Corte di cassazione, prima sezione civile, ordinanza del 18 ottobre 2021, depositata il 21 gennaio 2022
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – rel. Consigliere –
Dott. SCALIA Laura – Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
sul ricorso n. 30401/2018 proposto da:
Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro-tempore; Sindaco del Comune di Verona, nella qualità di Ufficiale del Governo, elett.te domiciliati in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che li rappresenta e difende;
– ricorrenti –
contro
X, Y, in proprio e quali genitori del minore Z, elett.te domiciliati presso l’avv. Alexander Schuster, il quale li rappresenta e difende, con procura speciale in calce al controricorso e ricorso incidentale;
– controricorrenti –
contro
Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Venezia;
– intimato –
nonché
X, Y., in proprio e quali genitori del minore Z., elett.te domiciliati presso l’avv. Alexander Schuster, il quale li rappresenta e difende, con procura speciale in calce al controricorso e ricorso incidentale;
– ricorrenti incidentali –
contro
Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro-tempore; Sindaco del Comune di Verona, nella qualità di Ufficiale del Governo, elett.te domiciliati in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che li rappresenta e difende;
– intimati –
avverso la sentenza n. 6775/2018 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 16/07/2018;
udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 18/10/2021 dal Cons. rel., Dott. CAIAZZO ROSARIO;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott.ssa CERONI Francesca, la quale ha concluso per la trasmissione del ricorso alle Sezioni Unite.
FATTI DI CAUSA
I sigg.ri X e Y. hanno proposto ricorso ex art. 702bis c.p.c. alla Corte di appello di Venezia a seguito del rifiuto loro opposto dall’ufficiale di stato civile del Comune di Verona, di trascrivere l’atto di nascita del minore Z., nato in Q, nel quale si attesta che il medesimo è il figlio dei ricorrenti.
Al riguardo, i ricorrenti, cittadini italiani, coniugati in Canada, con matrimonio trascritto in Italia nel registro delle unioni civili nel ….., hanno allegato che: il bambino era nato con le modalità tipiche della gestazione per altri (cd. G.P.A. o “maternità surrogata”), essendo la fecondazione avvenuta tra un ovocita di una donatrice anonima e i gameti di F.P., con successivo impianto dell’embrione nell’utero di una diversa donna, non anonima, che aveva portato a termine la gravidanza e partorito il bambino; al momento della nascita le Autorità canadesi avevano formato un atto di nascita nel quale era indicato, come unico genitore, F.P., mentre né la donatrice dell’ovocita, né la cd. “madre gestazionale” erano dichiarate madri del minore. A seguito del ricorso presso la Suprema Corte della British Columbia, i ricorrenti avevano ottenuto, in data …., una sentenza nella quale si dichiarava che entrambi erano genitori del minore con la conseguente modifica dell’atto di nascita. L’ufficiale di stato civile del Comune di Verona aveva però rifiutato la richiesta avanzata il 16.12.17, di rettificare l’atto di nascita, sia perché già esisteva un atto di nascita trascritto, sia per l’assenza di dati normativi certi e di precedenti favorevoli da parte della giurisprudenza di legittimità alla richiesta di rettifica. Pertanto, i ricorrenti hanno chiesto, a norma della L. 2 agosto 1995, n. 218, art. 67 l’esecutorietà in Italia della sentenza emessa in Canada nel ….., al fine di ottenere la trascrizione dell’atto di nascita del minore, invocando l’applicazione del combinato disposto della L. n. 218 del 1995, artt. 33, 65 e 66 e rilevando la non contrarietà all’ordine pubblico della suddetta sentenza canadese, già passata in giudicato, e la liceità delle condotte che hanno determinato la nascita del bambino secondo le leggi del Paese in cui sono state poste in essere.
L’Avvocatura dello Stato si è costituita per il Sindaco del Comune di Verona e per il Ministero dell’Interno, sollevando varie eccezioni preliminari e d’inammissibilità della domanda per contrarietà all’ordine pubblico; parimenti il Pubblico Ministero è intervenuto opponendosi all’accoglimento del ricorso.
Con ordinanza del 16.7.18, la Corte d’appello di Venezia, in accoglimento del ricorso, ha accertato che la sentenza emessa dalla Suprema Corte della British Columbia in data 8.9.17 – che aveva riconosciuto X e Y. quali genitori di Z., nato il …., a Q – possedeva i requisiti per il riconoscimento a norma della L. n. 218 del 1995, art. 67.
In particolare, la Corte territoriale veneziana nella sua motivazione ha osservato che: nella materia in esame vige tra i diritti fondamentali la tutela del superiore interesse del minore in ambito interno e internazionale, come sancita dalle convenzioni internazionali. Nell’ambito di questo assetto l’ordine pubblico internazionale impone l’esigenza imprescindibile di assicurare al minore la conservazione dello status e dei mezzi di tutela di cui possa validamente giovarsi in base alla legislazione nazionale applicabile, in particolare del diritto al riconoscimento dei legami familiari ed al mantenimento dei rapporti con chi ha legalmente assunto il riferimento della responsabilità genitoriale; né può ricondursi all’ordine pubblico la previsione che il minore debba avere genitori di sesso diverso, posto che nel nostro ordinamento è contemplata la possibilità che il minore abbia due figure genitoriali dello stesso sesso nel caso in cui uno dei genitori abbia ottenuto la rettificazione dell’attribuzione del sesso con gli effetti di cui alla L. n. 164 del 1982, art. 4; quanto ai divieti di ricorrere alla procreazione medicalmente assistita di cui alla L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 2, le scelte del legislatore italiano appaiono frutto di discrezionalità e non esprimono principi fondanti a livello costituzionale che impegnino l’ordine pubblico; né può ritenersi rilevante la sanzione penale comminata dall’art. 12, comma 6 predetta legge che punisce chiunque, in qualsiasi forma, realizzi, organizzi o pubblicizzi la maternità surrogata dato che il divieto e la sanzione penale non si sovrappongono alla valutazione del miglior interesse del minore concepito all’estero con tali tecniche, il quale non può essere privato dello status legittimamente acquisito nel paese in cui è nato.
