Cassazione: viola la Costituzione il divorzio imposto per il cambio di sesso
6 giugno, 2013 | Filled under identità di genere, italia, matrimonio, OPINIONI |
di Marco Gattuso
Con ordinanza n. 14329/2013, pubblicata oggi (pres. Luccioli, est. Acierno), la Corte di Cassazione ha ritenuto che la legge n. 164 del 1982 sul mutamento di sesso sia sospetta di illegittimità costituzionale nella parte in cui prevedrebbe lo scioglimento automatico del matrimonio in caso di mutamento di sesso di uno dei coniugi.
1.Il caso
Qualche anno dopo avere contratto regolare matrimonio con rito cattolico, il marito prendeva coscienza della maturata dissociazione tra il proprio sesso biologico e l’identità di genere cui sentiva di appartenere ed intraprendeva il percorso di mutamento di sesso, in ciò coadiuvato ed assistito dalla moglie che ne condivideva le difficili scelte. Ottenuta dal tribunale di Bologna con sentenza del 30 giugno 2009 l’autorizzazione alla rettificazione di sesso, i coniugi non attivavano alcuna procedura di divorzio, intendendo restare coniugati. Ciò nonostante, scoprivano che l’ufficio di stato civile del Comune di Finale Emilia aveva annotato l’avvenuto «scioglimento del matrimonio», ritenendo che la sentenza di rettificazione di sesso anagrafico avesse prodotto automaticamente la cessazione del vincolo matrimoniale (rectius: la cessazione dei suoi effetti civili).
I coniugi ricorrevano, allora, all’Autorità Giudiziaria sottolineando la loro volontà di restare sposati ed osservando come nella specie non sussistesse alcun provvedimento giurisdizionale che avesse disposto la cessazione del loro matrimonio. Il tribunale di Modena accoglieva il ricorso sostenendo che l’ufficiale di stato civile non avrebbe il potere di sciogliere il matrimonio; la Corte d’Appello di Bologna riformava invece tale decisione ed ora la Corte di Cassazione, ritenuto che in effetti la norma imponga la cessazione del vincolo, manda gli atti alla Corte costituzionale ritenendo la norma lesiva di più articoli della Costituzione.
2. La decisione: una lesione dell’art. 29 Cost.
Secondo la Suprema Corte il “divorzio imposto” ai coniugi contro la loro volontà configura «una compressione del tutto sproporzionata dei diritti della persona legati alla sfera relazionale intersoggettiva, mediante un’ingerenza statuale diretta», ancor più grave in quanto «neanche limitata al soggetto destinatario della pronuncia di rettificazione di attribuzione di sesso, ma estesa anche al coniuge, ancor più ingiustificatamente colpito da tale interferenza». Il divorzio imposto, insomma, «determina l’eliminazione “chirurgica” di una relazione stabile e continuativa che ha dato vita ad un nucleo familiare, costituzionalmente protetto dall’art. 29 Cost.».
I giudici della Corte di cassazione sottolineano come «le scelte appartenenti alla sfera emotiva ed affettiva costituiscono il fondamento dell’autodeterminazione» e come «nella nostra cultura giuridica» le stesse si esplichino «al di fuori di qualsiasi ingerenza statuale»; sottolinea la Corte come «sul canone indefettibile del consenso è fondato in via esclusiva l’istituto del matrimonio, dalla costituzione del vincolo al suo scioglimento» di talché l’opzione normativa del divorzio imposto ex lege incide su un diritto personalissimo e finisce per minare alla radice lo stesso diritto all’identità di genere «in quanto produce l’esclusione di un’altra dimensione di pari rilievo, quella relazionale, all’interno della quale la scelta operata trova generalmente la sua più rilevante manifestazione».
