Tribunale di Milano, sezione XI penale funzione di Giudice del riesame, ordinanza del 15 gennaio 2008

Nella persona dei magistrati:

Dott. Guido Piffer Presidente est.

Dott.ssa Bruna Rizzardi Giudice

Dott.ssa Alessandra Bassi Giudice

a scioglimento della riserva di cui all’udienza in camera di consiglio in data 15 gennaio 2008 ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel procedimento instaurato ai sensi dell’art. 310 c.p.p. dal PM di Monza nei confronti di:

V.F.F. nato a Milano l’–omissis–, res.te in Monza, via Iseo n. 6

avverso l’ordinanza del GIP di Monza in data 28.11.2007, con la quale veniva rigettata la richiesta del PM di applicazione della custodia in carcere in ordine:

al reato di cui agli artt. 575, 577 co. 1 n. 1 c.p., per avere cagionato la morte del figlio, V.G., attingendolo con svariati colpi d’arma da fuoco esplosi con la pistola Beretta cal. 7,6 che regolarmente deteneva; in Monza il 25.11.2007.

Motivi

In data 25.11.07 V.F. veniva tratto in arresto in flagranza di reato per avere volontariamente cagionato la morte del figlio G., sparandogli contro vari colpi di arma da fuoco con la pistola da lui legittimamente detenuta: era lo stesso V.F. a telefonare verso le 14,15 alla polizia, riferendo di avere appena ucciso il figlio. Prontamente intervenuta presso l’abitazione del richiedente, la polizia trovava quest’ultimo, il quale consegnava la pistola utilizzata per l’omicidio e, nel bagno, il cadavere di V. G. (n. nel 1978). Nell’abitazione era presente anche la madre della vittima, Villa Ausilia. Nell’immediatezza del fatto V. F. riferiva che aveva ucciso il figlio (risultavano esplosi 12 colpi con esaurimento di due caricatori), perché esasperato dai continui comportamenti aggressivi di questi, affetto da anni da patologia border-line, per la quale era attualmente in cura presso il CPS di Monza.

Nell’immediatezza dei fatti venivano assunte le dichiarazioni della madre (Villa Ausilia) e dei fratelli della vittima (V. F. e A. M.) dalle quali emergeva che: i rapporti dei familiari con la vittima erano stati sempre tesi fin dal momento in cui aveva raggiunto l’età di 15 anni, quando gli era stato diagnosticato un disturbo della personalità “borderline” che lo portava a continui contrasti con i genitori, sfociati anche in aggressioni fisiche al padre; il ragazzo era poi uscito di casa andando a risiedere nella zona di Crema; successivamente era andato a lavorare in Francia, ma tale esperienza si era poi interrotta e nel 2004 si era trasferito in America dove in seguito, fallite ancora una volta le esperienze lavorative, aveva cominciato a vivere in una situazione di emarginazione, sperperando anche i soldi che il padre gli aveva mandato per pagarsi il viaggio di rientro in Italia; da ultimo il padre – contro la volontà degli altri familiari – nel mese di settembre aveva acconsentito a che G. ritornasse in Italia, dando a tal fine il consenso al Consolato italiano che aveva anticipato i soldi per il rientro.

Da dette dichiarazioni emergeva che la circostanza immediatamente scatenante l’azione omicidiaria era stato un contrasto sorto tra G. ed il padre: quel giorno G. si era alzato tardi e si era verificato dapprima un alterco con il padre perché G. voleva prendersi un telefonino della sorella; poi G. aveva iniziato ad offendere i genitori; quindi, mentre si faceva la doccia, era sorto un nuovo contrasto con il padre perché G. aveva iniziato a bestemmiare: all’uscita dal bagno era stato ucciso dal padre con vari colpi sparati da una pistola legittimamente detenuta.

Lo stesso giorno 25.11.07 il PM procedeva all’interrogatorio dell’indagato, il qual rendeva piena confessione (confermando successivamente tali dichiarazioni in sede di interrogatorio di garanzia al g.i.p.).

In tale sede l’indagato definiva immediatamente l’omicidio del figlio come “l’epilogo di 15 anni di sofferenze familiari derivanti dal disturbo dì personalità di (mio figlio) G.”; ripercorreva quindi il tormentato rapporto con il figlio, partendo dalla prima diagnosi di disturbo della personalità (“quando aveva mi pare 16 anni”), fino al ritorno di G. dagli Stati Uniti, avvenuto il 25.9.2007, due mesi prima della sua morte; narrava del disagio della famiglia nel convivere con G., per via della sua aggressività verbale e talora anche fisica e dell’incapacità di G. di gestirsi, con particolare riferimento al piano economico; a far fronte a tale situazione non erano servite le cure prestategli dal CPS di Monza. Queste le sue dichiarazioni con riferimento agli ultimi due mesi di vita del figlio:

“Questi ultimi due mesi, da quando è tornato dagli Stati Uniti d’America a ieri, ci hanno ricalato nel clima che c’era in casa subito prima che partisse per gli Stati Uniti; violenze verbali continue nei confronti miei e di mia moglie; incapacità di gestirsi da parte di G. che aveva iniziato, come allora, a dormire fino a tardi e a dimostrarsi irascibile qualora gli si chiedesse qualcosa; se non lo svegliavo io tutte le mattine, lui non si sarebbe sveglialo prima di mezzogiorno; io cercavo di chiamarlo e di fargli assumere delle responsabilità, anche perché doveva ancora pagare il debito che aveva contratto con il Consolato – mi pare sui 600 euro – per tornare in Italia; debito che io mi ero al momento rifiutato di pagare, sia perché gli avevo a luglio dato a fondo perduto 1.100 euro, sia, soprattutto, perché pensavo fosse giusto e utile per lui lavorare per pagare questo debito; avere uno scopo, anche se limitato a quello; preciso che già in passato aveva lasciato dei debiti che avevo coperto io per scoperti di conto corrente e altro (in tutto circa 1.000 euro); oltre a questo c’era il fatto che aveva distrutto 3 auto, una in un incidente, una perché non la curava, l’altra perché l’aveva abbandonata senza ripararla; e c’erano poi le multe che prendeva e che ovviamente pagavo io; ragioni queste, per le quali ho deciso di non dargli alcuna auto; preciso che come nucleo familiare abbiamo la disponibilità di due automobili: una vecchia che ha 15 anni e un’altra che utilizza mia moglie prevalentemente per fare la spesa; mia moglie è casalinga.

