Corte Costituzionale, sentenza del 06/12/2004 n. 378
composta dai signori: Presidente: Valerio ONIDA; Giudici: Carlo MEZZANOTTE, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 9, comma 2; 39, comma 2; 40; 66, comma 1 e 2 e 82 della deliberazione statutaria della Regione Umbria e dell’intera deliberazione statutaria approvata in prima deliberazione il 2 aprile 2004 ed in seconda deliberazione il 29 luglio 2004, e pubblicata nel B.U.R. n. 33 dell’11 agosto 2004, promossi con ricorsi del Presidente del Consiglio dei ministri e di Carlo Ripa di Meana, consigliere regionale di minoranza della Regione Umbria, notificati il 9 e l’11 settembre 2004, depositati in cancelleria il 15 e il 20 successivi ed iscritti ai nn. 88 e 90 del registro ricorsi 2004.
Visti gli atti di costituzione della Regione Umbria nonché l’atto di intervento, relativamente al ricorso n. 88 del 2004, di Carlo Ripa di Meana consigliere regionale di minoranza della Regione Umbria;
udito nell’udienza pubblica del 16 novembre 2004 il Giudice relatore Ugo De Siervo;
uditi l’avvocato dello Stato Giorgio D’Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Giandomenico Falcon per la Regione Umbria e Urbano Barelli per il consigliere regionale Carlo Ripa di Meana.
Ritenuto in fatto
1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato il 9 settembre 2004, depositato in data 15 settembre 2004 e iscritto al n. 88 nel registro ricorsi del 2004, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, ai sensi dell’art. 123, secondo comma della Costituzione nei confronti della delibera statutaria della Regione Umbria approvata dal Consiglio regionale in prima deliberazione il 2 aprile del 2004 ed in seconda deliberazione il 29 luglio 2004. In particolare, di detta delibera statutaria vengono censurati: l’art. 9, comma 2; l’art. 39, comma 2; l’art. 40; l’art. 66 commi 1 e 2; l’art. 82.
Premette la difesa erariale che la potestà statutaria delle Regioni, configurata dalle riforme costituzionali del 1999 e del 2001 come una speciale fonte normativa regionale collocata in una posizione privilegiata nella gerarchia delle fonti, è stata al tempo stesso però delimitata rigorosamente, al fine di assicurare il rispetto del principio di legalità costituzionale. La Regione Umbria avrebbe “ecceduto dalla propria potestà statutaria in violazione della normativa costituzionale”.
2. – In primo luogo l’Avvocatura censura l’art. 9, comma 2, della delibera statutaria il quale, nel disporre che la Regione tutela “forme di convivenza” ulteriori rispetto a quella costituita dalla famiglia, detterebbe una disciplina ambigua e di indiscriminata estensione. Essa nella misura in cui consente l’adozione di “eventuali future previsioni normative regionali” concernenti i rapporti patrimoniali e personali tra conviventi, nonché il loro status, violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.
Ove poi la norma intendesse esprimere qualcosa di diverso rispetto al rilievo sociale e alla dignità giuridica, nei limiti previsti dalla legge dello Stato, della convivenza familiare, ovvero intendesse “affermare siffatti valori” anche per le unioni libere e le relazioni tra soggetti dello stesso sesso, violando i principî sanciti dagli artt. 29 e 2 della Costituzione, essa contrasterebbe con l’art. 123 della Costituzione. Come affermato anche dalla giurisprudenza costituzionale, lo statuto regionale, infatti, non solo dovrebbe essere conforme alle singole previsioni della Costituzione, ma non dovrebbe neppure eluderne lo spirito. Il generico e indiscriminato riferimento alle forme di convivenza, specie se letto in relazione all’art. 5 dello statuto, che afferma che la Regione concorre a rimuovere le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale, comporterebbe “una incongrua e inammissibile dilatazione dell’area delimitata dai valori fondanti dell’art. 2 Cost.”.
A monte, la norma impugnata contrasterebbe con l’art. 123 della Costituzione anche perché sarebbe estranea ai contenuti necessari ed eccederebbe i limiti in cui altri contenuti sarebbero ammissibili, in quanto non esprimerebbe alcun interesse proprio della comunità regionale, e comunque non potrebbe affermare valori e principî diversi da quelli già espressi nella prima parte della Costituzione, contrastando altrimenti con l’art. 5 della Costituzione e il principio di unitarietà della Repubblica ivi affermato, creando altresì un’ingiustificata disparità di trattamento dei singoli.
3. – La difesa erariale censura poi l’art. 39, comma 2, e l’art. 40 della delibera statutaria, per violazione degli art. 121, secondo comma, e 117, terzo comma, della Costituzione.
Le suddette norme – che prevedono rispettivamente la possibilità per la Giunta regionale, previa autorizzazione con legge regionale, di adottare regolamenti di delegificazione e di presentare al Consiglio progetti di testo unico di disposizioni di legge – contrasterebbero con il principio della separazione dei poteri tra organo legislativo ed organo esecutivo. In mancanza di norme costituzionali derogatorie, non sarebbero infatti ammissibili regolamenti di delegificazione, né deleghe legislative, e neppure sarebbe possibile un’estensione analogica delle deroghe previste per la legislazione statale.
Nel ricorso si osserva anche che la possibilità riconosciuta dalla Corte con la sentenza n. 2 del 2004 di conferire al Consiglio regionale la potestà regolamentare, non autorizzerebbe pure la previsione inversa del conferimento alla Giunta della potestà legislativa.
Inoltre, la fonte regolamentare sarebbe “incongruente” con le materie di competenza concorrente, dal momento che inciderebbe sui principî stabiliti dalle leggi statali, ex art. 117, terzo comma, della Costituzione.
L’art. 40 della delibera statutaria violerebbe il principio della separazione tra organo legislativo e organo esecutivo anche in considerazione della circostanza che consentirebbe alla Giunta di disciplinare materie di competenza legislativa senza che tale vizio possa ritenersi sanato dalla previsione della approvazione finale del testo unico da parte del Consiglio, trattandosi di approvazione meramente formale, senza potere di modifica del testo.
4. – Ancora, l’Avvocatura censura l’art. 66, commi 1 e 2, della delibera statutaria nella parte in cui stabiliscono l’incompatibilità della carica di componente della Giunta con quella di consigliere regionale. La norma, secondo il ricorrente, contrasterebbe con l’art. 122, primo comma, della Costituzione, che – ed al riguardo viene invocata la sentenza n. 2 del 2004 di questa Corte – riserverebbe alla legge regionale, nei limiti dei principî sanciti dalla legge statale, la individuazione dei casi di incompatibilità.
