Tribunale di Brescia, sentenza del 15 ottobre 2004

Svolgimento del processo

Con ricorso ex artt. 1 ss. l. n. 164/1982, depositato il 16 giugno 2004, E.S. adiva questo tribunale esponendo che:

– nonostante fosse nato con i segni esteriori del sesso maschile, sin da bambino avvertiva repulsione per il suo sesso anatomico;

– nel 1998 si fece applicare delle protesi mammarie, percependo una progressiva tensione psichica verso l’identità femminile;

– sempre nel 1998 ricorse a questo tribunale allo scopo di farsi autorizzare al trattamento chirurgico di conversione del sesso, ma in esito ad una psicoterapia decise di tralasciare il giudizio;

– il 19 marzo 2004, dopo essere stato diagnosticato come “transessuale naturale”, si sottopose ad intervento chirurgico di riattribuzione di sesso a Bangkok, pur mancando l’autorizzazione giudiziale.

Domandava quindi la rettificazione di attribuzione di sesso; poiché era stato registrato dall’ufficiale di stato civile con il nome di E., domandava che il relativo atto di nascita venisse rettificato.

La causa, istruita con prove documentali, veniva assunta in riserva all’udienza 15 ottobre 2004; il pubblico ministero non si opponeva alla domanda.

Motivi della decisione

La domanda viene respinta, perché nel nostro ordinamento quando l’adeguamento dei caratteri sessuali richiede il trattamento medico-chirurgico, è inderogabilmente necessaria l’autorizzazione giudiziale preventiva (art. 3.1, legge n. 164/1982).

Tale autorizzazione non è ritenuta necessaria da diversi giudici di merito, sul frequente rilievo che essa non costituisce una condizione di proponibilità o procedibilità della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso;

non si tratterebbe cioè di un presupposto processuale o di una condizione dell’azione. Si osserva che, siccome l’art. 1 l. cit. condiziona la rettificazione alle sole intervenute modificazioni dei caratteri sessuali, a prescindere dalle modalità con cui tali modificazioni sono state ottenute (e quindi anche senza autorizzazione), l’autorizzazione stessa diverrebbe meramente facoltativa. Se dunque si è conseguito l’adeguamento senza autorizzazione, tale difetto sarebbe irrilevante, e semplicemente surrogabile da un controllo a posteriori sull’effettiva sussistenza delle condizioni di rettificazione.

L’interpretazione non viene condivisa da questo tribunale, poiché contrasta sia con la lettera dell’art. 3, sia con la ratio legis. Come osservato da autorevole dottrina, la norma posta dall’art. 3 è assai chiara: quando l’adeguamento dei caratteri sessuali (con la conseguente eliminazione della dissociazione tra sesso fisico e psichico) deve essere operato in via chirurgica, è necessario essere preventivamente autorizzati dal giudice, addirittura con sentenza. La legge non ha trascurato le ipotesi di interventi eseguiti senza autorizzazione, ma se ne è esplicitamente occupata solo con riferimento al periodo precedente la sua entrata in vigore (art. 6). Il legislatore dunque non si è accontentato di una verifica giudiziale da farsi anche a posteriori; non ha legittimato in alcun modo una sorta di autorizzazione implicita possibile anche ex post, sul modello degli atti di assenso rilasciati dalla pubblica amministrazione per legittimare a posteriori una certa attività. Nella legge 164/1982 non vi è spazio per surrogati o equipollenti di tale autorizzazione; tanto ciò vero che l’autorizzazione deve essere data addirittura con sentenza, in esito ad un procedimento autonomo da cui non si può prescindere ogniqualvolta venga in gioco la necessità di un intervento medico-chirurgico.

L’adeguamento del sesso morfologico a quello psicologico costituisce per il soggetto gravato da tale dissociazione il momento decisivo di realizzazione della sua personalità, e le relative motivazioni sono avvertite sul piano soggettivo con grande intensità. Si è giustamente osservato, però, che non si può ridurre la portata del controllo ad una mera ricognizione circa l’esistenza di un impulso psichico incoercibile. L’interesse in gioco ha un respiro amplissimo, va considerato anche sul piano oggettivo e come tale richiama quali parametri normativi di riferimento una pluralità di disposizioni.