Preciso che mia figlia M. (in realtà figlia del precedente matrimonio di mia moglie, ma che per me è una figlia, avendo vissuto con me fin da quando aveva 3 anni), saputo che G. sarebbe rientrato a casa, ha deciso di trasferirsi dal padre (con il quale siamo in buoni rapporti) ancorché questo le comporti un sacrificio poiché lavora all’IBM di Milano; ieri M. era a Torino ma non perché vi lavori stabilmente; io e mia moglie eravamo arrivati al punto di avere paura di svegliarci la mattina, consapevoli che avremmo dovuto affrontare un’altra giornata di offese da parte di G..

Preciso che G. da quando era rientrato in famiglia a settembre di quest’anno, si era limitato a offenderci verbalmente (soprattutto noi, raramente gli altri miei figli), ma non aveva mai usato violenza a me o mia moglie.

Venendo a ieri mattina, io e mia moglie eravamo usciti la mattina abbastanza presto per la spesa; quando siamo rientrati verso le 12,30, G. si era appena alzato; al che lo abbiamo rimproverato e lui ha cominciato a dire le solite scuse, che non aveva la sveglia, che dovevamo svegliarlo noi; subito dopo ha cominciato a insultarci dicendo che eravamo dei mentecatti, dicendoci “vaffanculo” e altro, nel contempo rovesciando una pentola che era sui fornelli; il clima non è migliorato durante il pranzo che seguiva; dopo pranzo, lui è andato a fare la doccia dicendo che dopo sarebbe uscito; in bagno l’ho sentito bestemmiare a voce alta e allora l’ho ripreso dicendogli che alla mamma dava fastidio (preciso che mia moglie è osservante, io non tanto) e gli ho ripetuto che se andava avanti così l’avrei sbattuto fuori di casa; lui mi ha risposto dicendo che se volevo potevo fargli io la valigia e metterla fuori sul ballatoio; io gli ho detto che sarebbe andato a dormire alla “San Vincenzo” e lui ha risposto che potevo fornirgli io l’indirizzo della San Vincenzo.

Io allora, non c’ho più visto, sono andato di là, ho preso la pistola e gli ho sparato: non so perché proprio in quel momento mi siano ceduti i nervi, quasi sentissi di non poter più sopportare una situazione di questo genere; certamente il mio gesto non è dipeso da quello scambio di battute con mio figlio, né dall’ultimo litigio, ma dall’accumulo di sensazioni negative, di impossibilità di migliorare una situazione, di questi 15 anni (…)”.

Con ordinanze in data 28.11.07 il g.i.p. di Monza convalidava l’arresto dell’indagato, ma rigettava la richiesta del PM di applicazione della misura della custodia in carcere disponendo la scarcerazione dell’indagato. Nel provvedimento il g.i.p. premetteva che la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato appariva pacifica, in quanto desumibile:

– dalla sua stessa confessione, ampiamente particolareggiata e complessivamente verosimile, oltre che sostanzialmente “in linea” con quanto emerso dall’audizione degli altri familiari, sentiti come persone informate sui fatti;

– dal contesto familiare descritto da tutte le persone informate sui fatti, dal quale si desume l’oggettivo effetto logorante della serenità familiare causato dalla condotta della persona offesa Gabriele Vescovini: cfr. in particolare le dichiarazioni rese da M.R.A., figlia di primo letto della madre della p.o., e soprattutto da F.V., fratello di G., al quale ascrive il fatto che dal momento del rientro in casa “la pace familiare era terminata”;

– dalle dichiarazioni di Ausilia Villa, moglie di F.F.V., la quale era l’unica persona in casa al momento dei fatti, oltre al marito e al figlio G., e che ha riferito di avere visto il marito presso la porta del bagno con la pistola in pugno, di averlo sentito dire “adesso siete liberi almeno voi”, e che il proprio figlio G. era steso a terra sul pavimento del bagno

Osservava tuttavia il g.i.p. che nel caso di specie non sussisteva l’esigenza cautelare di cui all’art. 274 lett. c) c.p.p. (unica astrattamente prospettabile), avuto riguardo innanzitutto alle motivazioni del fatto, che appariva come l’epilogo di una situazione avvertita dall’indagato come non più sostenibile a causa dei comportamenti tenuti dal figlio fin da quando aveva 12 anni, sicché da ultimo la situazione era diventata invivibile per tutti i membri della famiglia:

Come evidenziato dal Pubblico Ministero nella sua richiesta, la persona sottoposta ad indagini ha scaricato all’indirizzo di G.V. ben dodici colpi d’arma da fuoco, dopo avere previamente predisposto due caricatori della pistola semiautomatica Beretta da lui posseduta da trent’anni inizialmente per motivi di difesa, e utilizzata, anche di recente, per pratica di tiro sportivo (l’ultima volta a luglio del presente anno, come dichiarato all’udienza di convalida).

Tali circostanze sono indubbiamente rilevanti ai sensi dell’art. 274 lett. c) c.p.p. Si tratta di verifìcare se il contesto complessivo dell’azione non comporti una diversa valutazione.

F.F.V. è diplomato in ragioneria. È stato funzionario di banca per tanti anni; attualmente è in pensione; casa di proprietà e seconda casa sul lago; nulla sul suo certificato penale. Paradossalmente, una persona “tranquilla”.

Occorre allora indagare sull’atmosfera familiare, costituente l’antefatto del reato in esame, e descritta dall’indagato nei seguenti termini: “devo anche dire che ormai la nostra non era più vita io e mia moglie quando eravamo fuori avevamo paura di tornare a casa”, e ancora: “io e mia moglie eravamo arrivati al punto di avere paura di svegliarci la mattina, consapevoli che avremmo dovuto affrontare un’altra giornata di offese da parte di G.”.

In effetti G.V. viene descritto dalla madre Ausilia Villa come un soggetto borderline, con comportamenti anomali fin da bambino, e che risultato soggetto “a rischio” già a 15 anni di età è stato (inutilmente) seguito tramite cure private; di fatto G., finito il liceo linguistico, non avrebbe maturato esperienze lavorative significativamente lunghe. Nel 2004 si è trasferito a Orlando (Florida) per lavorare presso la Disneyworld, lasciando però anche quel lavoro, per trasferirsi a New York, ove avrebbe lavorato come cameriere e insegnate di italiano; per rientrare in Italia, nel 2007, ha ricevuto il denaro necessario dal padre, ma lo avrebbe speso per futili motivi, tant’è che si è rivolto all’ambasciata per rientrare. Prosegue Ausilia Villa esponendo che la violenza di G. era più verbale che fisica, e che quest’ultima si esprimeva rompendo gli oggetti di casa; le uniche aggressioni, di carattere episodico, risalgono all’età in cui G. aveva 17/18 anni.