5. – Infine, la difesa erariale impugna l’art. 82, il quale attribuisce alla Commissione di garanzia la funzione di esprimere pareri sulla conformità allo statuto delle leggi e dei regolamenti regionali.
Ove la norma, il cui tenore letterale – si osserva nel ricorso – non sarebbe chiaro, dovesse intendersi nel senso che tale parere segua il compimento dell’attività normativa, conferirebbe ad un organo amministrativo un inammissibile potere di sindacare le leggi e i regolamenti già adottati dai competenti organi regionali, in violazione degli artt. 121 e 134 della Costituzione.
6. – Si è costituita in giudizio la Regione Umbria, la quale ha chiesto che il ricorso proposto dal Presidente del Consiglio dei ministri sia dichiarato inammissibile e infondato, riservandosi di illustrare in una successiva memoria le argomentazioni a sostegno delle proprie difese.
7. – Il consigliere regionale della Regione Umbria, Carlo Ripa di Meana, ha spiegato atto di intervento nel giudizio chiedendo che, ove “preliminarmente si accerti l’esistenza giuridica dello statuto”, ne sia dichiarata l’illegittimità costituzionale.
In ordine alla legittimazione ad intervenire, si afferma che essa sarebbe implicita nel sistema costituzionale, dovendosi considerare il consigliere regionale dissenziente un soggetto costituzionalmente qualificato a tal fine, in quanto dotato di una diversa ed autonoma posizione derivante dall’eccezionale carattere preventivo della impugnazione dello statuto rispetto alla sua promulgazione, e dal fatto che, dovendo la decisione della Corte essere recepita dal Consiglio regionale, essa condizionerebbe la promulgazione stessa dello statuto. Fintanto che lo statuto non sia promulgato, la fattispecie non potrebbe dirsi “perfetta” e lo statuto non sarebbe imputabile alla Regione, ma solo alla maggioranza consiliare. Proprio questo elemento evidenzierebbe la differente posizione del consigliere regionale di minoranza e giustificherebbe la sua legittimazione ad intervenire nel giudizio avanti alla Corte costituzionale.
Inoltre, poiché per il principio maggioritario la volontà della maggioranza è imputata all’intero collegio, il componente dissenziente avrebbe un interesse particolare al rispetto delle norme procedimentali che conducono a tale imputazione e che nel caso della approvazione dello statuto consisterebbero in primo luogo nella necessaria conformità delle due deliberazioni. La legittimazione del consigliere interveniente, nel caso di specie, deriverebbe anche dalla circostanza secondo la quale con tale intervento si intende far valere proprio una presunta violazione di questa regola.
Tale violazione, peraltro, sarebbe comunque rilevabile d’ufficio dalla stessa Corte, in quanto impedirebbe il perfezionamento della fattispecie procedimentale di cui all’art. 123 della Costituzione e dunque l’imputazione dello statuto al Consiglio regionale e alla Regione.
Infine, il mancato riconoscimento della legittimazione del consigliere di minoranza significherebbe rimettere soltanto al Governo e al Presidente della Giunta regionale, ed alle loro valutazioni di opportunità politica, la tutela “dell’interesse al rispetto della legalità costituzionale”. Inoltre, l’esclusione dal contraddittorio del consigliere dissenziente, “titolato all’intervento proprio dal principio rappresentativo” costituirebbe un’inammissibile lesione della doverosa armonia con la Costituzione di cui all’art. 123 della Costituzione.
8. – Nel merito il consigliere interveniente sostiene che nell’adozione dello statuto della Regione Umbria sarebbe stato violato il procedimento di cui all’art. 123, secondo comma, della Costituzione, dal momento che la seconda deliberazione con la quale è stato approvato lo statuto in data 29 luglio 2004, non sarebbe eguale a quella precedente del 2 aprile 2004.
La diversità riguarderebbe l’art. 9 della delibera statutaria di cui sarebbe stata sostituita la rubrica (da “Comunità familiare” a “Famiglia. Forme di convivenza”), modificato il testo ed inoltre scomposto l’originario unico comma in due commi. Il risultato di tali modificazioni – introdotte come “correzioni formali” – avrebbe avuto effetti sostanziali, comportando la separazione della tutela delle forme di convivenza, previste nel secondo comma della norma, dal riconoscimento dei diritti della famiglia, oggetto del primo comma, e la “attribuzione di carattere aggiuntivo alla tutela della convivenza”, espressa mediante l’avverbio “altresì”, introdotto nel comma 2. In tal modo, come risulterebbe dal dibattito svoltosi in Consiglio regionale, si sarebbe voluto venire incontro alle proteste di quanti affermavano esservi una equiparazione della convivenza alla famiglia legittima in violazione dell’art. 29 Cost. Inoltre, attraverso la soppressione del riferimento alla “varietà” delle forme di convivenza prevista nel testo approvato in prima deliberazione, si sarebbe tenuto conto delle “proteste di quanti ravvisavano nella previsione una tutela anche delle convivenze omosessuali”. Poiché dunque le correzioni avrebbero modificato la sostanza della previsione originaria, con la seconda deliberazione vi sarebbe stato “un diverso volere legislativo” e non si sarebbe realizzato l’atto complesso previsto dall’art.123 della Costituzione, con conseguente e diretta violazione della norma costituzionale, di talché mancherebbe l’oggetto del processo, e la Corte non potrebbe giudicare della legittimità di un atto che non esiste.
Peraltro, osserva ancora l’interveniente, ove tale nodo non venisse sciolto adesso, esso si ripresenterebbe al momento della promulgazione dello statuto, non potendo questa avvenire in mancanza del riscontro di regolarità del procedimento e dell’esistenza della legge che, nel caso in esame, non sussisterebbe.
9. – In via subordinata, l’interveniente afferma di condividere i rilievi di costituzionalità sollevati nel ricorso del Governo, dei quali si ribadisce ampiamente la fondatezza.
10. – In prossimità dell’udienza pubblica, la Regione Umbria ha depositato una memoria nella quale contesta le censure formulate dal Presidente del Consiglio dei ministri avverso la delibera statutaria impugnata.
