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Omofobia e transfobia: il trucco c’è….e si vede

di Luca Morassutto

Se il sonno della ragione genera mostri c’è da pensare che il testo unificato delle proposte di legge Scalfarotto ed altri; Fiano ed altri; Brunetta ed altri recante “disposizioni in materia di contrasto dell’omofobia e della transfobia” (C. 2452801071-A) sia il prodotto di molte ore tutt’altro che insonni.

Il testo, licenziato dalla Commissione giustizia della Camera, aveva sollevato non poche polemiche in relazione alla mancata previsione, in relazione ai reati a matrice omo-transfobica, dell’estensione dell’aggravante speciale di cui al d.l. Mancino, alla connessa procedibilità d’ufficio, nonché, fra le altre, alla previsione dell’obbligo di prestare un’attività non retribuita a favore della collettiva. Queste lacune appaiono ora colmate. Quello che oggi si può affermare è che l’Italia avrà finalmente, ma verrebbe da dire forse, una legge che colpisce i crimini commessi contro la sola delle minoranze presenti sul territorio sino ad oggi esclusa dalla peculiare tutela penale offerta dalla legge Reale-Mancino. E si badi, non è un raggiungimento da poco. Quel vergognoso dato statistico che vedeva l’Italia al 19% sulla scala del riconoscimento dei diritti civili in Europa, contro una media del 60% degli altri Paesi, può essere ora corretto al rialzo.

Lo strumento però alla nostra analisi, che, va ripetuto, riempie un vuoto, è comunque non scevro da critiche. Un primo passo è innegabilmente stato fatto ma il punto però è che discutibili equilibri politici hanno spinto la norma a divenire un involucro quasi del tutto vuoto, rendendola, per assurdo, la porta di ingresso principale di quelle condotte che si intendevano perseguire. Che si tratti di miopia giuridica piuttosto che di infelice compromesso politico o di sciagurato connubio di entrambi gli elementi, non è dato sapere. Quel che è certo è che oggi, per assurdo, le minoranze, un tempo tutelate dalla Legge Reale e dal decreto legge Mancino, appaiono quasi nude di fronte alla frusta della discriminazione.

Appare quindi necessario analizzare il testo così come approderà al Senato. Alla proposta di legge si è aggiunto l’emendamento Verini ed il subemendamento Gitti i quali recitano: “Ai sensi della presente legge, non costituiscono discriminazione, né istigazione alla discriminazione, la libera espressione e manifestazione di convincimenti od opinioni riconducibili al pluralismo delle idee, purché non istighino all’odio o alla violenza, né le condotte conformi al diritto vigente ovvero anche se assunte all’interno di organizzazioni che svolgono attività di natura politica, sindacale, culturale, saniraria, di istruzione ovvero di religione o di culto, relative all’attuazione dei principi e dei valori di rilevanza costituzionale che connotano tali organizzazioni“.

La stampa quotidiana non ha esitato a definire questo provvedimento un monstrum giuridico ed a buon diritto. La tecnica redazionale della norma fa si che questa si candidi ad essere uno dei peggiori prodotti normativi degli ultimi vent’anni in ambito penale violando i più elementari principi a cui un testo legislativo deve ispirarsi. Chi ha seguito le fasi gestatorie di questa norma si avvede subito di come sia acclarata l’ansia di creare una nicchia di non punibilità per tutelare quella parte del mondo cattolico che temeva oniriche ripercussioni sulla condotta dei propri ministri di culto. Come già ho avuto modo di dire in altro intervento, questa altro non è che la posizione strumentale di chi o non ha letto il testo di legge Reale-Mancino o con consapevole volontà mistificatoria ha inteso inoculare in sprovveduti elettori paure totalmente ed assolutamente infondate.