Secondo M.R.A., figlia di primo letto di Ausilia Villa, la vita familiare fu tranquilla fino a quando G. compì 12 anni: età in cui cominciò a tenere comportamenti anomali, tali da lasciare presumere problemi psicologici. Verso i 18 anni, G. aggredì il padre, causandogli la rottura di due costole; in genere in quel periodo il comportamento in famiglia era pessimo. Con riguardo al periodo successivo al rientro in Italia (prima del quale la donna decise di andare a vivere fuori casa, “anche” per motivi di spazio, con il consenso dei genitori), si ricreò una situazione definita come solita: “aggressioni pesanti, verbali, a papa e mamma, umiliazioni nei loro confronti, offese, ecc.”.

L’aggressività della p.o. viene evidenziata anche dal fratello F., questi l’ha esemplificata narrando un episodio familiare, nel corso del quale G. avrebbe detto a suo padre che era “un fallito che aveva sempre vissuto nella bambagia”, e alle comprensibili rimostranze aveva reagito con aggressività (“volete che vi mando all’ospedale tutti quanti ?”).

L’episodio “scatenante” sarebbe accaduto la domenica mattina del 25. Racconta Ausilia Villa che G. svegliato dal padre verso le 12.30, si presentava in cucina, dicendo che il cellulare prestategli dalla sorella era suo; la madre gli rammentava che doveva invece restituirlo, perché lo teneva di scorta, ma G. rispondeva in malo modo, con fare arrogante; ripreso dal padre, G. replicava che i due genitori erano degli interdetti.

Dopo pranzo, consumato con G., F. e i due genitori, F. usciva di casa, e G. andava a farsi una doccia. Prosegue Ausilia Villa raccontando che il marito, con voce arrabbiata, diceva “G., non bestemmiare”: poco dopo sentiva i colpi (dalla donna non immediatamente individuati come colpi di pistola).

Risulta quindi sufficientemente chiaro il peculiare contesto di commissione del fatto; ciò consente di ritenere che se vi è pericolo di commissione di nuovi reati, questi potranno astrattamente essere indirizzati nei confronti di eventuali corresponsabili della situazione familiare descritta.

Rilevava infine il g.i.p. che non erano nemmeno astrattamente individuabili possibili soggetti passivi di eventuali futuri comportamenti criminosi dell’indagato; in particolare né gli amici di Crema del figlio, né i responsabili del CPS di Monza:

Scartato il riferimento agli “amici di Crema” del figlio, data l’estrema genericità del riferimento, come pure l’epoca risalente del soggiorno in tale città (anteriore all’esperienza americana della p.o., iniziata nel 2004 circa), l’unico pericolo che si potrebbe forse paventare riguarda responsabili del Centro psico sociale di Monza, e del medico che avrebbe dovuto seguire G. V., specificamente individuato dell’indagato (che pure si è assunto l’integrale responsabilità del fatto) sia in sede di interrogatorio del P.M. che nel corso dell’udienza di convalida.

Ciò posto, F.F.V. è persona che sa usare le armi e le ha usate, in un modo caratterizzato peraltro da una certa freddezza (la predisposizione di due caricatori, l’avere chiamato egli stesso subito dopo il fatto il 113).

Non si ritiene però che si tratti di persona in grado di commettere nuovi delitti con uso di armi; non si ritiene persona capace di imbracciare un’altra volta un’arma (che dovrebbe peraltro reperire) per cercare vendetta nei confronti di altre persone da lui ritenute responsabili della vicenda familiare, né vi sono elementi concreti in tale senso. “Adesso .siete liberi almeno voi”, ha commentato egli stesso il proprio gesto dopo l’accaduto, come ha detto la moglie. La vicenda, per l’indagato, pare definitivamente compiuta.

Avverso l’ordinanza di rigetto della richiesta di misura cautelare ha proposto appello il PM, chiedendo la riforma della stessa e l’applicazione della misura della custodia in carcere.

Nell’atto di impugnazione il PM premette una sintesi delle dichiarazioni rese dall’indagato, quindi evidenzia i tratti positivi della personalità di V.G. ed osserva che lo stesso era omosessuale – condizione questa non accettata dai genitori – ma esclude in proposito decisamente che il delitto sia qualificabile come “omofobo” (tesi sostenuta da taluni esponenti politici sugli organi di stampa); il PM così conclude in ordine alle motivazioni dell’omicidio: “le ragioni dell’omicidio paiono allo scrivente più da rinvenire nell’incapacità dei genitori di accettare il figlio che nelle condotte violente verbali e fisiche”. Questi i passi salienti dell’atto di impugnazione:

E, tuttavia, la figura di G. non emergeva certamente fin dal primo momento (e tanto più ora, con il prosieguo delle indagini) come quella di una persona priva di qualità, seppure dalla personalità disturbata.

Persona in grado, comunque e a modo suo, un modo non accettato dai genitori, di condursi autonomamente e certamente non privo d’intelligenza e capacità di relazionarsi con gli altri, soprattutto al di fuori del nucleo familiare.

G.V. parlava infatti correntemente più lingue straniere, tra cui l’inglese e il francese, delle quali impartiva anche delle lezioni private.

G.V. sia pure con occupazioni prive di stabilità, mutando spesso lavoro, per lo più per sua scelta (insofferente a ogni rapporto autoritario), ha quasi sempre lavorato, salvo per un periodo di 6 mesi.

G.V. circa 4 anni fa, sfruttando l’opportunità di poter lavorare per la DISNEY, per la quale aveva già lavorato in Francia alcuni mesi, si trasferiva a Orlando negli Stati Uniti. Presto, però, abbandonando il sicuro reddito, si trasferiva prima a New York e poi anche a Whashington (le stesse informazioni in possesso del padre e degli altri familiari parrebbero al riguardo di carattere frammentario), iniziando una vita che i familiari definiscono sregolata, ma riuscendo comunque a non chiedere, se non per il suo rientro e in precedenza in un paio di occasioni, soldi alla famiglia, sempre – si direbbe dalle stesse dichiarazioni del padre – riuscendo a cavarsela da solo, anche grazie ad amici e conoscenti disposti a ospitarlo.