Avverso tale sentenza l’Avvocatura dello Stato ha proposto ricorso per cassazione nell’interesse del Ministero dell’Interno e del Sindaco di Verona, con quattro motivi. X e Y, quale esercenti la responsabilità genitoriale sul minore P. hanno resistito con controricorso, eccependo l’inammissibilità e l’infondatezza del ricorso; i controricorrenti hanno altresì proposto ricorso incidentale affidato ad un unico motivo condizionato all’accoglimento di uno o più motivi del ricorso principale.
Con il primo motivo del ricorso principale si deduce il difetto assoluto di giurisdizione, a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, in quanto nell’ordinamento giuridico nazionale non esiste una norma che legittimi una piena bigenitorialità omosessuale, come affermata dal giudice canadese.
Con il secondo motivo si denunzia violazione del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 95 essendo competente in materia il Tribunale in primo grado. La Corte d’appello ha erroneamente ritenuto che l’oggetto del procedimento fosse il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero nell’ordinamento italiano, mentre invece i ricorrenti hanno richiesto la trascrizione dell’atto di nascita straniero ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 28, comma 2, lett. e), impugnando il provvedimento con cui l’ufficiale di stato civile aveva rifiutato di trascrivere il suddetto provvedimento giurisdizionale canadese, venendo dunque in rilievo un’opposizione al rifiuto di trascrizione che, a norma del citato art. 95, è proponibile con ricorso innanzi al Tribunale.
Con il terzo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, avendo la Corte d’appello omesso di pronunciarsi sull’eccezione di difetto di legittimazione attiva del padre intenzionale B.F. a rappresentare il minore.
Con il quarto motivo si denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, artt. 16 e 65 del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18, L. n. 40 del 2005, art. 5 e art. 12, commi 2 e 6, in quanto l’ordinanza impugnata confligge con vari principi fondanti l’ordine pubblico, tra cui la nozione di filiazione intesa nell’ordinamento italiano quale discendenza da persone di sesso diverso, come disciplinata dalle norme in materia di fecondazione assistita, anche eterologa, nonché con il divieto della cd. “maternità surrogata”, fattispecie costituente reato secondo la legge italiana.
L’unico motivo del ricorso incidentale denunzia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c. e L. n. 218 del 1995, art. 67 avendo erroneamente la Corte d’appello considerato il Ministero e il Sindaco controricorrenti legittimati passivi, poiché il primo non aveva competenze in materia di stato civile, mentre il Sindaco non era titolare di un interesse proprio rispetto all’istanza di trascrizione.
L’ordinanza interlocutoria della I sezione civile della Corte di Cassazione del 29 aprile 2020.
Con ordinanza emessa il 29.4.2020, la prima sezione civile della Corte di Cassazione, ritenuti infondati i primi tre motivi del ricorso principale e il ricorso incidentale, disponendo la sospensione del giudizio, ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18 e L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1, lett. g), nella parte in cui non consentono, secondo l’interpretazione attuale del diritto vivente, che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l’ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento del cd. genitore d’intenzione non biologico nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestazione per altri (altrimenti detta “maternità surrogata”), per contrasto con gli artt. 2,3,30,31 Cost., art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 della Convenzione Europea per la Protezione dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali, 2, 3, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione 20 novembre 1989 delle Nazioni Unite sui diritti dei minori, ratificata in Italia con L. 27 maggio 1991, n. 176 e dell’art. 24 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.
Al riguardo, la Corte ha mosso le proprie argomentazioni dalla premessa che in data 8.5.2019 era stata depositata la sentenza delle Sezioni unite civili, n. 12193/19, la quale aveva affermato il principio secondo cui non può essere riconosciuto nel nostro ordinamento un provvedimento straniero che attribuisca lo status di figlio a un bambino nato in seguito a gestazione per altri, in un paese in cui tale pratica sia riconosciuta come legale, nei confronti del cd. genitore “d’intenzione” (colui cioè che non ha dato alcun apporto biologico alla procreazione), a causa dell’ostacolo, ritenuto insuperabile, ravvisato nel divieto di surrogazione di maternità, previsto dalla L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, qualificabile – secondo le Sezioni Unite come principio di ordine pubblico in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità della gestante e l’istituto dell’adozione. Premesso ciò, la Corte di cassazione ha dubitato della compatibilità di tale principio di diritto, costituente diritto vivente, con vari parametri costituzionali.
Anzitutto con l’art. 117 Cost., comma 1, in relazione ai diritti del minore al rispetto della propria vita privata e familiare (art. 8 CEDU), a non subire discriminazioni, a vedere riconosciuto il proprio diritto, a essere immediatamente registrato alla nascita e ad avere un nome, a conoscere i propri genitori, ad essere da loro allevato, ed a non esserne separato (artt. 2, 3, 7, 8 e 9 Convenzione di New York sui diritti del fanciullo approvata il 20.11.1989 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite), al principio della responsabilità comune dei genitori per l’educazione e la cura del figlio (art. 18 della medesima Convenzione), nonché ai diritti riconosciuti dall’art. 24 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e, in particolare, al principio della preminenza dell’interesse superiore del minore in tutti gli atti adottati da autorità pubbliche o da istituzioni private. Secondo la ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale del 29 aprile 2020 la sussistenza di tali violazioni era stata messa in evidenza nel recente parere consultivo della Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, reso il 10.4.2019 su richiesta della Corte di cassazione francese, con il quale è stato affermato, da un lato, che il diritto al rispetto della vita privata e familiare del bambino, a norma dell’art. 8 CEDU, richiede che il diritto nazionale offra una possibilità di riconoscimento del legame di filiazione con il genitore d’intenzione e, dall’altro, che tale riconoscimento non comporta necessariamente l’obbligo di trascrivere l’atto di nascita straniero nei registri dello stato civile, ben potendo tale diritto essere tutelato in altro modo e, in particolare, mediante l’istituto dell’adozione, a condizione che le modalità di tale istituto previste dal diritto interno garantiscano l’effettività e la celerità di tale procedura, in conformità all’interesse superiore del bambino.