Nel proporre l’eccezione di costituzionalità, la Suprema Corte rileva pertanto come la scelta legislativa di imporre ai coniugi il loro divorzio nonostante la loro contraria volontà comporti un vulnus rispetto allo stesso istituto matrimoniale (articoli 2, 29, 117 Cost. in relazione agli artt. 8 e 12 Cedu); una disparità di trattamento rispetto ad ulteriori cause di divorzio che richiedono comunque sempre la domanda di una delle parti (art. 3 Cost.); la lesione del diritto di difesa in quanto l’effetto dello scioglimento si produce automaticamente al momento del passaggio in giudicato della sentenza senza possibilità per i coniugi di opporsi in alcun modo (art. 24 Cost.).
3. I precedenti
La questione transessuale torna dunque così per la terza volta davanti alla Corte costituzionale italiana.
Una prima volta, nel 1979, alcuni giudici di merito avevano chiesto alla Corte costituzionale di dichiarare illegittima la mancanza, allora, di qualsiasi normativa a protezione dell’identità personale dei transessuali. La Corte aveva respinto il ricorso ritenendo che l’identità sessuale non rientrasse tra i diritti fondamentali protetti dall’art. 2 della Costituzione (sentenza del 12 luglio 1979 n. 98).
Solo pochi anni dopo, nel 1985, la Corte aveva cambiato radicalmente idea, respingendo un’eccezione della Corte di Cassazione (che nel corso degli anni settanta s’era sempre fieramente opposta alle aperture dei giudici di merito), riconoscendo la legittimità della scelta del Legislatore di autorizzare, con la legge n. 164 del 1982, il mutamento di sesso. La Corte aveva sottolineato come la legge del 1982 avesse legittimamente adottato «un concetto di identità sessuale nuovo», poiché aveva posto la psiche, e non il fisico, a fondamento dell’identità di genere riconosciuta dall’ordinamento (sentenza del 6 maggio 1985 n. 161).
Adesso, dopo quasi trent’anni, una nuova questione connessa all’identità di genere ed al transessualismo arriva dunque avanti al giudice costituzionale, dopo essere già passata di recente al vaglio di diverse altre Corti straniere e della stessa Corte di Strasburgo.
In senso contrario allo scioglimento coatto si sono già espresse sia la Corte costituzionale austriaca che quella tedesca (quest’ultima con sentenza del 27 maggio 2008). Nel caso della Germania, si trattava di un’anziana transessuale che insieme alla propria compagna aveva già sofferto persecuzioni sotto il regime nazista e chiedeva di potere finalmente coronare il sogno d’essere riconosciuta come donna, senza perdere la compagna con cui aveva condiviso tutta la vita. La decisione della Corte tedesca di proteggere quel matrimonio dichiarandolo garantito dall’art. 6 della Legge fondamentale che tutela la famiglia ed il matrimonio avrà un qualche peso nelle riflessioni della nostra Consulta, attesa l’indubbia autorevolezza del Bundesverfassungsgericht, il particolare approfondimento di quella decisione e, soprattutto, la grande somiglianza tra i due ordinamenti. La Corte di Cassazione sottolinea come l’ordinamento tedesco, infatti, come quello italiano – e a differenza di sempre più numerosi altri ordinamenti europei – non conosce, al momento, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma ciò non ha impedito alla Corte tedesca di ritenere illegittima l’incompatibilità del matrimonio con il cambiamento di sesso (per un commento alla decisione tedesca, v. Gattuso Matrimonio, identità e dignità personale: il caso del mutamento di sesso di uno dei coniugi).
