Surrogazione di maternità: per il Tribunale di Milano non sussiste alterazione di stato e non vi é violazione dell’ordine pubblico
28 febbraio, 2014 | Filled under genitorialità, intersezioni, italia, NEWS |
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(M. G. – L. M.) Con una importante sentenza del 15 ottobre 2013, depositata il 13 gennaio 2014 e resa nota la settimana scorsa, il Tribunale di Milano, quinta sezione penale, affronta la complessa questione della rilevanza penale delle condotte in caso di surrogazione di maternità (cd. “gestazione per altri” o GPA) effettuata all’estero da una coppia italiana eterosessuale.
Il Tribunale coglie l’occasione per affermare alcuni importanti principi che assumono rilievo anche in caso di surrogazione fatta da coppie dello stesso sesso.
La prima questione (che riguarda le coppie eterosessuali o i casi di fecondazione eterologa con ovodonazione effettuata da coppie di donne), attiene alla rilevanza penale della dichiarazione, resa dalla donna italiana, d’essere madre del bambino: in caso di GPA con ovodonazione (quando, cioè, la madre del bambino non ha effettuato la gravidanza e non ha potuto utilizzare un proprio ovulo, per cui si hanno tre donne coinvolte: la donatrice dell’ovulo, la portatrice e la madre sociale o intenzionale) la donna che dichiara d’essere “madre” non é, infatti, né madre biologica, né é la donna che ha partorito.
La seconda questione riguarda il giudizio che più complessivamente si deve trarre in materia di GPA: la surrogazione non é consentita in Italia dalla Legge n. 40 del 2004, ma come si deve valutare la GPA svolta in paesi dove é consentita?
Il tribunale meneghino esclude, innanzitutto, la sussistenza del delitto di alterazione di stato ex art. 567, secondo comma c.p., poiché lo stesso si consuma esclusivamente nel momento genetico della formazione dell’atto di nascita. Afferma infatti il Tribunale di Milano che si deve escludere la consumazione del delitto ove l’atto di nascita sia conforme alla lex loci, nella specie dell’Ucraina che impone il riconoscimento dello status di madre della madre sociale e non della portatrice o della madre biologica.
Ai fini dell’integrazione della fattispecie penale non rileva, infatti, l’eventuale contrarietà all’ordinamento italiano della successiva trascrizione dell’atto, poiché l’atto si é correttamente perfezionato nell’ordinamento straniero. La donna che afferma di essere “madre” non dice il falso perché ha detto la verità secondo le leggi dove il bambino é nato.
In secondo luogo, i giudici milanesi escludono che il divieto contenuto nella legge n. 40 del 2004 di diventare madre ricorrendo alla fecondazione eterologa rientri tra i principi fondanti dell’”ordine pubblico internazionale”. Si tratta di un’affermazione di grande rilievo. L’ordine pubblico internazionale consta di quei principi generali e fondamentali che impediscono che entrino nel nostro ordinamento atti stranieri contrari ai nostri valori fondamentali, in particolare che ledano i diritti fondamentali della persona.
Il tribunale di Milano ricorda a tale proposito la recente evoluzione della giurisprudenza che, proprio partendo dalla legge n. 40 del 2004 (che pur vietando la fecondazione eterologa in Italia, ne ammette gli effetti se svolta all’estero), ha affermato con forza che il concetto di genitorialità é incentrato sull’assunzione di responsabilità e non su meri dati biologici. La determinazione dello status filiationis in funzione dell’effettiva assunzione di responsabilità sociale nei confronti del bambino è ormai patrimonio anche del nostro ordinamento, ove, a tutela dell’interesse del bambino, è affermata la preminenza del principio di autoresponsabilità su quello di derivazione biologica quale criterio di attribuzione della paternità. Il tribunale milanese si spinge ad affermare che è, per contro, eventualmente prospettabile che sia proprio il divieto italiano di fecondazione eterologa a violare la Convenzione Europea dei diritti umani. Dichiarano, allora, i nostri giudici che il principio di diritto fondato sulla responsabilità procreativa resta il medesimo anche in rapporto ai casi di surrogazione di maternità.
Il fatto
Due cittadini italiani, A.C. e S.B., impossibilitati ad avere figli a causa di una malattia autoimmunizzante le cui terapie ostacolavano il concepimento, dopo una fase di riacutizzazione della malattia ed una remissione patologica della stessa, con il conseguente riaffacciarsi della possibilità di una genitorialità, decidono di ricorrere alla fecondazione assistita eterologa nella città di Kiev stipulando quindi un contratto di maternità surrogata con ovodonazione. Tale contratto veniva sottoscritto nel pieno rispetto della lex loci (ottemperando quindi a tutte le disposizioni normative che in Ucraina regolano l’ipotesi della fecondazione eterologa). Formato l’embrione in vitro con un corredo genetico del 50% appartenente al padre italiano e per altro 50% ad una ovodonatrice, l’embrione veniva impiantato in una madre surrogata.