L’ordinanza di remissione alla Corte Costituzionale, ha quindi evidenziato che l’attuale diritto vivente in Italia, come emerso a seguito della suddetta sentenza delle Sezioni Unite, non si dimostra adeguato rispetto agli standard di tutela dei diritti del minore indicati dal parere consultivo della Grande Camera, dal momento che la possibilità del ricorso al predetto istituto dell’adozione “in casi particolari” da parte del genitore di “intenzione”, a norma della L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d), ritenuta percorribile dalle Sezioni Unite, nella richiamata sentenza n. 12193/19, e idonea a tutelare i diritti del bambino, non determina un vero rapporto di filiazione e non comporta né la effettività né la tempestività del riconoscimento del rapporto di filiazione ritenuta necessaria dalla Corte EDU.
Secondo la Corte rimettente, il diritto vivente cristallizzato dalla citata pronuncia delle Sezioni Unite risulta in contrasto anche con gli artt. 2,3,30,31 Cost. In particolare la interpretazione cogente delle S.U. comporta la violazione del diritto del minore all’inserimento e alla stabile permanenza nel proprio nucleo familiare, inteso come formazione sociale, e del suo diritto alla identità, senza che tale violazione possa ritenersi giustificata in una logica di bilanciamento di valori costituzionali, sia per la evidente astrattezza e non inerenza della tutela che ne deriverebbe alla donna che ha consentito la gestazione per altri, sia per la assenza di qualsiasi responsabilità, rispetto alle modalità del suo concepimento e della sua nascita, da parte del bambino il quale viene invece a subire una evidente e gravissima discriminazione sin dalla sua venuta al mondo. E’ altresì irragionevole riconoscere il rapporto di genitorialità in capo al genitore biologico e non a quello di “intenzione”, posto che è il primo- che ha fornito i propri gameti per la formazione dell’embrione- ad essere coinvolto direttamente nella pratica procreativa, ritenuta illecita nel nostro ordinamento e in contrasto con l’ordine pubblico internazionale. Infine proprio perché, in realtà, il legislatore non ha effettuato alcun bilanciamento in via generale e astratta al riguardo, è tanto più irragionevole, oltre che contrario ai principi consolidati della giurisprudenza costituzionale, precludere al giudice la possibilità di valutare, caso per caso, la possibile contrarietà all’ordine pubblico del riconoscimento del legame di filiazione con il genitore di “intenzione”, con ciò sacrificando automaticamente la tutela dei diritti del bambino senza compiere alcuna valutazione della legislazione vigente nel paese in cui è avvenuta la gestazione per altri e, specificamente, la effettività delle garanzie, fornite dall’ordinamento straniero, per tutelare la volontà della donna e, non da ultimo, senza valutare il concreto interesse del minore al riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore intenzionale.
La sentenza n. 33 del 9 marzo 2021 della Corte Costituzionale.
Con sentenza del 9.3.2021, la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione sollevata dalla Corte di cassazione, osservando che il diritto vivente censurato s’impernia sulla qualificazione operata dalle Sezioni unite civili del divieto penalmente sanzionato di surrogazione di maternità, di cui alla L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, tra cui s’annovera la dignità umana della persona; la stessa Corte Costituzionale, ha ricordato di aver affermato, con la sentenza n. 272/17, che la pratica della maternità surrogata offende in maniera intollerabile la dignità delle donne, minando nel profondo le relazioni umane; tuttavia ha rilevato che la questione rimessa dalla Corte di Cassazione afferisce non alla contrarietà della surrogazione di maternità ai principi fondanti del nostro ordinamento ma alla tutela dell’identità del bambino e dei suoi rapporti con la coppia che ha condiviso il percorso che ha portato al suo concepimento, e alla sua nascita. Ed è in questa prospettiva che ha ritenuto di valutare la compatibilità del diritto vivente espresso dalle Sezioni unite con i diritti del minore riconosciuti dalle norme costituzionali e sovranazionali invocate dal giudice a quo.
Delineato l’oggetto della questione sottoposta al suo vaglio, la Corte Costituzionale ha altresì rilevato che: è da ribadire il principio- recentemente da essa richiamato nella sentenza n. 102/2020- secondo cui in tutte le decisioni relative ai minori di competenza delle pubbliche autorità, compresi i tribunali, deve essere riconosciuto rilievo primario alla salvaguardia dei “migliori interessi” (best interests) o “dell’interesse superiore” (interet superieur) del minore, principio espresso già nella Dichiarazione Universale sui diritti del fanciullo adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni unite il 20 novembre 1959 e confluito poi nell’art. 3 comma 1 della citata Convenzione di New York del 1989 e nell’art. 24, comma 2, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, e recepito dalla giurisprudenza della Corte EDU come specifica declinazione del diritto alla vita familiare di cui all’art. 8 CEDU; tale principio era stato declinato da una risalente sentenza della stessa Corte Costituzionale (la n. 11/1981), con riferimento all’art. 30 Cost., come necessità che nelle decisioni concernenti il minore venga sempre ricercata la “soluzione ottimale” in concreto per l’interesse del minore (Corte Cost., n, 272/17; n. 76/17; n. 239/14).