Di fatto poi, spesi per altro i 1.100 euro che il padre gli aveva messo a disposizione su una carta pre-pagata per acquistare il biglietto di ritorno in Italia, rientrava in Italia rivolgendosi al Consolato Italiano di Whashington che gli anticipava ulteriore denaro (circa 600 euro). Quei 600 euro che il padre teneva a che lui ripagasse da sé, lavorando. E, ancora, al di là della conflittualità verbale con i genitori, quotidiana, gli atti di violenza fisica mantenuti da G. nei loro confronti sono risultati del tutto episodici, e comunque risalenti al periodo precedente al soggiorno negli Stati Uniti. Mai cosi gravi da richiedere l’intervento delle forze dell’ordine.

Ma vi è un altro fatto che non può essere tralasciato per chiarire il contesto familiare nel quale è maturato il delitto.

G. era omosessuale, circostanza che né l’indagato, né i familiari hanno ritenuto di dover dichiarare spontaneamente. Anzi il padre nel corso dell’interrogatorio rendeva dichiarazioni che lasciavano intendere l’eterosessualità del figlio; “io a mio figlio, non ultimo 2 giorni fa, ho detto sfogandomi, che non mi aveva mai dato una volta che fosse una, una soddisfazione, una buona notizia (che so che aveva trovato un lavoro piuttosto che si fosse trovato una ragazza a cui teneva), ma solo dolori”.

Con ciò non si vuole certo sposare la tesi – propugnata dall’On. Grillini con interpellanza parlamentare e con dichiarazioni rilasciate alla stampa che inducevano l’indagato a replicare pubblicamente – del delitto omofobo, poiché dagli atti non emerge un tale movente, ma certamente l’omosessualità di G. non è irrilevante per comprendere il contesto familiare conflittuale nel quale è maturato il suo omicidio come pretenderebbe la madre (“io non capisco cosa c’entri questa storia dell’omosessualità e perché ci sia tanta attenzione su questo tema; non lo abbiamo riferito alla polizia perché non aveva nulla a che fare con quello che è successo”).

L’omosessualità di G. non era infatti accettata dai genitori, come ha riferito il fratello F.: “dico che effettivamente per i miei genitori era un tabù; loro non parlavano del fatto che G. era omosessuale, gli dava fastidio, non volevano che se ne parlasse; per questa ragione, nemmeno io e mia sorella abbiamo detto alla Polizia che G. era omosessuale; è stato un gesto di riguardo verso i nostri genitori, perché sapevo (senza bisogno che me lo dicessero, come non hanno fatto) che loro non ne avrebbero riferito; sapevo, peraltro, che la cosa sarebbe venuta fuori dalla documentazione medica e dunque mi ero pronto a parlarne se mi fosse stato richiesto”.

F.V. ha anche dichiarato quanto segue circa il rapporto di G. con i genitori: “Il rapporto tra i miei genitori e G. era senz’altro conflittuale; non posso dire altrettanto del mio rapporto con lui, che di fatto era assente; il conflitto nasceva perché i miei genitori avrebbero voluto che G. vivesse in modo diverso da come faceva; che si trovasse in primo luogo un’occupazione stabile, che pensasse a mettersi via dei soldi, a farsi un assicurazione; che pensasse insomma al suo futuro anche in relazione al momento in cui non ci sarebbero più stati; G. invece se aveva dei soldi li spendeva tutti in brevissimo tempo, sia che fossero pochi, sia che fossero tanti; ad esempio, negli ultimi tempi in cui guadagnava una miseria alla settimana, dando delle lezioni private di francese a un ragazzo, spendeva tutto quello che guadagnava in sigarette (era un accanito fumatore); ebbene, questo – lo spendere tutti i soldi in sigarette – dava molto fastidio ai miei genitori che invece avrebbero voluto che lui mettesse via almeno una parte dei soldi che guadagnava, anche al fine di pagare il debito che aveva contratto con l’Ambasciata Italiana per il suo rimpatrio”.

Ecco perché le “ragioni” dell’omicidio paiono allo scrivente più da rinvenire nell’incapacità dei genitori di accettare il figlio che nelle condotte violente, verbali e fisiche, di G..

Ecco, come già si sottolineava nella richiesta di misura cautelare avanzata e respinta dal GIP, perché vi è nel presente caso, anche con riferimento a casi simili riportati dalla cronaca, una sproporzione tra le condotte del figlio e il disturbo che arrecava in famiglia, e il gesto del padre.

Ecco perché si riteneva e si ritiene che l’esplosione di violenza del padre verso il figlio dovesse e debba essere attentamente vagliata in punto cautelare, potendosi e dovendosi dall’azione ricavare elementi di valutazione della personalità dell’autore (in tal senso si esprime la prevalente giur.za della Suprema Corte), tali da far ritenere necessaria l’applicazione della misura cautelare di massimo rigore, onde scongiurare nuovi episodi di violenza all’indirizzo del personale medico del CPS di Monza e degli amici di Crema di G., entrambi indicati dall’indagato quali corresponsabili della “irrecuperabile” condizione del figlio.

Ecco perché si ritiene insoddisfacente il giudizio sull’azione dell’indagato contenuto nell’ordinanza che s’impugna, ove si definisce semplicemente come “freddo” un padre che predispone due caricatori e ne scarica a distanza ravvicinata uno intero contro il proprio figlio, gesto forse inquadrabile nel paradigma del c.d. overkilling che non può non suscitare allarme e preoccupazione.

Ma perché, infatti, viene da chiedersi – al di là del diritto – non lo ha semplicemente minacciato con quella pistola che fino ad allora aveva usato soltanto per il tiro sportivo ? Ma perché sparato un colpo, non si è fermato (magari con il primo non lo aveva nemmeno colpito) ? Perché non si è fermato dopo il secondo colpo o dopo il terzo ?

Bisogna, è inevitabile, immaginarsi la scena di un padre che dopo aver assemblato la pistola, caricato 2 caricatori, inseritone uno, attende il figlio fuori dal bagno. Poi quando il figlio apre la porta spara. Poi continua a sparare. Per almeno una decina di secondi. Spara tra l’altro con la mano sinistra, e non è mancino, perché porta un tutore al braccio destro, essendosi fratturato l’omero.

Il tutto con una determinazione ferrea e assoluta. Non c’è alcun ultimo appello alla ragione o all’amore paterno, né alcun avviso a G. il quale nemmeno deve aver avuto tempo di capire quello che gli stava per accadere.