Infondati sarebbero innanzitutto i rilievi mossi nei confronti dell’art. 9, comma 2, concernente la tutela di forme di convivenza. Tale norma avrebbe infatti natura meramente programmatica e legittimamente potrebbe essere inserita nello statuto, accanto ai contenuti necessari dello stesso, in quanto essa non fonderebbe alcun potere ulteriore della Regione, rispetto a quelli ad essa conferiti dalla Costituzione.
La previsione dell’art. 9, comma 2, costituirebbe infatti esercizio dell’autonomia politica, pacificamente riconosciuta alle Regioni, le quali ben potrebbero seguire indirizzi diversi da quelli dello Stato, pur nel rispetto dei limiti costituzionali imposti ai poteri regionali, senza perciò violare l’art. 5 Cost. Anche la Corte costituzionale avrebbe riconosciuto alle Regioni il ruolo di enti esponenziali delle comunità a ciascuna di esse facenti capo: tale ruolo legittimerebbe la possibilità di partecipare a tutte le questioni di interesse della comunità regionale, anche se queste sorgono in settori estranei alle materie attribuite dall’art. 117 alla competenza regionale e si proiettino oltre i confini territoriali della Regione (al riguardo la difesa regionale richiama la sentenza di questa Corte n. 829 del 1988).
La censura in questione sarebbe pertanto inammissibile, poiché l’art. 9, comma 2, della delibera statutaria, così interpretata, non avrebbe un effettivo contenuto normativo e quindi non avrebbe alcuna idoneità lesiva.
Errata sarebbe poi l’affermazione secondo cui essa non esprimerebbe alcun interesse proprio della comunità regionale, dal momento che la norma tutelerebbe forme di convivenza di persone che vivono nella Regione.
Quanto ai motivi di impugnazione concernenti la violazione dell’art. 29 Cost., la Regione osserva che il particolare valore riconosciuto da tale norma alla famiglia fondata sul matrimonio, non implicherebbe necessariamente che forme di convivenza diverse non possano comunque essere tutelate. D’altra parte, il diverso valore riconosciuto a tali forme di convivenza risulterebbe evidente dalla diversa formulazione dei due commi dell’art. 9.
La norma statutaria, dunque, porrebbe un obiettivo legittimo che potrebbe essere attuato in modo conforme all’ordinamento e con riferimento a forme di convivenza diverse da quelle tra persone dello stesso sesso, su cui invece si incentrano le censure del ricorso statale. Semmai un problema di legittimità potrebbe porsi con riguardo a leggi regionali che in concreto dovessero intervenire a tutela di tale tipo di convivenza.
11. – Anche la censura concernente l’art. 39 dello statuto sarebbe infondata.
Non sarebbe pertinente lamentare la violazione del principio di separazione dei poteri in quanto l’abrogazione delle norme legislative sarebbe comunque disposta non dal regolamento di delegificazione, ma dalla legge. Inoltre l’ammissibilità dei regolamenti di delegificazione a livello regionale sarebbe ormai pacificamente ammessa dalla dottrina. Sotto altro profilo, poi, disposizione analoga a quella censurata sarebbe contenuta nell’art 43 dello statuto della Regione Calabria, disposizione quest’ultima non impugnata dal Governo.
12 – Analogamente sarebbe da respingere la censura avverso l’art. 40 della delibera statutaria, dal momento che esso non prevederebbe alcuna delega legislativa e che l’approvazione finale da parte del Consiglio con le sole dichiarazioni di voto non contrasterebbe con l’art. 121 della Costituzione che, a differenza dell’art. 72 della Costituzione, non prevede l’esame in commissione e l’approvazione articolo per articolo. D’altra parte, la previsione di una procedura spedita di approvazione del testo unico ben si giustificherebbe per il carattere non innovativo dell’atto legislativo in questione. Infine la difesa regionale evidenzia ancora come analoga norma contenuta nello statuto della Regione Calabria (art. 44) non sia stata impugnata dal Governo.
13. – La Regione Umbria sostiene che anche la censura mossa avverso l’art. 66 sarebbe infondata, dal momento che la incompatibilità della carica di componente della Giunta con quella di componente del Consiglio non atterrebbe alla materia elettorale, bensì alla disciplina della forma di governo regionale. Ad avviso della difesa regionale, non tutte le cause di incompatibilità avrebbero la medesima ratio: mentre le incompatibilità “esterne”, quale, ad esempio, quella tra appartenenza al Consiglio o alla Giunta regionale e appartenenza al Parlamento, avrebbero la funzione di garantire l’effettività e l’imparzialità dello svolgimento della funzione, le incompatibilità “interne”, quale appunto quella prevista dalla norma censurata, atterrebbero al modo di conformare i rapporti tra gli organi fondamentali della Regione.
14. – “Radicalmente infondata” sarebbe infine la censura mossa nei confronti dell’art. 82 della delibera statutaria che disciplina la Commissione di garanzia. Il potere conferito a tale organo sarebbe meramente consultivo e facoltativo; inoltre l’unica conseguenza di un suo parere negativo sarebbe solo il dovere per l’organo competente di riesaminare l’atto per la sua riapprovazione, peraltro senza maggioranze qualificate (d’altra parte, la previsione della necessità di una riapprovazione della legge o del regolamento rientra sicuramente nella competenza statutaria). La Commissione di garanzia, dunque, assicurerebbe solo un controllo interno per meglio garantire la legittimità delle fonti regionali. Sarebbe comunque sempre rispettata la competenza legislativa del Consiglio e il potere di sindacato della Corte costituzionale.
15. – Con ricorso notificato in data 11 settembre 2004, depositato il 20 settembre 2004, e iscritto al n. 90 del registro ricorsi del 2004, il consigliere regionale Carlo Ripa di Meana ha chiesto che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale, ovvero la nullità o l’inesistenza della delibera statutaria della Regione Umbria.
Sostiene preliminarmente il ricorrente che tale delibera statutaria sarebbe stata approvata in violazione del procedimento previsto dall’art. 123 Cost., in quanto mancherebbe la doppia delibera conforme e che ciò sarebbe avvenuto con la contrarietà espressa dello stesso ricorrente.
Il consigliere afferma di aver denunciato tale vizio alla Presidenza del Consiglio dei ministri, la quale, asseritamente per ragioni politiche, non avrebbe incluso tra i motivi del ricorso presentato avverso la delibera statutaria della Regione Umbria anche il vizio procedimentale suddetto.