Rilevato, dunque, che i parametri costituzionali e sovranazionali invocati dal giudice rimettente convergono attorno al principio della ricerca di tale soluzione ottimale per l’interesse del minore, la Corte Costituzionale, in relazione alla fattispecie di fatto, ha osservato che: era indubbio che l’interesse del bambino accudito sin dalla nascita (circa sei anni in ordine al caso oggetto del giudizio a quo) da una coppia che aveva condiviso la decisione di farlo venire al mondo era ed è quello di ottenere il riconoscimento, anche giuridico, dei legami che, nella realtà fattuale, già lo uniscono ad entrambi i componenti della coppia, senza che ciò abbia implicazioni quanto agli eventuali rapporti giuridici tra il bambino e la madre surrogata; al riguardo, questi legami sono parte integrante della stessa identità del bambino (Corte EDU, sentenza 26.6.14, Mennesson contro Francia) che vive e cresce in una determinata famiglia, o comunque – per ciò che concerne le unioni civili – nell’ambito di una determinata comunità di affetti, essa stessa dotata di riconoscimento giuridico, e certamente riconducibile al novero delle formazioni sociali tutelate dall’art. 2 Cost. (sentenza n. 221 del 2019); sicché indiscutibile è l’interesse del bambino a che tali legami abbiano riconoscimento non solo sociale ma anche giuridico, a tutti i fini che rilevano per la vita del bambino stesso – dalla cura della sua salute, alla sua educazione scolastica, alla tutela dei suoi interessi patrimoniali e ai suoi stessi diritti ereditari -; ma anche, e prima ancora, allo scopo di essere identificato dalla legge come membro di quella famiglia o di quel nucleo di affetti, composto da tutte le persone che in concreto ne fanno parte; ciò anche laddove il nucleo in questione sia strutturato attorno ad una coppia composta da persone dello stesso sesso, dal momento che l’orientamento sessuale della coppia non incide di per sé sull’idoneità all’assunzione di responsabilità genitoriale (sentenza n. 221 del 2019; Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962; sezione prima civile, sentenza 11 gennaio 2013, n. 601). Ha rilevato poi la Corte Costituzionale che, sotto un secondo e non meno importante profilo, non è qui in discussione un preteso “diritto alla genitorialità” in capo a coloro che si prendono cura del bambino, ma unicamente l’interesse del minore a che sia affermata in capo a costoro la titolarità giuridica di quel fascio di doveri funzionali agli interessi del minore che l’ordinamento considera inscindibilmente legati all’esercizio di responsabilità genitoriali, doveri ai quali non è pensabile che costoro possano ad libitum sottrarsi (per una analoga sottolineatura, si veda la sentenza n. 347 del 1998, che seppur nel diverso contesto della fecondazione eterologa – già evocava i diritti del minore “nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità”); proprio per queste ragioni, del resto, l’ormai consolidata giurisprudenza della Corte EDU afferma la necessità, al metro dell’art. 8 CEDU, che i bambini nati mediante maternità surrogata, anche negli Stati parte che vietino il ricorso a tali pratiche, ottengano un riconoscimento giuridico del “legame di filiazione” (tien de filiation) con entrambi i componenti della coppia che ne ha voluto la nascita, e che se ne sia poi presa concretamente cura (a partire dal leading case Mennesson rispetto al quale è stato emesso dalla Grande Camera il parere consultivo del 10 aprile 2019); né l’interesse del minore potrebbe ritenersi soddisfatto dal riconoscimento del rapporto di filiazione con il solo genitore “biologico”, come è accaduto nel caso dal quale è scaturito il giudizio a quo, in cui l’originario atto di nascita canadese, che designava come genitore il solo padre biologico, era stato trascritto nei registri di stato civile italiani; laddove, infatti, il minore viva e cresca nell’ambito di un nucleo composto da una coppia di due persone, che non solo abbiano insieme condiviso e attuato il progetto del suo concepimento, ma lo abbiano poi continuativamente accudito, esercitando di fatto in maniera congiunta la responsabilità genitoriale, è chiaro che egli avrà un preciso interesse al riconoscimento giuridico del proprio rapporto con entrambe, e non solo con il genitore che abbia fornito i propri gameti ai fini della maternità surrogata; peraltro, è vero che l’interesse del bambino non può essere considerato automaticamente prevalente rispetto a ogni altro controinteresse in gioco, ma la frequente sottolineatura della “preminenza” di tale interesse ne segnala bensì l’importanza, e lo speciale “peso” in qualsiasi bilanciamento; anche rispetto all’interesse del minore non può non rammentarsi che “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri; se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona” (sentenza Corte Cost. n. 85 del 2013); gli interessi del minore dovranno essere allora bilanciati, alla luce del criterio di proporzionalità, con lo scopo legittimo perseguito dall’ordinamento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità, penalmente sanzionato dal legislatore; scopo di cui si sono fatte carico le Sezioni unite civili della Corte di cassazione, allorché negano la trascrivibilità di un provvedimento giudiziario straniero, nella parte in cui attribuisce lo status di genitore anche al componente della coppia che abbia partecipato alla surrogazione di maternità, senza fornire i propri gameti; dal complesso delle pronunce rese sul tema dalla Corte di Strasburgo, si evince che – anche a fronte della grande varietà di approccio degli Stati parte rispetto alla pratica della maternità surrogata – ciascun ordinamento gode, in linea di principio, di un certo margine di apprezzamento in materia; ferma restando, però, la rammentata necessità di riconoscimento del “legame di filiazione” con entrambi i componenti della coppia che di fatto se ne prende cura.