Quanto alla valutazione di pericolosità dell’indagato ed all’adeguatezza della sola misura della custodia in carcere, il PM ritiene non convincenti le argomentazioni del g.i.p., osservando in proposito:

Del resto anche il GIP ha almeno inizialmente convenuto che proprio sull’azione dovesse concentrarsi la valutazione delle esigenze cautelari, affermando che il fatto che la persona sottoposta ad indagini abbia predisposto non uno, ma due caricatori, e scaricato un intero caricatore contro il figlio costituiscono ” circostanze indubbiamente rilevanti ai sensi dell’ari 274 lett. c) c.p.p.”.

All’affermazione non segue tuttavia alcun ulteriore approfondimento, quasi che il GIP abbia ritenuto il nesso tra le modalità dell’azione e il pericolo di nuovi reati tanto evidente da non necessitare alcun commento ulteriore.

Segue, invece, l’introduzione del tema centrale del provvedimento del GIP e cioè quello della diversa possibile valutazione derivante dal contesto complessivo dell’azione, con la valutazione della personalità dell’autore.

Ragioniere, bancario, pensionato, proprietario di casa in città e al lago incensurato: paradossalmente una persona tranquilla.

Con la riproposizione del tema del “contesto familiare”, già tratteggiato in tema di gravi indizi, ma qui affrontato in modo più ampio, riportando alcuni passaggi delle dichiarazioni dell’indagato e degli altri familiari, sulla malattia di G. (soggetto borderline, con comportamenti anomali fin da bambino, soggetto “a rischio” già a 15 anni di età, inutilmente seguito tramite cure private) e sui suoi comportamenti nei confronti dei genitori (la sua violenza era più verbale che fisica, ma in un’occasione aveva aggredito il padre rompendogli due costole, G. che anche negli ultimi due mesi insultava i genitori, umiliandoli).

Con, infine, dopo aver ripercorso l’ultima giornata di G. (l’episodio scatenante), la conclusione secondo la quale il contesto di commissione del reato, definito come sufficientemente chiaro, porta a ritenere che nuovi reati possano astrattamente essere indirizzati nei confronti di’eventuali corresponsabili della situazione familiare descritta.

Ma dopo tale corretta premessa, il GIP scarta subito l’ipotesi che l’indagato possa commettere nuovi reati all’indirizzo degli amici di Crema di G., ritenendo il riferimento estremamente generico per dare concretezza al pericolo di reiterazione, ed essendo tra l’altro il soggiorno di G. in tale città assai risalente nel tempo. Motivazione censurabile, poiché il riferimento non pare affatto generico e quanto al dato temporale non se ne comprende la rilevanza per escludere l’individuazione quali possibili nuovi bersagli degli amici di Crema, espressamente citati dall’indagato che dimostrava di nutrire ancora risentimento verso di loro il 26.11.07.

Condivide, invece, il GIP in astratto (l’unico pericolo che si potrebbe paventare) l’individuazione dei medici del CPS e in particolare del dott. Vigano, quali possibili destinatari di nuovi atti di violenza da parte dell’indagato.

In concreto, peraltro, dopo l’inciso F.F.V. è persona che sa usare le armi e le ha usate, in un modo caratterizzata peraltro da una certa freddezza (la predisposizione di due caricatori, l’avere chiamato egli stressa subiti dopo il fatto il 113), un ritorno al tema dell’azione già accennato ma nemmeno in questa sede approfondito, esclude perentoriamente che possa commettere nuovi delitti, con le seguenti parole:

Non si ritiene però che si tratti di persona in grado di commettere nuovi delitti con uso di armi; non si ritiene persona capace di imbracciare un’altra volta un’arma (che dovrebbe peraltro reperir e) per cercare vendetta nei confronti di altre persone da lui ritenute responsabili della vicenda familiare, né vi sono elementi concreti in tale senso. “Adesso siete liberi almeno voi”, ha commentato egli stesso il proprio gesto dopo l’accaduto, come ha detta alla moglie. La vicenda, per l’indagato, pare definitivamente compiuta.

La decisione non convince.

A tacer del fatto, che il contesto familiare e in particolare il contesto psicologico dell’indagato e dei familiari nel quale è maturato il delitto, non può definirsi ad avviso dello scrivente ancora oggi sufficientemente chiarito, né certamente tale poteva definirsi il 28.11.07 sulla base delle sole dichiarazioni provenienti dall’indagato e dai familiari, così come per nulla chiaro è ed era quanto il conflitto di G. con i genitori sia dipeso dal suo comportamento e quanto dal loro atteggiamento, ciò che preme più rilevare è che il GIP ha soltanto affermato il suo convincimento, ma non lo ha a ben vedere per nulla motivato.

Non ritenendo di dover spiegare perché le modalità dell’azione sono rilevanti ai sensi dell’ari. 274 lett. c) c.p.p. nemmeno ha poi effettivamente spiegato su quali basi ha maturato il diverso convincimento che V. F.F. non commetterà altri reati, tra l’altro non limitandosi a sostenere – in negativo – l’assenza di elementi dai quali derivare la sussistenza di un concreto pericolo di reiterazione, ma affermando – in positivo – l’assenza di un qualsivoglia pericolo di reiterazione.

Altrettanta certezza non ha invece lo scrivente circa l’astensione dal crimine violento dell’indagato, così che vale riproporre quanto già si motivava al GIP nella richiesta di misura, essendo ad avviso di quest’Ufficio perfettamente attuale.

Ciò detto, venendo al tema della cautela, e scartate ovviamente richieste fondate su esigenze diverse da quella descritta alla lettera c) dell’art. 274 del codice di rito, ritiene lo scrivente che. allo stato, in attesa dell’acquisizione di ulteriori elementi di valutazione della personalità della persona sottoposta alle indagini, la richiesta debba essere quella della misura di massimo rigore.

Invero, la sproporzione già detta tra i comportamenti del figlio e il gesto definitivo del padre, porta lo scrivente a non poter escludere e, anzi, a ritenere concreto il pericolo che la persona sottoposta alle indagini, possa commettere ove posto in libertà altri delitti con l’uso di armi o altri mezzi di violenza personale.

Si pensi ad esempio, alle responsabilità che lo stesso attribuisce nell’evoluzione della patologia del figlio, nell’incapacità del figlio di essere persona normale (che si trova un lavoro stabile, che si trova una ragazza fissa), nel mancato reinserimento del figlio in famiglia e società, al personale medico del CPS (il dott. Viganò che nemmeno si è degnato di riceverlo) piuttosto che agli amici di Crema del figlio (“sono quelli che hanno contribuito a fargli cessare le cure presso il CPS e ad andare a vivere da solo”’), tutti possibili bersagli di nuovi scoppi di violenza.