La Corte di Cassazione rileva, infine, come di recente anche la Corte di Strasburgo abbia vagliato la questione della compatibilità con la Convenzione europea dei diritti umani della normativa finlandese che impone la trasformazione del matrimonio in una civil partnership quale effetto ex lege della rettificazione anagrafica del sesso. I giudici europei hanno stabilito che la scelta del legislatore finlandese rientra nel margine di apprezzamento del singolo Paese contraente e che non vi è violazione del diritto alla vita privata ed alla vita familiare ex art. 8 Cedu, al matrimonio ex art. 12 ed al divieto di discriminazioni ex art. 14, in quanto quel Paese prevede una civil partnership che assicura ai due coniugi che vogliono restare sposati diritti pressoché identici a quelli del matrimonio (H. c. Finlandia, decisione del 13 novembre 2012); in ogni caso i due coniugi, non soddisfatti, hanno promosso ricorso alla Grande Camera, attualmente pendente. Dunque, la Corte di Cassazione sottolinea come in un ordinamento come il nostro in cui non vi sono alternative al matrimonio, la cessazione del vincolo non appaia compatibile con la Convenzione europea dei diritti umani.
Va detto, peraltro, che nel nostro ordinamento (a differenza di quanto accadeva in Germania prima dell’intervento censore del BVG), non vi è a ben vedere alcuna incompatibilità fra matrimonio e mutamento di sesso: la persona che chiede all’Autorità Giudiziaria d’essere autorizzata ad effettuare un intervento chirurgico per cambiare sesso e che, ottenuta l’autorizzazione, esegue l’intervento, può restare tranquillamente sposata con il proprio coniuge. Nulla vieta ad una donna di restare sposata al proprio compagno che, autorizzato dall’Autorità Giudiziaria, abbia mutato sesso e sia diventata fisicamente donna. In verità nulla vieta ad una donna di sposare un’altra donna, che sia divenuta tale dopo avere eseguito l’intervento di cd “riassegnazione” del genere, se quest’ultima risulti ancora uomo sui documenti. L’incompatibilità si manifesta solo se, una volta assunti i nuovi caratteri sessuali, la persona chieda di rettificare il proprio nome ed il sesso all’anagrafe (con ciò esercitando il proprio diritto costituzionale alla identità personale).
E’ solo allora, infatti, che insorgerebbe una incompatibilità tra la rettificazione anagrafica ed il matrimonio. L’esercizio congiunto, dunque, di due diritti fondamentali – identità personale e matrimonio – sarebbe, assai peculiarmente, incompatibile.
4. Divorzio imposto e matrimonio tra persone dello stesso sesso
L’approfondita pronuncia della Corte di cassazione sottolinea in più passaggi come il mantenimento del vincolo coniugale dopo la rettificazione di sesso non incida in alcun modo sul contenuto tradizionale del matrimonio né determina alcuna apertura verso il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Ricorda la Corte come tanto la Corte costituzionale tedesca che quella austriaca abbiano pronunciato sull’illegittimità delle norme che prevedevano l’incompatibilità tra prosecuzione del matrimonio e rettificazione di sesso, decidendo in Paesi che non prevedono il matrimonio tra persone dello stesso sesso e sottolineando come ciò non comporti in alcun modo, attesa la diversità di situazione, un’apertura alla possibilità per due persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio.
Ciò detto, la decisione della Corte di cassazione contiene alcune affermazioni di principio di grandissima rilevanza con riguardo alla condizione giuridica delle persone omosessuali e con riguardo al matrimonio tra persone dello stesso sesso.
La Corte di Cassazione ripropone difatti con maggiore determinazione alcune affermazioni già contenute nella nota sentenza n. 4184 del 2012, precisandole e segnalandole come principi ormai assodati: «la scelta di estendere il modello matrimoniale anche ad unioni diverse da quella eterosessuale è rimessa al legislatore ordinario» e «non sussiste un vincolo costituzionale (art. 29 Cost.) o proveniente dall’art. 12 della CEDU in ordine all’esclusiva applicabilità del modello matrimoniale alle unioni eterosessuali (Corte Cost. N. 138 del 2010; cedu caso Schalk e Kops» (rectius: Schalk e Kopf).
La Corte inoltre afferma a chiare lettere che «il carattere dell’eterosessualità non costituisce più, di conseguenza, un canone di ordine pubblico né interno (Corte Cost. n. 138 del 2010; Cass. 4184 del 2012) né internazionale (CEDU sentenza Schalk e Kopf)».