Al riguardo, la Corte Costituzionale ha altresì evidenziato che: la Corte EDU riconosce, in particolare, che gli Stati parte possano non consentire la trascrizione di atti di stato civile stranieri, o di provvedimenti giudiziari, che riconoscano sin dalla nascita del bambino lo status di padre o di madre al “genitore d’intenzione”; e ciò proprio allo scopo di non fornire incentivi, anche solo indiretti, a una pratica pro-creativa che ciascuno Stato ben può considerare potenzialmente lesiva dei diritti e della stessa dignità delle donne che accettino di portare a termine la gravidanza per conto di terzi; tuttavia, la stessa Corte EDU ritiene comunque necessario che ciascun ordinamento garantisca la concreta possibilità del riconoscimento giuridico dei legami tra il bambino e il “genitore d’intenzione”, al più tardi quando tali legami si sono di fatto concretizzati (Corte EDU, decisione 12 dicembre 2019, C. contro Francia ed E. contro Francia, paragrafo 42; sentenza D. contro Francia, paragrafo 67); lasciando poi alla discrezionalità di ciascuno Stato la scelta dei mezzi con cui pervenire a tale risultato, tra i quali si annovera anche il ricorso all’adozione del minore; rispetto, peraltro, a quest’ultima soluzione, la Corte EDU sottolinea come essa possa ritenersi sufficiente a garantire la tutela dei diritti dei minori nella misura in cui sia in grado di costituire un legame di vera e propria “filiazione” tra adottante e adottato (Corte EDU, sentenza 16 luglio 2020, D. contro Francia, paragrafo 66), e “a condizione che le modalità previste dal diritto interno garantiscano l’effettività e la celerità della sua messa in opera, conformemente all’interesse superiore del bambino” (ibidem, paragrafo 51); il punto di equilibrio raggiunto dalla Corte EDU espresso da una giurisprudenza ormai consolidata – appare corrispondente anche all’insieme dei principi sanciti in materia dalla Costituzione italiana, parimenti invocati dal giudice a quo; essi per un verso non ostano alla soluzione, cui le Sezioni unite civili della Cassazione sono pervenute, della non trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori dell’originario atto di nascita, che indichino quale genitore del bambino il “padre d’intenzione”; ma per altro verso impongono che, in tal caso, sia comunque assicurata tutela all’interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto con entrambi i componenti della coppia che non solo ne abbiano voluto la nascita in un Paese estero in conformità alla lex loci, ma che lo abbiano poi accudito esercitando di fatto la responsabilità genitoriale; una tale tutela dovrà, in questo caso, essere assicurata attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorché ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino; ogni soluzione che non dovesse offrire al bambino alcuna chance di un tale riconoscimento, sia pure ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice, finirebbe per strumentalizzare la persona del minore in nome della pur legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata; proprio questo rischio, d’altronde, la stessa Corte Costituzionale ha inteso evitare allorché ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una norma che vietava il riconoscimento dei figli nati da incesto, precludendo loro l’acquisizione di un pieno status filiationis, in ragione soltanto della condotta penalmente illecita dei loro genitori (sentenza Corte Cost. n. 494 del 2002), e allorché – più recentemente – ha dichiarato pure costituzionalmente illegittima l’automatica applicazione della sanzione accessoria della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale in capo al genitore autore di un grave delitto commesso a danno del figlio, in ragione della possibilità che tale automatismo – finalizzato anche a lanciare un messaggio di deterrenza nei confronti dei potenziali autori di reati – finisse per risolversi in un pregiudizio per gli stessi interessi del minore (sentenza n. 102 del 2020).
Rileva la Corte Costituzionale che, come è stato correttamente sottolineato dall’ordinanza di rimessione, il ricorso all’adozione “in casi particolari” di cui alla L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 44, comma 1, lett. d), ritenuto esperibile dalla sentenza n. 12193 del 2019 delle Sezioni unite civili, costituisce una forma di tutela degli interessi del minore che è certo significativa, ma non è ancora del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovranazionali rammentati; infatti, l’adozione “in casi particolari” non attribuisce infatti la genitorialità all’adottante;
inoltre, pur a fronte della novella dell’art. 74 c.c., operata dalla L. 10 dicembre 2012, n. 219, art. 1, comma 1, (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali), che riconosce la generale idoneità dell’adozione a costituire rapporti di parentela, con la sola eccezione dell’adozione di persone di maggiore età, è ancora controverso – stante il perdurante richiamo operato dalla L. n. 184 del 1983, art. 55 all’art. 330 c.c. – se anche l’adozione “in casi particolari” consenta di stabilire vincoli di parentela tra il bambino e coloro che appaiono socialmente, e lui stesso percepisce, come i propri nonni, zii, ovvero addirittura fratelli e sorelle, nel caso in cui l’adottante abbia già altri figli propri; essa richiede inoltre, per il suo perfezionamento, il necessario assenso del genitore “biologico” (L. n. 184 del 1983, art. 46), che potrebbe non essere prestato in situazioni di sopravvenuta crisi della coppia, nelle quali il bambino finisce per essere così definitivamente privato del rapporto giuridico con la persona che ha sin dall’inizio condiviso il progetto genitoriale, e si è di fatto presa cura di lui sin dal momento della nascita.
Da questa ampia motivazione emerge chiaramente la ritenuta inidoneità del diritto vivente cristallizzato dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2019 a rispondere alle esigenze di riconoscimento del legame di filiazione con il genitore intenzionale derivanti dalla Costituzione e dalle fonti convenzionali e sovranazionali citate. La Corte Costituzionale ha infatti tratto esplicitamente la conclusione per la quale, al fine di assicurare al minore nato da maternità surrogata la tutela giuridica richiesta dai principi convenzionali e costituzionali poc’anzi ricapitolati attraverso l’adozione, essa dovrebbe dunque essere disciplinata in modo più aderente alle peculiarità della situazione in esame, che è in effetti assai distante da quelle che il legislatore ha inteso regolare per mezzo della L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d).