L’analisi del disposto legislativo ci permette di enucleare tre tipologie di condotta e correlate criticità. La prima condotta viene disegnata in negativo: “non costituiscono discriminazione né istigazione alla discriminazione” ed ha ad oggetto “la libera espressione e manifestazione di convincimenti od opinioni riconducibili al pluralismo delle idee”. E’ davvero difficile non provare un moto di imbarazzo nel dover commentare, alla luce dei principi cardine del diritto penale, il concetto di pluralismo delle idee. Prima criticità quindi: dire che il concetto offre il fianco a problemi definitori è il minimo. Appare evidente come a essere violati siano i principi di determinatezza e tassatività della norma penale sollevando fondati dubbi di legittimità costituzionale dell’emendamento. Va detto chiaramente: pluralismo delle idee è concetto sì vago e dai contorni a tal punto indefiniti da rendere possibile la riconduzione in esso di qualunque posizione individuale portando così ad una inevitabile legittimazione anche delle affermazioni più inquietanti.

I dubbi circa la legittimità costituzionale di questa parte della norma si rafforzano abbondantemente se ci si sofferma su una argomentazione più articolata.

Come si ricorderà la Legge Reale dava attuazione alla Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale approvata dall’Assemblea generale dell’ONU il 21 dicembre 1965. All’art. 3 della Legge Reale, nella sua pristina formulazione, vi era un passaggio di non poco conto alla luce dell’economia del presente intervento, testualmente: “ai fini dell’attuazione della disposizione dell’articolo 4 della convenzione …” divenuto, con il decreto legge 26 aprile 1993 n. 122, conosciuto come decreto legge Mancino: “anche ai fini dell’attuazione della disposizione dell’art. 4 della convenzione”.

Gli obblighi internazionali assunti sono quindi rintracciabili nell’art. 4 della convenzione il quale recita: “Gli Stati contraenti condannano ogni propaganda ed ogni organizzazione che s’ispiri a concetti ed a teorie basate sulla superiorita’ di una razza o di un gruppo di individui di un certo colore, o di una certa origine etnica, o che pretendano di giustificare o di incoraggiare ogni forma di odio e di discriminazione razziale, e si impegnano ad adottare immediatamente misure efficaci per eliminare ogni incitamento ad una tale discriminazione od ogni atto discriminatorio, tenendo conto, a tale scopo, dei principi formulati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dei diritti chiaramente enunciati nell’articolo 5 della presente Convenzione, ed in particolare: a) A dichiarare crimini punibili dalla legge, ogni diffusione di idee basate sulla superiorita’ o sull’odio razziale, ogni incitamento alla discriminazione razziale, nonche’ ogni atto di violenza, od incitamento a tali atti diretti contro ogni razza o gruppo di individui di colore diverso o di diversa origine etnica […]”. Anche il razzismo più becero è di per sé espressione del pluralismo delle idee (per usare l’infelice formulazione normativa) e quello che la convenzione aveva ben chiaro è che una opinione quando lede i diritti fondamentali delle persone deve essere condannata e punita.

Una riflessione, si badi, fatta propria in più riprese dalla Suprema Corte di Cassazione, non da ultimo con la sentenza numero 20508 del 13 marzo 2012 ove afferma “Un discorso, anche eventualmente apprezzabile non può autorizzare cedimenti a condotte illegali: un insulto resta tale anche se inserito in un bel ragionamento,[tanto che] il senso complessivo dell’elaborazione culturale non può redimere passaggi argomentativi in sé non assimilabili sul piano della liceità giuridica”. Quel che l’emendamento Verini fa quindi è dare un colpo di spugna a tutta la lettera a) della Legge Reale-Mancino esponendo così il testo finale a profili di illegittimità costituzionale rispetto all’art. 117 comma 1° Cost.: La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

Seconda condotta individuata dall’emendamento è l’istigazione all’odio o alla violenza. Si tratta in buona sostanza del contenuto della lettera b) della legge Reale-Mancino che quindi sopravvive, unica condotta di fatto ad oggi punibile.

Di altrettanto infelice formulazione è l’espressione: non costituiscono discriminazione né istigazione alla discriminazione le condotte conformi al diritto vigente. La riflessione dell’interprete cade sulla parola “diritto” (non è stata usata la parola legge). Di primo acchito potremmo sostanzialmente dire che questa parte della norma appare tautologica in quanto altro non fa se non dire che è lecita la condotta conforme alla legge. Di contro esiste una criticità nell’uso della parola “diritto” in questo contesto. Essa apre a quegli atti che legislativi non sono. Pensiamo all’ordinanza di un sindaco che vieti ai rom di sedersi sulle panchine di un parco perché i loro abiti non sono consoni al luogo. Ai sensi della legge Reale-Mancino si tratta di una condotta penalmente perseguibile ma l’emendamento Verini renderebbe il fatto penalmente irrilevante. Si tratterebbe infatti di una condotta riconducibile al pluralismo delle idee, e difficilmente potrebbe ritenersi integrata l’istigazione all’odio.