16. – In ordine alla legittimazione di un consigliere regionale di minoranza a ricorrere alla Corte costituzionale, il ricorrente osserva che essa sarebbe implicita nel sistema costituzionale per una pluralità di ragioni.
Al riguardo – oltre ad alcune argomentazioni già riportate a proposito del menzionato atto di intervento nel giudizio instaurato dal ricorso del Governo – si evidenzia come l’ammissibilità del ricorso deriverebbe anche dalla circostanza che nella forma di governo regionale mancherebbe un potere neutro quale quello del Presidente della Repubblica, che possa rinviare al Parlamento le leggi sospette di incostituzionalità. Proprio l’attribuzione al massimo esponente della maggioranza politica, cioè al Presidente della Giunta, del potere di promulgazione delle leggi, renderebbe necessario riconoscere il potere di ricorrere alla Corte ai soggetti portatori dell’interesse concreto al rispetto delle norme costituzionali.
In senso inverso, del resto, non potrebbe essere invocata la previsione del referendum confermativo, data la sua natura di strumento politico e non di riesame giuridico.
In definitiva, se non si riconoscesse al consigliere il potere di ricorrere avverso lo statuto, in via surrogatoria, suppletiva e successiva, l’interesse al rispetto della legalità costituzionale non sarebbe pienamente tutelato, ma rimesso ad una valutazione di mera opportunità politica del Governo.
Infine, il ricorrente chiede che la Corte, “ove occorra”, dichiari d’ufficio, ex art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 31 della stessa legge, come modificato dalla legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3), nella parte in cui non riconosce la legittimazione a ricorrere del consigliere regionale che non ha votato per l’approvazione dello statuto.
17. – Quanto alle specifiche censure, il ricorrente lamenta innanzitutto la violazione dell’art.123 della Costituzione e del procedimento ivi previsto, dal momento che la seconda deliberazione con cui è stato approvato lo statuto in data 29 luglio 2004, non sarebbe conforme a quella precedente del 2 aprile 2004, secondo motivazioni identiche a quelle esposte nell’atto di intervento relativo al ricorso del Governo e sintetizzate al precedente punto 7.
18. – Il ricorrente censura inoltre l’art. 66 della delibera statutaria nella parte in cui dispone che la carica di componente della Giunta è incompatibile con quella di consigliere regionale e che al consigliere nominato membro della Giunta subentra il primo dei candidati non eletti nella stessa lista, nonché nella parte in cui prevede che il subentrante dura in carica per il periodo in cui il consigliere mantiene la carica di assessore.
Innanzitutto la norma violerebbe l’art. 122, primo comma, della Costituzione in quanto introdurrebbe la figura del consigliere regionale supplente o subentrante non prevista dalla norma costituzionale, la quale affida alla legge statale il compito di stabilire i principî fondamentali circa le incompatibilità dei consiglieri regionali. Risulterebbero violati, inoltre, l’art. 67 della Costituzione, in quanto la previsione in esame contraddirebbe il divieto di mandato imperativo, nonché l’art. 3 Cost., dal momento che il consigliere “reggente” avrebbe uno status differenziato, con minori garanzie, rispetto al titolare. Egli, infatti, non godendo della inamovibilità, potrebbe essere sempre sostituito ove il supplito tornasse alla sua originaria funzione di consigliere. In tal modo, però, la revoca del consigliere supplente sarebbe operata non dal corpo elettorale e alla fine del mandato – come imporrebbe il principio sancito dall’art. 67 Cost. – ma dall’esecutivo regionale cioè dall’organo sottoposto al controllo politico del Consiglio, così che “il controllato potrebbe rimuovere a piacimento (…) il controllore”. Per di più, il mandato del consigliere supplente sarebbe interrotto, così “spezzando lo stesso rapporto di rappresentanza politica”.
19. – Da ultimo, il ricorrente censura l’art. 9 della delibera statutaria per violazione dell’articolo 29 della Costituzione, il quale non ammetterebbe “forme di tutela della famiglia se non è basata sul matrimonio, religioso o civile”, nonché degli artt. 30 e 31 della Costituzione. La previsione della tutela delle forme di convivenza non si limiterebbe a riconoscere una libertà, ma impegnerebbe la Regione ad agire attivamente a protezione della convivenza di fatto “con l’effetto di una parificazione alla famiglia di diritto”.
La norma inoltre “usurperebbe” le competenze statali, trattandosi di questione inerente alla materia dell’ordinamento civile, di esclusiva spettanza legislativa dello Stato, secondo quanto previsto dall’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.
20. – Si è costituita in giudizio la Regione Umbria, la quale ha chiesto che il ricorso proposto dal consigliere Ripa di Meana sia dichiarato inammissibile e infondato, riservandosi di illustrare in una successiva memoria le argomentazioni a sostegno delle proprie difese.
21. – Il ricorrente Carlo Ripa di Meana in prossimità dell’udienza ha depositato una memoria nella quale ha eccepito il difetto di legittimazione processuale del Presidente della Regione Umbria a costituirsi nel giudizio. La sua costituzione sarebbe avvenuta infatti sine titulo, in quanto non sarebbe stata preceduta da una delibera del Consiglio regionale, unico soggetto legittimato, a parere del ricorrente, a decidere se resistere o meno al ricorso.
Le ragioni di tale esclusiva legittimazione sarebbero individuabili nel fatto che il giudizio costituzionale ex articolo 123 della Costituzione, pur avendo le forme del giudizio in via principale, si discosterebbe da questo, in quanto avrebbe una valenza infraprocedimentale e preventiva: in tale fase la delibera statutaria sarebbe imputabile solo al Consiglio regionale e pertanto la valutazione circa la costituzione in giudizio del Presidente della Giunta non potrebbe sostituire quella del Consiglio.
22. – Anche la Regione Umbria ha depositato una memoria, nella quale sostiene in primo luogo la totale inammissibilità del ricorso proposto dal consigliere Ripa di Meana per difetto assoluto di legittimazione. L’art. 137 della Costituzione, infatti, porrebbe una riserva di legge costituzionale per la individuazione dei soggetti legittimati ad instaurare un giudizio di legittimità costituzionale, con la conseguenza che sarebbe esclusa ogni possibilità di impugnazione da parte di soggetti non espressamente contemplati. Lo Stato sarebbe l’unico legittimato a ricorrere in via diretta contro lo statuto e le leggi regionali, come risulterebbe confermato anche dalla giurisprudenza costituzionale che ha affermato la tassatività delle norme costituzionale in materia ed ha anche escluso nei giudizi in via principale l’intervento di soggetti terzi. D’altra parte, se lo statuto, come afferma il ricorrente, fosse nullo, qualunque giudice potrebbe disapplicarlo, senza bisogno di ricorrere alla Corte.