Alla luce delle osservazioni e dei rilievi critici formulati, la Corte Costituzionale ha evidenziato che: il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata – nel contesto del difficile bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso a questa pratica, e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori, nei termini sopra precisati – non può che spettare, in prima battuta, al legislatore, al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco; di fronte al ventaglio delle opzioni possibili, tutte compatibili con la Costituzione e tutte implicanti interventi su materie di grande complessità sistematica, questa Corte non può, allo stato, che arrestarsi, e cedere doverosamente il passo alla discrezionalità del legislatore, nella ormai indifferibile individuazione delle soluzioni in grado di porre rimedio all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore.
L’opportunità di una nuova pronuncia delle Sezioni Unite.
A seguito della sentenza della Corte Costituzionale, il collegio ritiene che si sia aperto un vuoto normativo, per essere venuto meno in un suo presupposto essenziale quel bilanciamento che costituiva il punto di equilibrio espresso dal diritto vivente costituito dalla sentenza n. 12193/2019 delle Sezioni Unite. Ritiene pertanto che ricorrano i presupposti per investire di nuovo le Sezioni Unite, a norma dell’art. 374 c.p.c., comma 2, venendo in rilievo una questione di massima di particolare importanza. Se e come sia superabile in via interpretativa tale situazione di vuoto normativo non potendosi più il giudice, sia ordinario che di legittimità, riferire al diritto vivente prospettato dall’ordinanza di rimessione che, in base alla motivazione della sentenza della Corte Costituzionale, non è idoneo a impedire la lesione dei diritti fondamentali del minore a causa del mancato riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore d’intenzione e nello stesso tempo per l’inadeguatezza della soluzione offerta dall’istituto di cui alla L. n. 184 del 1983, art. 44, lett. d).
Questo Collegio ritiene che l’adozione di una linea interpretativa diversa che tenga conto delle motivazioni espresse dalla Corte Costituzionale sia adottabile e sia necessaria e tuttavia ritiene opportuno investire al riguardo le Sezioni Unite che per la loro natura istituzionale di vertice della funzione di nomofilachia propria della Corte di Cassazione sono le sole in grado di fissare nell’immediato un chiaro orientamento giurisprudenziale di legittimità in questa materia particolarmente sensibile. In questa prospettiva si ritiene anche necessario esporre i punti essenziali su cui il Collegio si è trovato concorde nel ritenere obbligato un nuovo intervento interpretativo che sostituisca il precedente e nell’ipotizzare una linea interpretativa che risponda all’esigenza immediata di tutela del minore pur in assenza dell’intervento del legislatore sollecitato dalla Corte Costituzionale.
In primo luogo che si sia di fronte a una situazione di vuoto normativo è convinzione che deriva dal venir meno dei due assunti su cui si basava il precedente delle Sezioni Unite vale a dire in primo luogo il bilanciamento a priori in via generale e astratta, compiuto implicitamente dal legislatore e basato sull’attribuzione al divieto penale della surrogazione di maternità di un valore prevalente rispetto al riconoscimento della filiazione nei confronti del genitore intenzionale.
In secondo luogo la legittimità di tale esclusione aprioristica del riconoscimento per essere praticabile da parte del genitore intenzionale la via, alternativa alla delibazione della sentenza straniera o alla trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero, della adozione L. n. 184 del 1983, ex art. 44, lett. d).
Se si considera come la Corte Costituzionale abbia condiviso integralmente le obiezioni che l’ordinanza di rimessione, e prima ancora larga parte della dottrina, aveva mosso all’idoneità dell’istituto dell’adozione in casi particolari a supplire all’inaccoglibilità della richiesta di riconoscimento non può non riconoscersi che l’interpretazione delle Sezioni Unite del 2019 ha visto venir meno un presupposto essenziale su cui si era basata e senza il quale non può che registrarsi, dopo la pronuncia della Corte Costituzionale, la violazione sia del parametro costituzionale che di quello convenzionale nel ricorso esclusivo all’adozione in casi particolari. Ma anche la valutazione negativa di ordine pubblico, in quanto ritenuta pregiudiziale e valida in tutti i casi, non può che perdere il suo fondamento non solo perché presupponeva la concorrenza della valutazione di idoneità dell’istituto dell’adozione in casi particolari ma anche perché la Corte Costituzionale, come si è detto, pur riconoscendo il riferimento alla legittima aspirazione dello Stato di impedire l’elusione del divieto penale di surrogazione di maternità, ha accolto tutti i profili di incostituzionalità prospettati nell’ordinanza di rimessione con riferimento alla lesione dei diritti fondamentali del minore relativi alla sua identità personale e alla sua vita privata e familiare e ha ritenuto pienamente consonante con i principi costituzionali la indicazione della Corte Europea dei diritti dell’uomo sulla necessità di un riconoscimento pieno e tempestivo della filiazione nei confronti del genitore intenzionale. Pertanto una lettura della clausola di ordine pubblico come precostituita da una valutazione generale e aprioristica del legislatore che comporti la prevalenza della finalità antielusiva sull’interesse del minore e che conduca necessariamente al diniego del riconoscimento dello status filiationis non ha più alcun fondamento coerente nella motivazione della sentenza della Corte Costituzionale.