Se l’emendamento Verini si caratterizza per una pessima tecnica legislativa e per svariati profili di incostituzionalità, il giudizio sul subemendamento Gitti non può essere che ancor più impietoso. Così il testo del subemendamento: “ovvero anche se assunte all’interno di organizzazioni che svolgono attività di natura politica, sindacale, culturale, saniraria, di istruzione ovvero di religione o di culto, relative all’attuazione dei principi e dei valori di rilevanza costituzionale che connotano tali organizzazioni”. Anzitutto si deve capire l’uso della disgiuntiva ovvero.

Il senso di una congiunzione disgiuntiva è introdurre un’alternativa tra due parole, due concetti o due frasi, a volte escludendo uno dei due. Il primo elemento posto nell’alternativa dialettica è “la condotta conforme al diritto vigente”. Inevitabilmente quindi il subemendamento sta ponendo alla nostra attenzione quale secondo elemento una condotta che si pensa non essere conforme al diritto vigente ma che si vuole pertanto scriminare. Le altre due parole a seguire “anche se” non hanno ragione di essere apposte nell’economia del dettato normativo. Il loro valore è puramente e prettamente politico. sono cioè i trenta denari che si son dovuti pagare per il voto in aula. Il subemendamento, va detto, muove da una più che condivisibile idea ossia quella che organizzazioni di natura politica, sindacale, culturale, sanitaria, di istruzione, di religione o culto debbano anzitutto veicolare un messaggio conforme al loro statuto.

Sarebbe impensabile per esempio che una comunità ebraica non abbia degli strumenti per censurare e rimuovere un rabbino che inneggi al nazismo o che un seminario cattolico sia costretto ad accettare iscrizioni di donne sposate. Il punto è: normativamente serviva? No, non serviva. L’ordinamento italiano conosce da ben dieci anni questo concetto: “non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’eta’ o all’orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell’attivita’ lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attivita’ medesima.” (art. art. 3 comma 3 d. lgs. 216/2003).

Se in linea di principio si può capire l’afflato che ha mosso alla redazione del subemendamento, quello che emerge è che lo strumento sia sfuggito alle mani del suo creatore. Si è così data strada maestra per una massiccia depenalizzazione della discriminazione. Grazie a questo subemendamento infatti, volendo proporre un esempio paradossale, una organizzazione sanitaria potrebbe decidere di non passare farmaci gratuiti ad una particolare etnia e tale condotta, per quanto discriminatoria, non risulterebbe comunque penalmente rilevante; o ancora una organizzazione potrebbe decidere di licenziare un dipendente perchè di colore (e per quanto il licenziamento sia illegittimo e di conseguenza porti al reintegro del lavoratore unitamente ad una richiesta di risarcimento del danno non sarà comunque una condotta penalmente rilevante).

Ecco allora che lo strumento normativo uscito dal voto della Camera si presenta a noi come arma spuntata. Inizialmente il problema riguardava la sola comunità lgbt che altro non faceva che chiedere una applicazione dell’art 3 Cost. e la conseguente estensione della legge Reale-Mancino anche ai reati a matrice omofobica e transfobica. Quello che ne è risultato è una legge attualmente debole per tutte le minoranze in Italia che non trovano più, a causa di un emendamento incostituzionale e di un subemendamento a dir poco allarmante, quella tutela penale necessaria in uno Stato che attualmente non si distingue per la tutela dei diritti civili fondamentali. Sopravvive così in concreto unicamente la lettera b della legge Reale-Mancino finalmente operativa nella sua previsione anche per i reati omofobici e transfobici ma si è di contro resa inutile quella tutela volutamente anticipatoria di fatti di sangue che la lettera a) ben prevedeva.

 * Si ringrazia il dott. Marco Gattuso per il proficuo scambio di idee

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