23. – Quanto alla difformità tra le due delibere lamentata dal ricorrente, essa sarebbe inesistente, trattandosi di diversità meramente formali. Mentre nessuna rilevanza assumerebbe l’intenzione dei redattori, le modifiche della rubrica dell’art. 9 avrebbe valore meramente esplicativo del contenuto della disposizione; la scomposizione della norma in due commi non avrebbe implicazioni sostanziali; l’aggiunta della parola “altresì” sarebbe semplice conseguenza della scomposizione e la soppressione delle parole “le varie”, riferito a “forme di convivenza”, non avrebbe valore sostanziale poiché l’espressione usata sarebbe comunque generica e non escluderebbe alcun tipo di convivenza. In subordine, osserva la difesa regionale, la difformità riguarderebbe comunque solo l’art. 9 e non l’intero statuto.
24 – Infondata sarebbe anche la censura secondo la quale l’art. 66 della delibera statutaria avrebbe introdotto una ipotesi di incompatibilità non prevista ai sensi dell’art. 122 della Costituzione. Infatti la legge 2 luglio 2004, n. 165 (Disposizioni di attuazione dell’art. 122, primo comma, della Costituzione), prevede espressamente la eventuale sussistenza di una causa di incompatibilità tra assessore e consigliere regionale. La difesa regionale inoltre ribadisce la diversità di tale ipotesi di incompatibilità rispetto alle altre, e sostiene che quella censurata atterrebbe alla disciplina della “forma di governo” pienamente rientrante nella competenza statutaria.
Quanto alla lamentata violazione dell’art. 67 della Costituzione, si nega che l’impugnato art. 66, comma 2, configuri una sorta di potere di revoca del consigliere subentrante a quello nominato assessore. Il consigliere subentrante sarebbe consigliere regionale a tutti gli effetti e senza limitazioni, seppure con la possibilità che il suo mandato venga a cessare in conseguenza del rientro dell’assessore: peraltro la cessazione dalla carica di componente della Giunta non potrebbe trasformarsi in una sorta di strumentale revoca da parte del Presidente della Giunta, al solo fine di estromettere il consigliere subentrato e divenuto sgradito, poiché verrebbe fatta valere la responsabilità politica del Presidente.
25. – Quanto, infine, alle censure mosse avverso l’art. 9 della delibera statutaria, la difesa regionale, dopo aver rilevato che lo stesso consigliere avrebbe presentato in commissione un emendamento volto ad inserire nella norma l’espressione “e promuove il riconoscimento delle diverse forme di convivenza”, osserva che la critica mossa dal ricorrente sarebbe ancor più radicale di quella del Governo. Si contesterebbe, infatti, la legittimità della tutela di qualsiasi forma di convivenza non fondata sul matrimonio, e dunque anche di quelle more uxorio, che oramai rilevano per l’ordinamento statale. Il ricorso inoltre si fonderebbe sull’equivoco di ritenere che la norma equipari la famiglia fondata sul matrimonio alle altre forme di convivenza, mentre così non sarebbe.
Infine, la difesa regionale ripropone le medesime argomentazioni svolte con riguardo a tale norma nella memoria depositata nel giudizio promosso dallo Stato (sintetizzate al precedente punto 10).
Considerato in diritto
1. – Il Governo ha sollevato questione di legittimità costituzionale, ai sensi dell’articolo 123, secondo comma, della Costituzione, degli artt. 9, comma 2; 39, comma 2; 40; 66, commi 1 e 2; 82 dello statuto della Regione Umbria, approvato dal Consiglio regionale in prima deliberazione il 2 aprile del 2004 ed in seconda deliberazione il 29 luglio 2004, in riferimento agli artt. 2; 5; 29; 117, secondo comma, lettera l); 117, terzo comma; 121; 122, primo comma; 123; 134, della Costituzione nonché al principio della separazione dei poteri.
L’art. 9, comma 2, viene impugnato nella parte in cui, avendo il primo comma dell’art. 9 riconosciuto i diritti della famiglia e previsto l’adozione di ogni misura idonea a favorire l’adempimento dei compiti che la Costituzione le affida, dispone che la Regione tutela forme di convivenza, in quanto consentirebbe l’adozione di “eventuali future previsioni normative regionali” concernenti i rapporti patrimoniali e personali tra i conviventi. Ciò in violazione dell’esclusivo potere statale riconosciuto dall’articolo 117, secondo comma, lettera l) della Costituzione, nella materia dell’ “ordinamento civile”.
Al tempo stesso, ove la norma intendesse affermare la rilevanza giuridica delle forme di convivenza estranee alla famiglia al di là di quanto disciplinato dalla legislazione statale, violerebbe gli articoli 29, 2 e 5 della Costituzione, nonché lo stesso articolo 123 della Costituzione, in quanto questa disciplina eccederebbe i contenuti ammissibili degli statuti regionali.
L’art. 39, comma 2, il quale prevede che la Giunta regionale possa, previa autorizzazione da parte di apposita legge regionale, adottare regolamenti di delegificazione, violerebbe l’articolo 121, secondo comma, della Costituzione ed il principio di separazione dei poteri tra organo legislativo ed organo esecutivo della regione, che non consentirebbero l’adozione di regolamenti di delegificazione; sarebbe violato, inoltre, l’art. 117 della Costituzione, in quanto la fonte regolamentare sarebbe incongruente rispetto alle materie legislative di tipo concorrente, nelle quali i principî fondamentali fissati dal legislatore statale dovrebbero essere attuati in via legislativa.
L’art. 40, invece, prevedendo che la Giunta regionale, previa legge regionale di autorizzazione, presenti al Consiglio regionale progetti di testo unico di disposizioni legislative, soggetti solo alla approvazione finale del Consiglio, violerebbe l’art. 121 Cost., nonché il principio di separazione dei poteri tra organo legislativo ed organo esecutivo della regione, che non consentirebbero deleghe legislative, né rinunce sostanziali all’esercizio del potere legislativo da parte del Consiglio regionale.
