Home » OPINIONI » Il diritto alla protezione internazionale in caso di persecuzione per orientamento sessuale: nota a Tribunale Bari del 30 settembre 2014

Il diritto alla protezione internazionale in caso di persecuzione per orientamento sessuale: nota a Tribunale Bari del 30 settembre 2014

Con l’ordinanza del tribunale di Bari del 30 settembre 2014, in commento, si ha una ulteriore  conferma  dell’orientamento della giurisprudenza italiana in materia di valutazione di credibilità del ricorrente, con la precisazione che anche in mancanza di prove specifiche le dichiarazioni rese dal ricorrente debbono essere considerate veritiere ove si sia in presenza di una serie di criteri che ne attestano l’attendibilità. Il tribunale pugliese precisa, inoltre, il favorevole indirizzo della nostra giurisprudenza con riguardo al giudizio in caso di norme incriminatrici dell’omosessualità, rilevando come le medesime debbano essere considerate quali forma di persecuzione anche in carenza di prova di una loro applicazione in concreto.

di Simone Rossi*

L’ordinanza del tribunale di Bari del 30.9.2014, che ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino nigeriano perseguitato nel proprio paese di origine in quanto omosessuale, merita un breve commento per due aspetti.

Il primo è la valutazione di credibilità del ricorrente che, nel caso di domande legate all’orientamento sessuale, riguarda anche lo stesso orientamento sessuale. Nel caso di specie sembrerebbe (il condizionale è dovuto alla scarna motivazione sul punto) che il ricorrente non abbia portato elementi di prova a supporto delle proprie dichiarazioni e che, quindi, la valutazione sia stata compiuta solo sulla base delle stesse.

E’ noto che nei procedimenti di riconoscimento della protezione internazionale vige una disciplina particolare, contenuta nell’art. 3, comma 5, D.Lgs 251/2007 (e nell’art. 4, comma 5 della direttiva 2011/95[1], cosidetta ‘Direttiva Qualifiche’), secondo la quale anche in mancanza di prove le dichiarazioni sono considerate veritiere in presenza di una serie di criteri: il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; ha prodotto tutti gli elementi in suo possesso e ha fornito idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; le sue dichiarazione sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni relative al suo caso; ha presentato la domanda prima possibile, a meno che non abbia avuto un giustificato motivo per ritardarla; dai riscontri effettuati è, in generale, attendibile.

Tali criteri non sono cumulativi, ma rappresentano l’esplicazione di una regola di valutazione della vicenda del richiedente che deve essere compiuta in modo complessivo e unitario, ‘tenendo conto dei riscontri oggettivi e del rispetto delle condizioni soggettive di credibilità contenute nella norma, non potendo lo scrutinio finale essere fondato sull’esclusiva rilevanza di un elemento isolato’ (così Cass. Civ. 8282/2013).

Il tribunale ha fatto corretta applicazione della regola sopra indicata, valutando le dichiarazioni e quindi la credibilità del ricorrente, nel suo complesso e, di conseguenza, considerando irrilevante un errore relativo ad un riferimento temporale (che la Commissione territoriale aveva ritenuto rilevante).

Il secondo aspetto di interesse dell’ordinanza barese riguarda l’effetto persecutorio delle norme penali contro gli omosessuali (in Nigeria sono puniti gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso e, in base ad una nuova legge del 2013, i matrimoni e le unioni civili – evidentemente contratti all’estero – e anche rendere pubblica la propria relazione omosessuale[2]). Il tribunale di Bari, nel solco della recente giurisprudenza di legittimità (Cass. 15981/2012) e di merito (Corte di Appello di Bari sent. 5 marzo 2013), ritiene che l’esistenza delle predette norme costituisca di per sé una forma di persecuzione, attuata dallo Stato ‘creando già sul piano normativo una discriminazione tra individui’.

Con il riferimento agli effetti discriminatori della normativa, il tribunale sussume la fattispecie persecutoria nella previsione dell’art. 7, secondo comma, lett. b) del D.Lgs 251/2007 (e dell’art. 9, par. 2, lett. b) della direttiva), secondo la quale la persecuzione può essere attuata anche mediante ‘provvedimenti legislativi […] discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio’.