Sarebbe certamente impossibile, escludere ora – dopo che l’indagato ha commesso l’omicidio del figlio, e dunque dopo che è successo ciò che nessuno poteva seriamente prevedere potesse accadere, tanto più avendo proprio il padre (il quale quando dichiara di aver sempre voluto bene al figlio e di aver sofferto per la sua mancanza quando era oltre mare, rende dichiarazioni ad avviso dello scrivente assolutamente credibili) deciso il rientro del figlio dagli Stati Uniti non più tardi di due mesi fa – che V.F.F. non possa, lasciato in libertà o comunque libero di violare eventuali arresti domiciliari, commettere nuove condotte quali quelle per cui si procede in danno di terzi.”

All’udienza camerale avanti a questo TR non è comparso il PM, mentre si sono presentati l’indagato ed il suo difensore, il quale ha chiesto rigettarsi l’appello del PM.

RITENUTO

L’appello del PM deve essere accolto, ma con applicazione all’indagato, non già della misura della custodia in carcere – come richiesto dal PM – bensì della misura degli arresti domiciliari, la quale appare adeguata a fronteggiare l’esigenza cautelare di cui all’art. 274 lett. c) c.p.p.

Si deve evidenziare innanzitutto che nel caso di specie sono state svolte approfondite indagini, in particolare con assunzione delle dichiarazioni di persone informate sui fatti, l’acquisizione di documenti, l’esecuzione di intercettazioni telefoniche, indagini continuate anche dopo l’emissione del provvedimento impugnato (i relativi atti sono stati trasmessi a questo TR).

Sono stati così sentiti i parenti della p.o. (la madre Villa A.; i fratelli V.F. e A. M.R.), i sanitari che a vario titolo hanno avuto in cura la parte offesa (Bertelli S.; Peretti A.; Viganò D.; Ferri P.; Pirola M.), i suoi insegnanti (Pozzi M., Gatti C., Pozzoli M., Bettinelli M., Messa I.), i suoi amici, alcuni dei quali hanno tra l’altro evidenziato circostanze relative alla sua omosessualità (Lupo Pasini B., con il quale la p.o. aveva avuto una relazione subito dopo avere lasciato per la prima volta la casa familiare; Caravaggio S.; Cortesi M.; Agosti A.; Fontana L.), la persona che aveva dato in locazione l’appartamento alla p.o. a Vailate (Donesana T.).

Nel corso delle indagini la difesa ha prodotto documentazione attinente alle cure sanitarie della p.o. (certificazione medica redatta dai sanitari che ebbero in cura la p.o.; certificazione delle spesa sostenute per il trattamento di psicoterapia), nonché numerosissime mail intercorse tra V.G. e l’indagato, nel periodo in cui il primo era in America.

E” stata altresì acquisita la documentazione sanitaria redatta presso il CPS di Monza.

Sulla base degli esposti elementi non solo appare pacifica la gravità indiziaria a carico dell’indagato (che ha subito confesso l’omicidio), ma risultano delineati in termini sufficientemente affidabili la dinamica del fatto, il suo antecedente immediato, nonché la vicenda personale di V.G., la sua patologia, la sua personalità, le sue scelte di vita nel corso degli anni, i suoi rapporti con i familiari.

Del resto la vera ragione del contrasto tra la prospettiva espressa nell’ordinanza impugnata e le valutazioni formulate nell’atto di appello del PM non riguarda la ricostruzione in punto di fatto di tali elementi, ma l’individuazione del contenuto del giudizio di pericolosità che deve essere formulato ex art. 274 lett. c) c.p.p. e della base di tale giudizio. Mentre infatti il g.i.p. propende per una rigorosa delimitazione della valutazione di pericolosità dell’indagato all’individuazione di possibili soggetti passivi di nuove forme di aggressione da parte dello stesso, non rinvenendo elementi specifici in tal senso, il PM sembra prospettare la necessità di una visione più ampia, nella quale assume un ruolo preminente la sproporzione tra le motivazioni soggettive del fatto e la gravità del fatto stesso.

Prima dunque di esaminare questo che è il punto cruciale del presente procedimento incidentale, è sufficiente ricordare sinteticamente, quanto alla dinamica del fatto, che tutti gli elementi acquisiti al processo permettono di affermare che l’immediata causa scatenante dell’omicidio fu l’ennesimo contrasto insorto tra V.G. ed i genitori, originato quel giorno: da incomprensioni circa il possesso di un cellulare della sorella della parte offesa, da rimproveri mossi al figlio dai genitori, dal comportamento offensivo tenuto da G. nei confronti dei genitori (v. sopra). L’indagato – pur impossibilitato ad usare la mano destra a causa dei postumi di una caduta – aveva così caricato la pistola della quale era legittimamente in possesso ed aveva ucciso il figlio sparandogli contro 12 colpi, dopo avere atteso che, finita la doccia, uscisse dal bagno.

Quanto alla patologia dalla quale era affetto V.G., dagli atti emergono univoche conferme della diagnosi che si legge nei primi certificati medici redatti fin da quando la patologia ebbe a manifestarsi: nel certificato redatto in data 18.5.94 dal dr Peretti si prospetta la necessità di un intervento psicoterapico urgente, in quanto un esame psicodiagnostico svolto nei mesi di febbraio e marzo ha evidenziato “un quadro di nevrosi ossessiva con struttura di personalità di tipo border-line”; mentre nel certificato in data 16.5.94 a firma della dr. Paola Ferri parla di “diagnosi di personalità border-line, cioè a cavallo tra una disfunzione di tipo nevrotico e una alterazione di tipo più catastrofico e distruttivo con tratti di marca psicotica della personalità”).

V.G. è stato curato dapprima privatamente, poi dal 1996 presso il CPS di Monza, centro con il quale ha però interrotto bruscamente i rapporti nel 2000.

Tale patologia aveva originato comportamenti di V.G. che avevano gravemente compromesso il clima familiare, comportamenti aggressivi ed offensivi ai danni dei genitori che in tempi non recenti erano sfociati anche in episodi di aggressione fisica del padre.

Che la situazione familiare fosse percepita dai familiari come intollerabile ed invivibile, è dimostrato per tabulas dalla circostanza che solo il padre – impietosito per la situazione di degrado nella quale il figlio era precipitato nel suo soggiorno americano – aveva acconsentito al rientro di G. dall’America ed al ritorno a casa, mentre la madre ed i fratelli avevano espresso una volontà contraria (v. le già citate dichiarazioni dei familiari).

Ad aumentare le difficoltà relazionali con il resto della famiglia, ed in particolare con i genitori, si erano aggiunte anche le non condivise scelte di vita incostanti di G., che dopo gli studi superiori non era riuscito a dedicarsi con regolarità ad un’attività lavorativa, sprecando continue occasioni lavorative e frustrando così le aspettative dei genitori, tanto che alla fine, in America, la situazione era completamente precipitata, spingendo Gabriele in uno stato di vera e propria emarginazione sociale. G, per un certo periodo aveva anche manifestato una forte fede politica leghista e sembra di capire anche in questo non vi era sintonia con il resto della famiglia.

Tutto ciò risulta, non solo dalle dichiarazioni dei familiari (v. sopra), ma con riferimento alla situazione dell’indagato nel suo soggiorno americano, anche dalla cartella clinica redatta dopo il rientro in Italia, sulla base di quanto riferito al sanitario dallo stesso V.G.: da essa risulta in particolare che in America fu costretto a farsi ospitare da amici ed in alcune occasioni anche a dormire in strada; che assunse vari tipi di droghe e che per guadagnare esercitò anche la prostituzione.

E” in questa situazione di gravissime difficoltà relazionali e di non condivise scelte di vita del figlio che si innesta il profilo dell’omosessualità di V.G., in ordine al quale è sufficiente rinviare alle considerazioni esposte dal PM nell’atto di impugnazione, che hanno sgombrato il campo, in modo ineccepibile, da ogni distorta lettura dei fatti: l’omosessualità di G, era nota in famiglia da almeno dieci anni e, in quanto non condivisa dai genitori, era un ulteriore fattore di difficoltà nei già burrascosi rapporti con il figlio, che non vedevano certo con favore tale orientamento sessuale del figlio.

Dalle dichiarazioni dei fratelli della vittima emerge tuttavia (e non vi è ragione per dubitare della loro attendibilità) che i genitori avevano in qualche modo rimosso il problema, per loro fonte di disagio, evitando il più possibile di parlarne e ciò sembra trovare conferma anche nelle dichiarazioni del dr. Pirola che ebbe in cura la p.o. (nel 1989 parlò con i genitori della omosessualità del figlio ed essi espressero il loro disagio e la difficoltà ad accettare l’orientamento sessuale del figlio, ma poi riscontrò un’accettazione maggiore, sia pure formale, ed essi gli dissero di avere concordato con il figlio un rispetto formale della sua scelta purché lui la vivesse fuori dal contesto familiare).

Quello che comunque è certo – ed è ciò che rileva in questa sede – è che nessun concreto elemento acquisito al procedimento depone nel senso dell’individuazione dell’omosessualità della p.o. come motivazione del delitto posto in essere dall’indagato: una tale motivazione non si accorda del resto con la circostanza che, nel contrastato rapporto con il figlio (sul punto v. postea), l’indagato non mancò di aiutarlo anche negli ultimi tempi, quando la sua situazione personale in America era precipitata, guardandosi bene dall’abbandonarlo al suo destino, come invece sarebbe sicuramente accaduto se avesse rifiutato il figlio per la sua omosessualità.

L’esposta ricostruzione dei rapporti interfamiliari non è smentita dalle dichiarazioni rese da alcuni amici della parte offesa, sia perché sul punto esse non si basano su una conoscenza diretta di detti rapporti (ma su quanto riferito da G,), sia perché sotto taluni aspetti esse appaiono contraddittorie e smentite da altri elementi acquisiti al processo.

Così la p.i.f. Caravaggio ha dichiarato che: G, gli aveva riferito di continue vessazioni e percosse da parte della madre, percosse che lasciavano segni visibili, tanto che la madre gli diceva quali scuse avrebbe dovuto dire agli insegnanti per giustificarli; gli aveva riferito invece di avere buoni rapporti con il padre; l’amico gli aveva poi raccontato che negli ultimi tempi vi erano continui contrasti con i genitori per motivi banali, anche perché i genitori non riuscivano ad accettare la sua omosessualità e gli aveva detto che la madre lo odiava in modo viscerale, tanto che quando egli aveva appreso dell’omicidio, in un primo momento aveva pensato che ad uccidere l’amico fosse stata la madre e che il padre avesse voluto coprirla.

La p.i.f. Lupo Pasini ha dichiarato tra l’altro che G, gli aveva riferito che la madre lo picchiava con la cinghia; lamentava di non essere accettato nell’ambito familiare e forse uno dei motivi era legato alle sue scelte sessuali, “ma non era quello il problema principale che guastava il menage familiare”.

La p.i.f. Cortesi ha dichiarato di non avere saputo che G, fosse affetto da un disturbo della personalità borderline, né aveva mai notato comportamenti anomali (il che dimostra la limitatezza di orizzonte conoscitivo del teste); G, gli aveva detto che i suoi genitori non accettavano la sua omosessualità e quindi non vedevano positivamente le sue frequentazioni, ma l’amico non gli aveva mai riferito di particolari vessazioni da parte dei genitori, nei confronti dei quali nutriva rispetto, stimando di più la madre (sul punto trattasi dunque dell’esatto opposto di quanto riferito da Caravaggio e Lupo Pasini).

La p.i.f. Agosti ha dichiarato che G, gli aveva riferito che i suoi principali problemi derivavano dal fatto che i suoi genitori non accettavano la sua omosessualità, ma di loro aveva sempre parlato “con toni affettuosi” (anche qui è evidente il contrasto con le dichiarazioni precedenti), pur riferendo di contrasti per le sue abitudini di vita (alzarsi tardi, mancanza di impegno per trovare un lavoro ecc.); non aveva mai saputo del disturbo della personalità borderline.

Quanto agli asseriti maltrattamenti fisici (dich. Caravaggio e Lupo Pasini), è sufficiente osservare che dalle dichiarazioni degli insegnati di V.G. (v. le dich. sopra citate ed in particolare quelle di Bettinelli) risulta positivamente smentita l’affermazione secondo la quale egli ebbe a subire maltrattamenti fisici, i cui segni sarebbero stati rilevati dagli insegnanti.

Venendo più specificamente alla posizione dell’indagato, si deve osservare che dagli atti emerge altresì in modo inequivoco il conflitto interno da lui vissuto tra due opposti atteggiamenti: da un lato il rifiuto del figlio per le condotte da questi tenute e per le sue scelte di vita, causa di continue sofferenze e contrasti e dall’altro l’incapacità di troncare definitivamente ogni rapporto, intervenendo comunque alla fine per cercare di risolvere i problemi del figlio, nella speranza che questo potesse finalmente indurlo ad una più regolare condotta in famiglia e ad una maggiore assunzione di responsabilità familiare.

Così ad esempio fin dal momento in cui il figlio ebbe a lasciare l’appartamento nella zona di Crema, compare il padre per pagare i danni lasciati dal figlio (v. dich. di Donesana, che riferisce di come il padre ebbe a dirle di essere stanco di continuare a correre per rimediare i guai del figlio) e da ultimo è sempre il padre che dapprima invia più di 1.000 euro in America per permettere a G, di ritornare in Italia (soldi poi non utilizzati a tal fine dal figlio) e successivamente acconsente al ritorno a casa di G,, contro la volontà degli altri famigliari, attivandosi poi perché riprendesse i contatti con il CPS di Monza.

Del resto tale conflitto interiore emerge in modo inequivoco dal testo delle numerose mail acquisite agli atti, che testimoniano l’affetto che l’indagato continuava a nutrire per il figlio e ciò trova conferma anche nelle telefonate intercettate.

Breve: l’indagato si è trovato a gestire i difficili rapporti con il figlio G, con risorse assolutamente inadeguate rispetto ad una situazione così complessa, come testimonia il tragico e – come si dirà – sproporzionato epilogo.

Ciò posto in punto di fatto, è possibile passare ora a trattare il tema riguardante più specificamente la valutazione dell’esigenza cautelare di cui all’art. 274 lett. c) c.p.p., pacifica essendo l’insussistenza di altre esigenze cautelari.

In proposito ritiene questo TR che allo stato debba essere formulato un giudizio di pericolosità dell’indagato sulla base del decisivo ed assorbente rilievo che la sproporzione tra la situazione – per quanto drammatica – dei rapporti con il figlio e la gravità della reazione omicidiaria è tale da dimostrare di per sè una fragilità psicologica ed una carenza di autocontrollo nelle reazioni a situazioni conflittuali, che ben potrebbero riproporsi anche se in forme e contesti diversi.

Per quanto grave possa essere stata invero la situazione originata dal comportamento del figlio ed anche tenuto conto della sua protrazione nel tempo, se si prende a parametro un modello di persona normale, dotata di media cultura e di una socializzazione adeguata, tale situazione non era comunque tale da determinare una simile, estrema, reazione: ciò evidenzia di per sè una scarsa capacità di formulare un’obiettiva valutazione dei fatti, sulla quale basare comportamenti adeguati a farvi fronte.

Va in proposito evidenziata innanzitutto la non eccezionale gravità del comportamento tenuto dalla parte offesa nelle ore immediatamente antecedenti all’omicidio, comportamento che avrebbe al più giustificato l’allontanamento da casa del figlio e l’abbandono alle proprie responsabilità. Ma se così non è stato è perché in quel momento è come se nella mente dell’indagato si fossero sommate ed avessero preso corpo contemporaneamente tutte le offese, le sofferente, le incomprensioni (comunque da lui percepite come tali) accumulate nel corso degli anni, tanto da far apparire all’indagato come inevitabile – per risolvere una situazione avvertita come irrimediabilmente compromessa – un comportamento estremo come l’uccisione del figlio.

Proprio questa prospettiva può spiegare anche le particolari modalità del fatto non denotanti un raptus improvviso ed un comportamento in preda a impulsi irrefrenabili: il padre che carica la pistola e l’impugna addirittura con difficoltà, avendo la destra impedita, che si apposta dietro la porta del bagno, che attende l’uscita del figlio per ucciderlo, sparandogli contro numerosi colpi.

Ora, non è chi non veda come una simile dinamica psicologica è comunque espressione quanto meno di carenza di un’adeguata percezione della realtà e delle condotte necessarie per affrontarla in modo corretto, nonché, come detto, di un’allarmante carenza di autocontrollo.

Ciò non è contraddetto dagli indici di pentimento dell’indagato e dalla consapevolezza di dover comunque espiare una pena (elemento emergente in particolare dalle telefonate intercettate), perché non si è in presenza in questo caso di un soggetto che ha commesso un gravissimo delitto come espressione di una lucida scelta ideologica o in preda un raptus incontrollabile, ma a un individuo che ha agito in base ad un ben più complesso meccanismo psicologico, il quale richiede ora un adeguato lavoro di introspezione, quale base per una complessa revisione critica del proprio comportamento.

A giudizio di questo TR già queste considerazioni di portata per così dire generale possono fondare un giudizio di pericolosità ai sensi dell’art. 274 lett. c) c.p.p., non apparendo sotto questo profilo accoglibile la prospettiva troppo riduttiva fatta propria dal g.i.p., che sembra avere focalizzato il giudizio di pericolosità unicamente sulla ricerca di possibili, specifici, soggetti passivi di eventuali future azioni violente.

Ed invero, nel caso di specie non appare fondato un concreto giudizio di pericolosità con riferimento a possibili azioni violente ai danni degli amici di Crema del figlio (con ogni probabilità da lui nemmeno conosciuti, non avendo avuto rapporti di frequentazione con loro, come emerge dalle stesse dichiarazioni degli interessati) o del personale del CPS, se non altro perché nei confronti di tali soggetti l’indagato non ha manifestato astio né propositi di vendetta, né intenti da “giustiziere”, elementi tutti dei quali non vi è traccia alcuna nel processo.

Ma come detto ciò non appare decisivo, potendo il giudizio di pericolosità prescindere dalla specifica individuazione di singole, potenziali, vittime di future condotte violente.

A fronteggiare l’indicata esigenza cautelare di cui all’art. 274 lett. c) c.p.p. appare adeguata la misura degli arresti domiciliari presso la propria abitazione con le ordinarie prescrizioni accessorie: non sussistono invero elementi che inducano a ritenere che l’indagato – che comunque avverte come inevitabile una reazione dell’ordinamento nei suoi confronti, come emerge dalle telefonate intercettate – non rispetti le prescrizioni inerenti a tale misura cautelare, tanto più se si considera il comportamento collaborativo e pienamente confessorio da subito tenuto dopo il fatto.

 P.Q.M.

 in RIFORMA del provvedimento appellato

APPLICA a V.F.F. la misura degli arresti domiciliari presso la propria abitazione in Monza, via Iseo n. 6, imponendo all’indagato di non allontanarsi dalla stessa senza l’autorizzazione della Autorità giudiziaria e di non comunicare con persone diverse dai coabitanti;

DISPONE

la sospensione dell’esecuzione del presente provvedimento fino all’irrevocabilità dello stesso;

MANDA alla cancelleria per gli adempimenti di competenza.

Milano, 15 gennaio 2008.