L’art. 66, commi 1 e 2, è censurato nella parte in cui stabilisce l’incompatibilità della carica di componente della Giunta con quella di consigliere regionale, per violazione dell’articolo 122, primo comma, della Costituzione, che riserva alla legge regionale l’individuazione dei casi di incompatibilità, nei limiti dei principî sanciti dalla legge statale.
L’art. 82, il quale attribuisce alla Commissione di garanzia la funzione di esprimere pareri sulla conformità allo statuto delle leggi e dei regolamenti regionali, violerebbe gli articoli 121 e 134 della Costituzione, in quanto, ove la disposizione impugnata dovesse intendersi nel senso che tale parere segua il compimento dell’attività normativa, conferirebbe ad un organo amministrativo il potere di sindacare le leggi ed i regolamenti adottati dai competenti organi regionali.
2. – Il consigliere regionale Carlo Ripa di Meana ha sollevato questione di legittimità costituzionale della delibera statutaria nella sua interezza, in quanto sarebbe stata violata la procedura determinata dall’articolo 123 della Costituzione per l’approvazione dello statuto. Lo stesso consigliere ha impugnato singolarmente gli articoli 9 e 66 della delibera statutaria, in riferimento agli artt. 3; 29; 30; 31; 67; 117, secondo comma, lettera l); 121; 122; 123 della Costituzione.
La richiesta di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’intera delibera statutaria o quanto meno del suo art. 9 è motivata in ragione delle modifiche che sarebbero state apportate a questo articolo prima della votazione finale, giustificate dagli organi del Consiglio regionale sulla base di esigenze di coordinamento formale, e che avrebbero invece introdotto innovazioni sostanziali, che avrebbero pesato sullo stesso voto finale; da ciò la violazione dell’articolo 123 della Costituzione che, ai fini dell’approvazione dello statuto regionale, richiede l’adozione di due delibere successive tra loro identiche.
Nel merito l’art. 9 violerebbe gli artt. 29, 30 e 31 della Costituzione, in quanto impegnerebbe la Regione ad agire attivamente a protezione delle convivenze di fatto, in contrasto con la norma costituzionale che non ammette forme di tutela della famiglia se non è basata sul matrimonio, religioso o civile. Inoltre questa disposizione violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l) della Costituzione, in quanto “usurperebbe” le competenze statali in materia di ordinamento civile.
L’art. 66, primo comma, è censurato nella parte in cui prevede che la carica di componente della Giunta sia incompatibile con quella di consigliere regionale, in quanto violerebbe l’art. 122, primo comma della Costituzione, il quale affida alla legge statale il compito di stabilire i principî fondamentali in materia di incompatibilità dei consiglieri regionali.
L’art. 66, secondo comma, disponendo che al consigliere regionale nominato membro della Giunta subentra il primo dei candidati non eletti nella stessa lista e che il subentrante dura in carica per tutto il periodo in cui il consigliere mantiene la carica di assessore, violerebbe l’articolo 67 della Costituzione ed il principio del divieto di mandato imperativo, in quanto il consigliere supplente sarebbe soggetto a revoca ad opera del supplito e dunque dell’organo esecutivo regionale, e durante il corso della legislatura. Questa norma, prevedendo minori garanzie per il consigliere supplente rispetto a quello ordinario, violerebbe anche l’art. 3; sarebbero pure violati gli artt. 121, 122 e 123 della Costituzione in quanto la disposizione impugnata determinerebbe l’esistenza di categorie diverse di consiglieri regionali; inoltre si introdurrebbe un meccanismo attraverso il quale potrebbero entrare nel Consiglio diversi candidati non eletti dal corpo elettorale.
3. – In via preliminare va dichiarato inammissibile il ricorso avverso la delibera statutaria presentato dal consigliere regionale Carlo Ripa di Meana.
L’impugnativa in via principale per motivi di costituzionalità delle leggi e degli statuti regionali è determinato da fonti costituzionali, secondo quanto reso palese dagli articoli 123 e 127 della Costituzione, nonché dall’articolo 2 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 (Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie di indipendenza della Corte costituzionale), che individuano soltanto nel Governo e nelle Giunte regionali gli organi che possono ricorrere in via principale alla Corte costituzionale; ciò è confermato dal primo comma dell’articolo 137 della Costituzione, secondo il quale “una legge costituzionale stabilisce le condizioni, le forme, i termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale (…)”. Né le caratteristiche del nuovo procedimento di approvazione dello statuto regionale – quale risulta in seguito alle modifiche introdotte dalla legge costituzionale n. 1 del 1999 – possono fondare alcun potere dei consiglieri regionali di impugnativa della delibera statutaria.
Ulteriore argomento in tal senso è individuabile nella circostanza secondo la quale nel periodo di applicazione dell’articolo 127 nella formulazione precedentemente vigente, con cui l’attuale articolo 123 della Costituzione condivide la caratteristica di un giudizio in via principale su un testo legislativo non ancora promulgato, era pacificamente esclusa la possibilità di partecipare al giudizio per soggetti diversi dalle parti esplicitamente individuate dalle disposizioni di rango costituzionale e dal titolare della potestà legislativa il cui esercizio fosse oggetto di contestazione
In base a tali argomentazioni non potrebbe che essere dichiarata manifestamente infondata (ove il ricorso fosse – come non è – ammissibile) la questione di legittimità costituzionale posta dal consigliere ricorrente in relazione all’articolo 31 della legge 11 marzo 1953, n. 87, quale modificato dall’articolo 9 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), nella parte in cui non riconosce la legittimazione a ricorrere del consigliere regionale che non abbia votato per l’approvazione dello statuto regionale, dal momento che questa norma non fa che esplicitare quanto già chiaramente previsto nel secondo comma dell’articolo 123 della Costituzione.
4. – Va altresì dichiarato inammissibile l’intervento del consigliere regionale Carlo Ripa di Meana nel giudizio in via principale relativo alla delibera statutaria della Regione Umbria promosso dal Governo.
Infatti, analogamente a quanto affermato per il giudizio sulle leggi in via principale – e cioè che devono ritenersi legittimati ad esser parti solo i soggetti titolari delle attribuzioni legislative in contestazione – anche nel giudizio sulla speciale legge regionale disciplinata dall’articolo 123 della Costituzione, gli unici soggetti che possono essere parti sono la Regione, in quanto titolare della potestà normativa in contestazione, e lo Stato, indicato dalla Costituzione come unico possibile ricorrente. Restano fermi, naturalmente, per i soggetti privi di tali potestà i mezzi di tutela delle loro posizioni soggettive dinanzi ad altre istanze giurisdizionali ed anche dinanzi a questa Corte nell’ambito del giudizio in via incidentale (cfr. ex plurimis sentenze n. 166 del 2004, n. 338, n. 315, n. 307 e n. 49 del 2003, nonché l’ordinanza allegata alla sentenza n. 196 del 2004).