Tali affermazioni appaiono vieppiù incisive nella misura in cui sono ricondotte dalla Corte di Cassazione alla stessa pronunzia della Corte costituzionale n.138 del 2010, a sottolineare che l’affermata libertà di scelta del Legislatore è compatibile ed anzi deriva da quanto detto dalla Consulta nel 2010.
5. Un’eccezione inammissibile?
La scelta della Corte di Cassazione di sollevare l’eccezione parrebbe dunque ineccepibile.
Si deve, tuttavia, dire che la decisione della Cassazione, a parere di scrive, non convince del tutto.
Se l’interpretazione della legge ordinaria data dalla S. C. è apparsa ad essa stessa incostituzionale, la Corte avrebbe difatti avuto l’obbligo di verificare la possibilità di una diversa interpretazione della legge ordinaria in senso costituzionalmente orientato, cosa che nella specie era certamente possibile, posto che dall’entrata in vigore della legge del 1982 e, soprattutto, dopo la riforma del divorzio del 1987, una parte della dottrina (forse persino maggioritaria dopo il 1987) aveva ritenuto che la permanenza del matrimonio dopo la rettificazione anagrafica fosse possibile (salvo domanda dei coniugi di divorzio), ed anzi fosse addirittura imposta dalla lettera della norma del 1987.
Poiché la lettera della norma del 1987 inserisce il passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di sesso nell’elenco dei casi in cui il divorzio «può essere domandato da uno dei coniugi» (l’art. 7 della L. 6 marzo 1987 n. 74 aggiungeva, così, la lettera «g» all’art. 3, II comma L. 1° dicembre 1979 n. 898) pare in effetti richiedere una procedura di divorzio su istanza di parte. La dottrina si divideva difatti tra chi sosteneva che essendo tale norma successiva nel tempo non v’erano margini per ritenere prevalente l’art. 4 della legge del 1982 (che stabiliva che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso «provoca» lo scioglimento del matrimonio) e chi riteneva di potersi discostare da un’interpretazione letterale (al fine di liquidare il vincolo matrimoniale anche contro la volontà degli sposi), discostandosi, expressis verbis, dalla lettera della norma e facendo appello a complesse ricostruzioni esegetiche (fondate, in particolare, proprio su un preteso principio costituzionale di necessaria diversità di sesso nel matrimonio).
Nella complessa ed articolata ordinanza, la stessa Corte di Cassazione riconosce che subito dopo l’entrata in vigore della legge del 1982, la dottrina «pressoché unanimemente» (dunque non tutta) riteneva che lo scioglimento fosse automatico e dopo la riforma del 1987 la «prevalente dottrina» aveva escluso un implicito effetto abrogativo del detto automatismo. Dunque, la S.C. ammette che un orientamento dottrinario (a dire il vero non così minoritario) già da tempo aveva sottolineato la mancanza di effetti automatici, magari non condividendo e stigmatizzando la scelta (o l’imperizia) del legislatore. Sorge allora la domanda: se la Cassazione ritiene oggi che l’interpretazione che impone l’automatismo sia costituzionalmente illegittima, non avrebbe dovuto interpretare la norma secondo la sua lettera, rilevando che il divorzio «può essere domandato da uno dei coniugi», con esegesi coincidente con una lettura costituzionalmente orientata? Ad avviso di chi scrive, ne potrebbe conseguire adesso la dichiarazione di inammissibilità dell’eccezione da parte della Corte costituzionale, non apparendo che l’interpretazione delle norme impugnate data dal giudice remittente sia obbligata.
(per un approfondimento v. Gattuso Matrimonio, identità e dignità personale: il caso del mutamento di sesso di uno dei coniugi).
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[…] la Corte costituzionale, cui la Cassazione ha inviato gli atti. Nell’attesa, segnalo il commento di Marco Gattuso sul sito Articolo29.it, fonte ricchissima per chiunque voglia occuparsi di temi LGBT. Sembra […]
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