Il riferimento è importante, perché generalmente la disposizione non viene considerata nel dibattito sulla rilevanza persecutoria delle norme penali, il cui punto centrale è se esse siano di per sé persecutorie o se lo siano solo se effettivamente applicate. L’attenzione viene invece posta sulla previsione dell’art. 7, secondo comma, lett. c) del D.Lgs 251/2007 (e dell’art. 9, par. 2, lett. c) della direttiva) relativa a persecuzioni attuate nella forma di ‘azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie’[3]. Questa norma però attiene all’aspetto applicativo della disposizione penale, mentre la lett. b) riferendosi ai provvedimenti legislativi discriminatori ‘per loro stessa natura’, considera gli effetti discriminatori della legge in quanto tale, obbligando l’interprete a valutare se gli effetti discriminatori siano tali da rappresentare una forma di persecuzione.

In questo senso, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nella nota sentenza del 7.11.2013, caso Minister voor Immigratie en Asiel c. X, Y, ha stabilito che l’articolo 9, paragrafo 2, lettera c), della direttiva dev’essere interpretato nel senso che il mero fatto di qualificare come reato gli atti omosessuali non costituisce, di per sé, un atto di persecuzione, essendo a tal fine richiesto che la pena sia applicata. E’ vero che il giudice del rinvio aveva posto alla Corte la questione interpretativa della norma contenuta nella lettera c) e non nella lettera b), ma la Corte ben avrebbe potuto fare riferimento a quest’ultima nel decidere su una questione che riguarda entrambe le fattipecie[4].

L’ordinanza barese è importante anche per la conferma dell’orientamento italiano, più favorevole, dopo la sentenza della Corte di Giustizia ora citata. L’esistenza di un orientamento più favorevole, si noti, non contrasta con la direttiva, che stabilisce i contenuti minimi della protezione, salva la possibilità da parte degli Stati di adottare una disciplina più favorevole (art. 3 Direttiva).

Del resto la direttiva e le norme nazionali di recepimento sono sì applicative della convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati del 1951 – che costituisce la ‘pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati’ (così il 3° considerando della direttiva) – e quindi devono essere interpretate coerentemente con la stessa, ma sono anche norme autonome che possono ampliare l’area di protezione.

E’ il caso, ad esempio, dell’alternativa di collocazione interna, criterio di applicazione della Convenzione di Ginevra secondo la quale non sussiste il fondato timore di persecuzione se il richiedente ha la possibilità di evitare il rischio di persecuzione trasferendosi in un’altra parte del paese di origine. La direttiva ha previsto per gli Stati la facoltà, non l’obbligo, di applicare tale criterio (art. 8, direttiva) e l’Italia non ha esercitato tale facoltà, così adottando una disciplina più favorevole confermata dalla giurisprudenza di legittimità e di merito [5]. E’ il caso, anche, dei requisiti per individuare un ‘particolare gruppo sociale’, che per l’art. 10, primo comma, lett. d) della direttiva, secondo l’interpretazione della CGUE (sentenza sopra richiamata), sono cumulativi, mentre per l’art. 8, primo comma, lett. d) del D.Lgs. 251/2007 sono alternativi. Ed è il caso, come detto, degli effetti persecutori delle norme penali contro gli omosessuali.

Nell’ordinamento italiano un’interpretazione estensiva dell’ambito di protezione può trovare un fondamento, oltrechè nelle scelte del legislatore in sede di trasposizione della direttiva, nel diritto d’asilo previsto dall’art. 10, terzo comma, della Costituzione, secondo il quale ‘[l]o straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge’.