5. – Venendo alle censure di illegittimità costituzionale sollevate nel ricorso governativo, in via preliminare occorre dichiarare la inammissibilità delle censure relative all’art. 9, comma 2.
Va ricordato che negli statuti regionali entrati in vigore nel 1971 – ivi compreso quello della Regione Umbria – si rinvengono assai spesso indicazioni di obiettivi prioritari dell’attività regionale ed anche in quel tempo si posero problemi di costituzionalità di tali indicazioni, sotto il profilo della competenza della fonte statutaria ad incidere su materie anche eccedenti la sfera di attribuzione regionale. Al riguardo, dopo aver riconosciuto la possibilità di distinguere tra un contenuto “necessario” ed un contenuto “eventuale” dello statuto (cfr. sentenza n. 40 del 1972), si è ritenuto che la formulazione di proposizioni statutarie del tipo predetto avesse principalmente la funzione di legittimare la Regione come ente esponenziale della collettività regionale e del complesso dei relativi interessi ed aspettative. Tali interessi possono essere adeguatamente perseguiti non soltanto attraverso l’esercizio della competenza legislativa ed amministrativa, ma anche avvalendosi dei vari poteri, conferiti alla Regione stessa dalla Costituzione e da leggi statali, di iniziativa, di partecipazione, di consultazione, di proposta, e così via, esercitabili, in via formale ed informale, al fine di ottenere il migliore soddisfacimento delle esigenze della collettività stessa. In questo senso si è espressa questa Corte, affermando che l’adempimento di una serie di compiti fondamentali «legittima, dunque, una presenza politica della regione, in rapporto allo Stato o anche ad altre regioni, riguardo a tutte le questioni di interesse della comunità regionale, anche se queste sorgono in settori estranei alle singole materie indicate nell’articolo 117 Cost. e si proiettano al di là dei confini territoriali della regione medesima» (sentenza n. 829 del 1988).
Il ruolo delle Regioni di rappresentanza generale degli interessi delle rispettive collettività, riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale e dalla prevalente dottrina, è dunque rilevante, anche nel momento presente, ai fini «dell’esistenza, accanto ai contenuti necessari degli statuti regionali, di altri possibili contenuti, sia che risultino ricognitivi delle funzioni e dei compiti della Regione, sia che indichino aree di prioritario intervento politico o legislativo» (sentenza n. 2 del 2004); contenuti che talora si esprimono attraverso proclamazioni di finalità da perseguire. Ma la sentenza ha rilevato come sia opinabile la “misura dell’efficacia giuridica” di tali proclamazioni; tale dubbio va sciolto considerando che alle enunciazioni in esame, anche se materialmente inserite in un atto-fonte, non può essere riconosciuta alcuna efficacia giuridica, collocandosi esse precipuamente sul piano dei convincimenti espressivi delle diverse sensibilità politiche presenti nella comunità regionale al momento dell’approvazione dello statuto.
D’altra parte, tali proclamazioni di obiettivi e di impegni non possono certo essere assimilate alle c.d. norme programmatiche della Costituzione, alle quali, per il loro valore di principio, sono stati generalmente riconosciuti non solo un valore programmatico nei confronti delle futura disciplina legislativa, ma sopratutto una funzione di integrazione e di interpretazione delle norme vigenti. Qui però non siamo in presenza di Carte costituzionali, ma solo di fonti regionali “a competenza riservata e specializzata”, cioè di statuti di autonomia, i quali, anche se costituzionalmente garantiti, debbono comunque «essere in armonia con i precetti ed i principi tutti ricavabili dalla Costituzione» (sentenza n. 196 del 2003).
Dalle premesse appena formulate sul carattere non prescrittivo e non vincolante delle enunciazioni statutarie di questo tipo, deriva che esse esplicano una funzione, per così dire, di natura culturale o anche politica, ma certo non normativa. Nel caso in esame, una enunciazione siffatta si rinviene proprio nell’art. 9, comma 2, della delibera statutaria impugnata, là dove si afferma che la Regione “tutela altresì forme di convivenza”; tale disposizione non comporta né alcuna violazione, né alcuna rivendicazione di competenze costituzionalmente attribuite allo Stato, né fonda esercizio di poteri regionali. Va così dichiarata inammissibile, per inidoneità lesiva della disposizione impugnata, la censura avverso la denunciata proposizione della deliberazione statutaria.
6. – Le censure di illegittimità costituzionale relative all’art. 39, comma 2, sono infondate.
Le argomentazioni del ricorso, infatti, muovono da una errata lettura della disposizione, che non prevede affatto il “conferimento alla Giunta di una potestà legislativa”, come afferma l’Avvocatura, con la conseguente alterazione dei rapporti fra potere esecutivo e legislativo a livello regionale. La norma in oggetto, invece, si limita a riprodurre il modello vigente a livello statale dei cosiddetti regolamenti delegati, che è disciplinato dal comma 2 dell’art. 17 della legge 23 agosto 1988, n.400 (Disciplina dell’attività di governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri). In questo modello di delegificazione, come ben noto largamente utilizzato a livello nazionale e ormai anche in varie Regioni pur in assenza di disposizioni statutarie in tal senso, è alla legge che autorizza l’adozione del regolamento che deve essere imputato l’effetto abrogativo, mentre il regolamento determina semplicemente il termine iniziale di questa abrogazione.
La stessa preoccupazione che l’adozione di regolamenti del genere possa alterare nelle materie di competenza concorrente il rapporto fra normativa statale di principio e legislazione regionale, dal momento che potrebbe invece risultare necessario che la normazione regionale sia adottata in tutto o in parte mediante legge, può essere fugata dal fatto che lo stesso art. 39, comma 2, che è stato impugnato, dispone che la legge di autorizzazione all’adozione del regolamento deve comunque contenere “le norme generali regolatrici della materia”, nonché la clausola abrogativa delle disposizioni vigenti. Sarà dunque in relazione a tale legge che potrà essere verificato il rispetto di riserve di legge regionale esistenti nei differenziati settori, con anche la possibilità, in caso di elusione di questo vincolo, di promuovere la relativa questione di legittimità costituzionale.