Nell’ottica che valorizza il momento patologico della dissociazione tra sesso anatomico e profilo psichico, rileva anzitutto il necessario rispetto dell’art. 5 c.c. (Atti di disposizione del proprio corpo); deve infatti vagliarsi l’effettiva sussistenza dello scopo terapeutico, quale fattore che giustifica e scrimina la profonda lesività insita nel trattamento di conversione del sesso (castrazione con successiva creazione di una pseudovagina). Sempre in questa prospettiva, il controllo mira a scongiurare situazioni di pericolo per l’interessato, in ragione, per esempio, dell’età o di sue particolari condizioni di salute.

Tale controllo ha inoltre la valenza di un giudizio prognostico sull’effettiva idoneità dell’intervento a rimuovere la dissociazione psico-sessuale lamentata dall’interessato, magari alla luce delle sue peculiari propensioni psichiche. Ancora, con riguardo a talune persone anziane o di salute cagionevole, potrebbe riscontrarsi l’adeguatezza di una terapia ormonale ai fini che interessano.

Come rilevato da autorevole dottrina, le esigenze tenute presenti dal legislatore nel configurare il preventivo controllo giudiziario sul trattamento chirurgico, e quindi sul fenomeno del transessualismo, trovano fondamento nella Costituzione. La stessa applicazione dell’art. 5 c.c. si configura in termini diversi da quelli tradizionali, ad una lettura costituzionalmente orientata della norma stessa; ciò perché verrebbe in gioco, prima ancora del fine terapeutico, la necessaria osservanza dei limiti imposti dal rispetto della persona umana (art. 32.2 Cost.); sono limiti insuperabili, che riflettono l’inderogabile esigenza di garantire il rispetto della dignità della persona. Si è quindi osservato che l’insopprimibile aspirazione ad eliminare la dissociazione tra il sesso morfologico e quello psicologico, per la consapevolezza di appartenere ad un sesso diverso da quello anatomico, costituisce un aspetto decisivo dello sviluppo della personalità (artt. 2 e 3.2 Cost.). L’interessato ha l’occasione di realizzare appieno lo svolgimento della sua personalità, secondo un’aspirazione rappresentata dalla Costituzione anche con riguardo alla dimensione sociale dell’individuo;

sicché sotto questo profilo l’interesse che muove il transessuale ha una valenza anche oggettiva, che trascende la sua sfera personale per riflettersi nella dimensione sociale. Anche nella prospettiva di tutela della salute (art. 32.1 Cost.), intesa non solo come assenza di patologia ma come condizione di reale benessere psico-fisico, la fase autorizzativa assume giocoforza un ruolo essenziale nella logica della legge; infatti potrebbe pur sempre emergere che la conversione chirurgica del sesso non sia concretamente idonea a garantire quell’effettivo stato di benessere psico-fisico che giustifica l’intervento medico. Il legislatore dunque, per l’ampiezza ed incisività del controllo che deve preludere all’intervento di modificazione artificiale del sesso, ha voluto che l’effettiva necessità di tale trattamento sia preventivamente vagliata dal giudice. È vero che, su un piano generale, la rettificazione postula semplicemente le intervenute modificazioni dei caratteri sessuali (art. 1); ma quando tali modificazioni devono essere operate in via medico-chirurgica è necessario il controllo preventivo nelle forme tassativamente previste. Qualche giudice di merito ha ritenuto che l’espressione “quando risulta necessario” (riferita all’autorizzazione all’intervento chirurgico), debba essere intesa nel senso che tale necessità non sussisterebbe in caso di intervento eseguito senza autorizzazione.

Se si considera la ratio della normativa in esame, soprattutto secondo la lettura costituzionalmente orientata recepita da questo tribunale, l’interpretazione proposta si rivela assai fragile, quasi elusiva della lettera e dello spirito della legge.

Non vi sono i presupposti processuali per la pronuncia sulle spese di lite.