E’ noto che la Corte di Cassazione, dopo l’emanazione del D.Lgs. 251/2007, ritiene che che il diritto di asilo sia interamente attuato e regolato dalle tre forme di protezione (status di rifugiato, protezione sussidiaria, permesso di soggiorno per motivi umanitari) previste da detta normativa e dall’art. 5, sesto comma, D.Lgs. 286/1998, sì che non vi sarebbe alcun margine di residuale diretta applicazione della norma costituzionale[6]. Si tratta di una interpretazione insoddisfacente della norma costituzionale, in quanto non può sfuggire che il concetto di esercizio delle libertà democratiche è ben più ampio, per limitarsi allo status di rifugiato, a quello di persecuzione che è requisito essenziale per la Convenzione di Ginevra e la direttiva qualifiche. Ma allora la portata della norma costituzionale può essere recuperata non tanto sostenendone la diretta applicazione quanto come paramentro interpretativo delle leggi ordinarie: se il D.Lgs. 251/2007 è norma attuativa dell’art. 10 Cost. allora deve essere interpretato conformemente alla norma costituzionale[7].

Queste riflessioni non sono divagazioni rispetto all’ordinanza in commento, ma prendono spunto dal ragionamento del giudice barese, secondo cui le norme penali nigeriane non consentono la libera espressione della sessualità e comportano una ‘discriminazione tra individui che non trova alcuna plausibile giustificazione nei principi regolatori dei rapporti sociali in uno Stato democratico come l’Italia’. Questa motivazione può apparire insufficiente, se valutata solo secondo il concetto di persecuzione come violazione di un diritto umano fondamentale stabilito dalla lettera dell’art. 7 del D.Lgs. 251/2007; mentre risulta del tutto congrua se il concetto di persecuzione viene interpretato prendendo in considerazione l’effettivo esercizio delle libertà democratiche tutelato dall’art. 10 Cost. Il punto di vista costituzionale permette così di superare la questione se le norme penali contro gli omosessuali violino diritti umani fondamentali e di affermare che il diritto alla protezione consegue alla violazione della libertà di espressione, della dignità e dell’uguaglianza delle persone omosessuali.

*Avvocato del foro di Verona

[1] La direttiva 2011/95 ha sostituito la direttiva 2004/83, apportando alcune modifiche alla disciplina contenuta in quest’ultima.

[2]Criminal Code Act, Chapter 77, Laws of the Federation of Nigeria, 1990. Section 214: “Any person who: (1) has carnal knowledge of any person against the order of nature; or (2) has carnal knowledge of an animal; or (3) permits a male person to have carnal knowledge of him or her against the order of nature; is guilty of a felony, and is liable to imprisonment for fourteen years.” Same-Sex Marriage (Prohibition) Act, 2013, par. 5: A person who enter into a same-sex marriage contract or civil union commit an offence and are each liable on conviction to a term of 14 years in prison.” Il Same-Sex Marriage (Prohibition) Act sanziona penalmente, tra l’altro, anche chi gestisca o frequenti club o organizzazioni gay e chi mostri pubblicamente la propria omosessualità (fonte ILGA – State Sponsored Homophobia, 2014, reperibile su www.ilga.org).

[3] Morandi N., Bonetti P., ‘Lo status di rifugiato, scheda pratica’, 2013 (www.asgi.it).

[4] Con ciò non bisogna dimenticare che la sentenza della Corte segna un grande passo avanti per la tutela dei richiedenti asilo omosessuali, in quanto diversi paesi europei non considerano sufficiente, ai fini del fondato timore di persecuzione, neppure l’esistenza di leggi penali effettivamente applicate.

[5] Secondo la Corte di Cassazione, il riconoscimento del diritto ad ottenere lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria, non può essere escluso, in virtù della ragionevole possibilità del richiedente di trasferirsi in altra zona del territorio del paese d’origine, atteso che tale condizione, contenuta nell’art. 8 della Direttiva 2004/83/CE, non è stata trasposta nel D.Lgs. n. 251 del 2007, essendo una facoltà rimessa agli Stati membri inserirla nell’atto normativo di attuazione della Direttiva (Cass. Civ. 2294/2012; Cass. Civ. 13172/2013). Per la giurisprudenza di merito: Corte d’Appello di Catanzaro, sent. 46/2014.

[6] Cass. 10686/2012.

[7] In questo senso, Acierno M., in Manuale breve di diritto all’immigrazione, a cura di Morozzo della Rocca, P. 2013, p. 70 ss.

[whohit] ROSSI trib bari 30 9 2014 [/whohit]