7. – Le censure di illegittimità costituzionale dell’art. 40 non sono fondate.
Anche in questo caso, infatti appare errata l’interpretazione della disposizione in oggetto come attributiva di “deleghe legislative” da parte del Consiglio alla Giunta regionale, poiché invece l’articolo in contestazione prevede soltanto che il Consiglio conferisca alla Giunta un semplice incarico di presentare allo stesso organo legislativo regionale, entro termini perentori, un “progetto di testo unico delle disposizioni di legge” già esistenti in “uno o più settori omogenei”, progetto che poi il Consiglio dovrà approvare con apposita votazione, seppure dopo un dibattito molto semplificato.
Ben può uno statuto regionale prevedere uno speciale procedimento legislativo diretto soltanto ad operare sulla legislazione regionale vigente, a meri fini “di riordino e di semplificazione”. La stessa previsione di cui al terzo comma dell’art. 40, relativa al fatto che eventuali proposte di revisione sostanziale delle leggi oggetto del procedimento per la formazione del testo unico, che siano presentate nel periodo previsto per l’espletamento dell’incarico dato alla Giunta, debbano necessariamente tradursi in apposita modifica della legge di autorizzazione alla redazione del testo unico, sta a confermare che ogni modifica sostanziale della legislazione da riunificare spetta alla legge regionale e che quindi la Giunta nella sua opera di predisposizione del testo unico non può andare oltre al mero riordino e alla semplificazione di quanto deliberato in sede legislativa dal Consiglio regionale.
8. – Le censure di illegittimità costituzionale relative all’art. 66, commi 1 e 2, sono fondate.
L’art. 122 Cost. riserva espressamente alla legge regionale, “nei limiti dei principî fondamentali stabiliti con legge della Repubblica”, la determinazione delle norme relative al “sistema di elezione” e ai “casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale nonché dei consiglieri regionali”, senza che si possa distinguere (come invece ipotizza la difesa regionale) fra ipotesi di incompatibilità “esterne” ed “interne” all’organizzazione istituzionale della Regione.
È vero che le scelte in tema di incompatibilità fra incarico di componente della Giunta regionale e di consigliere regionale possono essere originate da opzioni statutarie in tema di forma di governo della Regione, ma – come questa Corte ha già affermato in relazione ad altra delibera statutaria regionale nella sentenza n. 2 del 2004 – occorre rilevare che il riconoscimento nell’articolo 123 della Costituzione del potere statutario in tema di forma di governo regionale è accompagnato dalla previsione dell’articolo 122 della Costituzione, e che quindi la disciplina dei particolari oggetti cui si riferisce l’articolo 122 sfugge alle determinazioni lasciate all’autonomia statutaria.
Né la formulazione del primo comma dell’art. 66 può essere interpretata come espressiva di un mero principio direttivo per il legislatore regionale, nell’ambito della sua discrezionalità legislativa in materia.
La dichiarazione di illegittimità costituzionale del primo comma dell’art. 66 si estende logicamente anche al secondo comma della medesima disposizione, che ne disciplina le conseguenze sul piano della composizione del Consiglio regionale.
Inoltre, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la dichiarazione di illegittimità costituzionale deve essere estesa anche al terzo comma dell’art. 66 della delibera statutaria, che prevede un ulteriore svolgimento di quanto disciplinato nel secondo comma, ben potendo la dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale applicarsi non soltanto ai giudizi in via principale (cfr. sentenze n. 4 del 2004, n. 20 del 2000, n. 441 del 1994 e n. 34 del 1961), ma anche al particolare giudizio di cui all’art. 123 Cost. (cfr. sentenza n. 2 del 2004).
9. – Le censure di illegittimità costituzionale relative all’art. 82 non sono fondate.
La disciplina della Commissione di garanzia statutaria negli artt. 81 ed 82 della delibera statutaria configura solo nelle linee generali questo organo e le sue funzioni, essendo prevista nell’art. 81 una apposita legge regionale, da approvare a maggioranza assoluta, per definirne – tra l’altro – “le condizioni, le forme ed i termini per lo svolgimento delle sue funzioni”: sarà evidentemente questa legge a disciplinare analiticamente i poteri di questo organo nelle diverse fasi nelle quali potrà essere chiamato ad esprimere pareri giuridici.
In ogni caso, la disposizione impugnata fa espresso riferimento ad un potere consultivo della Commissione, da esplicarsi attraverso semplici pareri, che, se negativi sul piano della conformità statutaria, determinano come conseguenza il solo obbligo di riesame, senza che siano previste maggioranze qualificate ed anche senza vincolo in ordine ad alcuna modifica delle disposizioni normative interessate.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile il ricorso, iscritto al n. 90 del registro ricorsi del 2004, presentato dal consigliere regionale della Regione Umbria Carlo Ripa di Meana nei confronti della delibera statutaria della Regione Umbria approvata dal Consiglio regionale in prima deliberazione il 2 aprile del 2004 ed in seconda deliberazione il 29 luglio 2004;
2) dichiara inammissibile l’intervento spiegato dal consigliere regionale della Regione Umbria Carlo Ripa di Meana, nel giudizio iscritto al n. 88 del registro ricorsi del 2004, relativo alla predetta delibera statutaria della Regione Umbria;
3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 66, commi 1 e 2, della predetta delibera statutaria della Regione Umbria;
4) dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 66, comma 3, della predetta delibera statutaria della Regione Umbria;
5) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, della predetta delibera statutaria della Regione Umbria, per violazione degli artt. 2, 5, 29, 117, secondo comma, lettera l), e 123 Cost., proposte con il ricorso n. 88 del 2004;
6) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 39, comma 2, della predetta delibera statutaria della Regione Umbria, per violazione degli artt. 121 e 117 Cost., proposte con il ricorso n. 88 del 2004;
7) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 40 della predetta delibera statutaria della Regione Umbria, per violazione dell’art. 121 Cost. e del principio di separazione dei poteri, proposta con il ricorso n. 88 del 2004;
8) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 82 della predetta delibera statutaria della Regione Umbria, per violazione degli artt. 121 e 134 Cost., proposte con il ricorso n. 88 del 2004.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 novembre 2004.
F.to:
Valerio ONIDA, Presidente
Ugo DE SIERVO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 6 dicembre 2004.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA