le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017 non sono fondate.
Che il diritto al nome, quale elemento costitutivo dell’identità personale, debba concretizzarsi nel cognome comune, rendendo così doverosa la modifica anagrafica di quello originario, non discende, infatti, né dalle norme della nostra Costituzione, né da quelle interposte che essa richiama.
Va sottolineato, inoltre, che la ipotizzata valenza anagrafica del cognome comune sarebbe suscettibile di produrre effetti pregiudizievoli sulla sfera personale e giuridica dei figli di quella delle parti che avesse assunto tale cognome in sostituzione del proprio. Ad essi infatti, in base all’art. 262 del codice civile, è attribuito il cognome del genitore che li abbia riconosciuti. A seguito dello scioglimento dell’unione civile i figli (salva la facoltà di scelta riconosciuta al figlio maggiorenne dall’art. 33, comma 2, del d.P.R.n. 396 del 2000) rimarrebbero privi di uno degli elementi che, fino al momento dello scioglimento, identificava il relativo nucleo familiare, con tutto ciò che questo comporta nell’ambiente in cui essi vivono.
È bensì vero che le parti del giudizio a quo rifiutano ogni analogia con il matrimonio per quanto attiene al cognome comune. È tuttavia espressivo di un principio caratterizzante l’ordinamento dello stato civile che il cognome d’uso assunto dalla moglie a seguito di matrimonio non comporti alcuna variazione anagrafica del cognome originario, che rimane immodificato. L’art. 20, comma 3, del d.P.R.n. 223 del 1989 prevede, infatti, che «Per le donne coniugate o vedove le schede devono essere intestate al cognome da nubile». In linea di coerenza con tale previsione, si prevede che la scheda anagrafica della parte dell’unione civile debba indicare il nome ed il cognome dell’altra parte dell’unione (comma 1 dell’art. 20), senza che ciò comporti una modifica del proprio cognome anagrafico (comma 3-bis).
D’altra parte, la dichiarazione della scelta circa la posizione del cognome comune non è affatto priva di significato, come sostengono le parti, neppure laddove a tale cognome si riconnetta mero valore d’uso. Anche in questo caso, infatti, la posizione del cognome acquisito rispetto a quello originario riveste indubbio rilievo. Va infatti sottolineato che la dichiarazione sulla posizione del cognome comune costituisce esercizio di un’ulteriore facoltà che la legge n. 76 del 2016 ha espressamente attribuito alle parti dell’unione civile. Il rilievo di tale dichiarazione trova riscontro anche nella previsione della sua iscrizione, a cura dell’ufficiale dello stato civile, negli archivi informatici degli atti dello stato civile (art. 63, comma 1, lettera g-sexies, del d.P.R.n. 396 del 2000).
La natura paritaria e flessibile della disciplina del cognome comune da utilizzare durante l’unione civile e la facoltà di stabilirne la collocazione accanto a quello originario – anche in mancanza di modifiche della scheda anagrafica – costituiscono dunque garanzia adeguata dell’identità della coppia unita civilmente e della sua visibilità nella sfera delle relazioni sociali in cui essa si trova ad esistere.
5.– Anche le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017 non sono fondate.
5.1.– Le censure del giudice a quo attengono in primo luogo alla violazione dell’art. 76 Cost., in quanto non sarebbe stato conferito al legislatore delegato alcun potere di revoca o annullamento di iscrizioni e annotazioni già effettuate e relative alla scelta del cognome.
Al riguardo va rilevato che la disposizione dell’art. 8 detta una disciplina transitoria destinata ad applicarsi alle unioni civili costituite nell’intervallo temporale tra il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144 (Regolamento recante disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile, ai sensi dell’articolo 1, comma 34, della legge 20 maggio 2016, n. 76), e il d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, nelle quali sia stata esercitata l’opzione per il cognome comune e sia stata altresì effettuata la variazione anagrafica prevista dall’art. 4 del citato d.P.C.m. e successivamente esclusa dall’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017.
Va ribadito che la delega conferita dall’art. 1, comma 28, lettera a), della legge n. 76 del 2016 aveva ad oggetto «[l’] adeguamento […] delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni» alle previsioni della stessa legge sulle unioni civili, con salvezza delle disposizioni da essa direttamente introdotte, ed in particolare di quella di cui all’art. 1, comma 10, dedicato alla disciplina del cognome comune delle unioni civili.