Tuttavia la Corte Costituzionale – e in questo non può ravvisarsi un punto di contrasto con la Corte Europea – ritiene pienamente legittima la scelta interpretativa (così come in ipotesi quella legislativa) per l’esclusione della trascrizione come mezzo per il riconoscimento della filiazione a favore del genitore intenzionale ma, in questa prospettiva, la Corte stessa ammonisce il legislatore sulla necessità di apprestare uno strumento normativo ad hoc (anche adattando l’istituto della adozione) che consenta di pervenire al risultato del riconoscimento della filiazione del genitore intenzionale che sia equivalente a quella del genitore biologico. Non si tratta di semplice moral suasion perché il giudice delle leggi ha chiaramente condiviso il punto di vista della Corte Europea secondo cui la libertà dello Stato di non consentire la trascrizione della sentenza delibata o dell’atto di nascita è legittimamente esercitata solo se sussista nell’ordimento una via alternativa che consenta di riconoscere con piena efficacia e prontamente la filiazione rispetto al genitore intenzionale.
Sorge evidentemente a questo punto il problema della possibile decisione nel caso in esame in presenza del mancato responso del legislatore al monito della Corte Costituzionale. L’alternativa si pone fra l’applicazione di una soluzione interpretativa di cui si è accertata l’incongruità rispetto al dato costituzionale e convenzionale, che condurrebbe presumibilmente a una sanzione da parte della Corte EDU nei confronti dello Stato italiano, ovvero quello di una nuova interpretazione del sistema normativo alla luce delle indicazioni del giudice delle leggi che consenta una tutela adeguata dei diritti del minore e sia nello stesso tempo rispettosa dell’esigenza di salvaguardare i valori sottesi al divieto penale della surrogazione di maternità.
Al riguardo, va preliminarmente rilevato quanto alla natura della sentenza del giudice delle leggi che, sebbene d’inammissibilità, essa va annoverata nell’ambito della tipologia delle cd. “decisioni monitorie” della Corte Costituzionale. In particolare, tale pronuncia rientra nell’ambito delle decisioni d’incostituzionalità accertata ma non dichiarata che, parte della dottrina denomina anche come pronunce d’inammissibilità per “eccesso di fondatezza”. Si ritiene infatti che il loro principale carattere distintivo sia rappresentato dalla presenza di una più o meno evidente discrasia tra la parte motiva della decisione, laddove la Corte riconosce chiaramente la sussistenza di profili di incostituzionalità, e la parte dispositiva, che non è di accoglimento (come sarebbe stato logico), ma di rigetto (seppure allo stato) della questione. Si tratta di una tecnica che ricorre in vari ordinamenti in cui peraltro l’accertamento di incostituzionalità assume sempre un effetto, sia pure differito nel tempo, di modificazione diretta del quadro normativo ritenuto in conflitto con le norme e i principi di rango costituzionale.
La motivazione adottata dalla Corte Costituzionale appare infatti, come si è detto, fondata chiaramente sull’accertamento dell’incostituzionalità di una lettura delle varie norme, richiamate dall’ordinanza del giudice a quo, che sia ostativa al riconoscimento della filiazione nei confronti del genitore intenzionale laddove invece il giudice costituzionale ha chiaramente affermato che è attribuita alla discrezionalità del legislatore stabilire le modalità e lo strumento con cui pervenire al riconoscimento. L’accertamento della denunciata incostituzionalità è insito evidentemente nel monito rivolto al legislatore eppure non si coniuga, come avviene in altri ordinamenti e come è avvenuto in un noto precedente della stessa Corte Costituzionale (ordinanza n. 207 del 16 novembre 2018), con l’assegnazione di un termine al legislatore per il suo intervento, ritenuto necessario al fine di eliminare il conflitto fra il diritto esistente e i parametri costituzionali. In una tale situazione e sino a che non intervenga il legislatore i principi su cui è fondata la motivazione della sentenza della Corte Costituzionale, seppure formalmente non vincolanti per l’interprete (analogamente a quanto accade per le sentenze interpretative di rigetto), sono da considerare parametri valutativi utilizzabili al fine di fornire una doverosa interpretazione costituzionalmente orientata delle varie norme scrutinate. Al riguardo, sul tema, le Sezioni Unite hanno affermato che il vincolo che deriva, sia per il giudice a quo sia per tutti gli altri giudici comuni, da una sentenza interpretativa di rigetto, resa dalla Corte Costituzionale, è soltanto negativo, consistente cioè nell’imperativo di non applicare la norma ritenuta non conforme al parametro costituzionale evocato e scrutinato dalla Corte costituzionale, così da non ledere la libertà dei giudici di interpretare ed applicare la legge (ai sensi dell’art. 101 Cost., comma 2) e, conseguentemente, neppure la funzione di nomofilachia attribuita alla Corte di cassazione dall’art. 65 dell’ordinamento giudiziario può essere limitata, non essendo preclusa la possibilità di seguire, nel processo a quo o in altri processi, “terze interpretazioni” ritenute compatibili con la Costituzione, oppure di sollevare nuovamente, in gradi diversi dello stesso processo a quo o in un diverso processo, la questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione, sulla base della interpretazione rifiutata dalla Corte costituzionale, eventualmente evocando anche parametri costituzionali diversi da quello precedentemente indicato e scrutinato (Cass., SU, n. 27986/13).
Un precedente particolarmente significativo e rilevante, che attiene peraltro proprio all’impatto delle nuove tecniche di procreazione medicalmente assistita su un quadro normativo inadeguato, è quello della sentenza n. 347/1998 della Corte costituzionale con la quale il giudice delle leggi affermò che “l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene primariamente alla valutazione del legislatore. Tuttavia, nell’attuale situazione di carenza legislativa, spetta al giudice ricercare nel complessivo sistema normativo l’interpretazione idonea ad assicurare la protezione degli anzidetti beni costituzionali”.