Al momento del parto la madre surrogata attestava l’inesistenza di qualsiasi relazione genetica con il bambino e la stessa prestava il consenso nell’indicare i due imputati quali genitori. In ottemperanza alle disposizioni normative interne per cui la donatrice di gameti non può assumere responsabilità genitoriali, si dava luogo alla registrazione dell’atto di nascita da parte dell’ufficiale di stato civile di Kiev attribuendo la genitorialità ai coniugi italiani. L’atto quindi veniva apostillato (procedimento per il quale viene attesta l’autenticità a livello internazionale del documento). Gli imputati decidevano inoltre di simulare nei confronti delle autorità italiane una gravidanza naturale e dichiaravano per l’appunto al funzionario consolare che li interrogava su come fosse stato possibile effettuare il viaggio in aereo a Kiev al nono mese di gravidanza e solo una settimana prima del parto, che lo stato interessante non era visibile. Altresì gli imputati, passata la frontiera all’aereoporto di Kiev, prima di imbarcarsi sull’aereo, distruggevano la documentazione ucraina comprovante la maternità surrogata. I funzionari dell’ambasciata italiana a Kiev trasmettevano comunque per competenza gli atti alla Procura della Repubblica di Milano, la quale, a differenza di altre Procure già investite in altre occasioni di identico problema, procedeva a svolgere una corposa attività di indagine disponendo l’acquisizione di sommarie informazioni (pediatra, custode dello stabile ove gli imputati risiedono, dipendenti del luogo di lavoro dell’imputata), l’intercettazione telefonica delle utenze in uso agli imputati ed una consulenza tecnica genetica. Il pubblico ministero, determinatosi quindi per l’esercizio dell’azione penale, chiedeva il rinvio a giudizio ipotizzando il reato di alterazione di stato nella formazione dell’atto di nascita.
La decisione
Il tribunale, all’esito dell’istruttoria dibattimentale, conclude ritenendo che non si è verificata alcuna alterazione di stato. Questo in ragione del fatto che l’atto di nascita era redatto correttamente secondo la legge del luogo che obbliga a riportare solo il nome della madre sociale, aspetto ritenuto per la normazione ucraina necessario ed indefettibile. Tale atto, tradotto ed apostillato secondo le regole internazionali che ne determinano la validità ed efficacia sul piano internazionale veniva quindi trascritto dall’ufficiale di stato civile italiano. Solamente la falsità espressa al momento della prima obbligatoria dichiarazione al momento della nascita determina infatti la concretizzazione del reato. Poiché la legge nazionale impone al cittadino di effettuare dichiarazioni di nascita secondo la legge del luogo ove è avvenuto l’evento, i coniugi italiani altro non potevano fare che ottemperare, come è stato fatto, alla normazione ucraina in materia, ove per l’appunto non è alla madre surrogata che l’ordinamento guarda ma alla madre sociale per l’attribuzione della genitorialità. Manca quindi l’elemento oggettivo del reato ed altra condotta non vi sarebbe potuta essere se non contraria alla lex loci.
La stessa obiezione circa la violazione dell’ordine pubblico è inconferente attenendo il reato di alterazione di stato al momento genetico della dichiarazione e non alla sua trasmissione. Altresì inconferente è il riferimento all’ipotesi di violazione dell’ordine pubblico internazionale stante il panorama giuridico e giurisprudenziale europeo ove solo l’Italia, la Lituania e la Turchia vietano completamente la donazione di gameti e la fecondazione assistita eterologa.
Se di fatto quindi non è possibile procedere ex art. 569 comma 2 c.p. nei confronti dei due coniugi italiani, altra questione è la condotta di entrambi gli imputati volta a indurre in errore e simulare il carattere naturale dello status filiationis nei confronti della pubblica autorità italiana. Al fine di simulare la gravidanza, infatti, la moglie italiana indossava un cuscino di gommapiuma e affermava d’essere stata lei a mettere materialmente al mondo il bambino. Il tribunale ha proceduto tuttavia alla riqualificazione del fatto, inquadrandolo nella fattispecie sub art. 495 n. 1 c.p.. Il giudicante conclude, allora, per non doversi procedere per difetto della condizione di procedibilità, assente agli atti, mancando la richiesta del Ministero di Giustizia, ai sensi dell’art. 9 comma 3 c.p., in quanto il reato è stato commesso all’estero.
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