Come si è visto nel precedente punto 4., il legislatore delegato ha dapprima esplicitato il significato del principio posto dall’art. 1, comma 10, della legge n. 76 del 2016, escludendo la valenza anagrafica del cognome comune. Con il successivo art. 8, e sempre al fine dell’adeguamento della disciplina dello stato civile, ha previsto la caducazione delle annotazioni effettuate medio tempore, in applicazione di una fonte normativa, provvisoria e di carattere secondario, non coerente con i principi della delega.
5.2.– Non è ravvisabile neppure la denunciata violazione degli artt. 2, 11 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in riferimento all’art. 8 della CEDU e agli artt. 1 e 7 della CDFUE. Nella prospettazione del rimettente, tali censure sono ricondotte al sacrificio del diritto alla conservazione del cognome comune da parte di chi lo abbia acquisito nel vigore dell’art. 4, comma 2, del d.P.C.m. n. 144 del 2016.
Introdotto da una disposizione destinata ad applicarsi in attesa dell’entrata in vigore dei decreti legislativi previsti dalla legge n. 76 del 2016, l’effetto modificativo della scheda anagrafica rivestiva la medesima natura provvisoria della fonte regolamentare che l’aveva previsto e che era destinata a cessare per effetto dei successivi decreti legislativi. La dichiarata transitorietà del d.P.C.m. in esame e la relativa brevità del suo orizzonte temporale di riferimento portano ad escludere che le novità da esso introdotte abbiano determinato un ragionevole affidamento in ordine all’emersione e al consolidamento di un nuovo tratto identificativo della persona. Ne consegue che la previsione dell’annullamento delle variazioni anagrafiche già effettuate non può ritenersi lesiva di una nuova identità personale, ancora non affermata.
Pertanto, non risulta conferente il richiamo alla sentenza n. 13 del 1994, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 165 del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile), per violazione dell’art. 2 Cost., nella parte in cui esso non prevedeva che, ove la rettifica degli atti dello stato civile, per ragioni indipendenti dalla volontà del soggetto, comporti il cambiamento del cognome, il soggetto stesso possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli.
In quella occasione, l’esigenza di protezione dell’interesse alla conservazione del cognome è stata riconosciuta «[…] in presenza di una situazione nella quale con quel cognome la persona sia ormai individuata e conosciuta nell’ambiente ove vive […]», ciò che non può ritenersi verificato nel caso in esame.
5.3.– Non è fondata, infine, la censura di irragionevolezza proposta dal rimettente in riferimento all’indicazione legislativa del procedimento di cui all’art. 98 del d.P.R.n. 396 del 2000 per l’annullamento delle variazioni anagrafiche effettuate in base all’art. 4 del citato d.P.C.m.
Il modello procedimentale prescelto dal legislatore delegato prevede, in particolare, che del provvedimento sia data comunicazione agli interessati, al procuratore della Repubblica ed al prefetto. A partire da questa comunicazione gli interessati hanno trenta giorni per proporre ricorso al tribunale, a norma dell’art. 95 del d.P.R.n. 396 del 2000. Lo stesso termine è previsto per il procuratore della Repubblica che può proporre ricorso contro la correzione effettuata dall’ufficiale dello stato civile.
Si tratta dunque di una procedura che garantisce il contraddittorio con la parte interessata attraverso la proposizione di un ricorso e l’instaurazione di un giudizio di fronte ad un tribunale (come è avvenuto proprio nel giudizio a quo).
E, se è vero che la procedura indicata contempla il contraddittorio e l’intervento del giudice in una fase differita, si tratta pur sempre di uno strumento processuale che consente alle parti coinvolte di contestare l’annullamento di variazioni anagrafiche. L’art. 8 in esame prescrive dunque l’utilizzo di uno schema procedimentale, già previsto nel sistema dell’ordinamento dello stato civile, ancorché utilizzato per differenti evenienze. La legittimità del rinvio a tale modello non è inficiata dall’estensione del suo ambito applicativo a ulteriori fattispecie, differenti da quelle per le quali esso era originariamente previsto.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, lettera c), numero 2), e 8 del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in riferimento all’art. 22 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2)dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017, sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 76 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017, sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 76 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della CEDU e agli artt. 1 e 7 della CDFUE, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 ottobre 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Giuliano AMATO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 22 novembre 2018.