Tale affermazione è decisiva anche nel caso in esame dato che, allo stato, non risultano interventi legislativi, né proposte di legge regolarmente depositate in Parlamento, concernenti l’indicazione in cui si è espresso il monito della Corte Costituzionale. Tuttavia in un ordinamento costituzionale, improntato alla realizzazione di uno Stato di diritto, che tutela e garantisce il rispetto dei diritti inviolabili della persona, della famiglia e di ogni formazione sociale ove si sviluppa la sua personalità, non può essere concepita una categoria di diritti inviolabili e fondamentali, sospensivamente condizionata sine die all’intervento del legislatore, perché ciò costituirebbe un’evidente contraddizione in termini nella esplicazione della giurisdizione costituzionale, istituita proprio per garantire l’applicazione delle norme costituzionali e tutelare i diritti fondamentali che ne derivano. Se il dialogo fra il legislatore e il giudice delle leggi non risolve in tempi ragionevoli un conflitto di costituzionalità del quadro normativo esistente spetta all’interpretazione delle Corti adottare una soluzione ermeneutica volta a colmare la lacuna o a risolvere il conflitto rilevato dal giudice costituzionale rispettando le indicazioni sulle norme e i principi costituzionali in gioco che non possono essere violati. Ciò appare particolarmente evidente nel caso in esame in cui il diritto vivente è costituito proprio da una interpretazione giurisprudenziale della clausola di ordine pubblico che ha dimostrato di essere inadeguata al vaglio della Corte Costituzionale e ha altresì registrato la piena consonanza di tale giudizio di inidoneità con l’avis consultatif e la successiva giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo. In questa prospettiva obbligata la dichiarazione di inammissibilità della Corte Costituzionale oltre a costituire, in primo luogo, una chiamata del legislatore a un intervento innovativo urgente rappresenta, come avvenne nel 1998, una nuova chiamata delle Corti, e in primis delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, alla ricerca di una interpretazione idonea ad assicurare la protezione dei beni costituzionali in gioco.
La soluzione interpretativa sottoposta alle Sezioni Unite.
Il Collegio ritiene utile apportare il proprio contributo a questa ricerca sottoponendo al vaglio delle Sezioni Unite la soluzione interpretativa che ritiene adeguata a rispondere a tale implicita chiamata “interpretativa” posta in essere con la sentenza n. 33/2021 dalla Corte Costituzionale.
In assenza di un intervento innovativo del legislatore è necessario partire da una rivalutazione degli strumenti normativi esistenti (delibazione e trascrizione) per verificare se in questa materia e per effetto del divieto penale della surrogazione di maternità sussista un insuperabile ostacolo alla loro utilizzazione derivante dalla natura di ordine pubblico del divieto penale.
Sono le stesse Sezioni Unite nel 2019 a ricordare che la L. n. 218 del 1995, artt. 64 e ss. nel disciplinare l’ingresso nel nostro ordinamento di atti e provvedimenti formati all’estero non prevedono affatto il recepimento degli istituti ivi applicati, così come sono disciplinati dagli ordinamenti di provenienza, ma si limitano a consentire la produzione dei relativi effetti nella misura in cui gli stessi risultino compatibili con la nozione di ordine pubblico.
Se ci si riporta a tale corretto metodo di analisi sembra davvero poco opinabile che con la delibazione di una sentenza – come quella canadese che riguarda il presente giudizio – si recepisca nel nostro ordinamento non l’accordo di maternità surrogata e tanto meno la legittimità di una pratica procreativa che in Italia è sancita dal divieto penale. Quello che si recepisce piuttosto, garantendone l’efficacia, è l’atto di assunzione di responsabilità genitoriale da parte del soggetto che ha deciso di essere coinvolto, prestando il suo consenso, nella decisione del suo partner di adire la tecnica di procreazione medicalmente assistita in questione. Un consenso che diviene irrevocabile nel momento in cui inizia il processo procreativo e ciò per un fondamentale principio di responsabilità che riguarda ogni forma di procreazione e che trova nella tutela dei diritti inviolabili del minore la sua ragione d’essere.
In quest’ottica la Corte Costituzionale ha affermato, come si è già accennato, che non è qui in discussione un preteso diritto alla genitorialità. Ciò che è in discussione è unicamente l’interesse del minore a che sia affermata la titolarità giuridica di quel fascio di doveri che l’ordinamento considera inscindibilmente legati all’esercizio di responsabilità genitoriali. Doveri ai quali non è pensabile che costoro possano ad libitum sottrarsi (per una analoga sottolineatura, si veda ancora la sentenza n. 347 del 1998, che – seppur nel diverso contesto della fecondazione eterologa – già evocava i diritti del minore “nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità”).
Si tratta evidentemente di dare efficacia in Italia a un riconoscimento del rapporto di filiazione che è già avvenuto nell’ordinamento in cui il minore è nato per dare continuità al suo status e ai diritti che ne derivano nei confronti dei soggetti responsabili della sua nascita evitando così i gravi pregiudizi che deriverebbero dalla rimodulazione della sua identità e dalla eliminazione di una figura genitoriale.
Lo stigma che deriva dal divieto della surrogazione di maternità non può incidere su questi effetti che non pongono affatto in discussione la illiceità della pratica della surrogazione. Ne’ il riconoscimento dello status nei confronti del genitore intenzionale può essere percepito come negazione del principio del favor veritatis in tema di filiazione in insanabile contrasto con il divieto di surrogazione. Si tratta in primo luogo di un principio che non ha valore assoluto nel nostro ordinamento tanto più a causa delle odierne tecniche procreative medicalmente assistite. Ne’ appare condivisibile che tale principio si coniughi necessariamente con il carattere di norma di ordine pubblico da attribuire al divieto di surrogazione. Un effetto indiretto di legittimazione della surrogazione di maternità non può attribuirsi al rapporto di filiazione con il genitore intenzionale e in quanto tale la affermazione del principio di verità nei suoi confronti non è di certo idonea a impedire il vulnus che si ritiene derivi ai valori del nostro ordinamento. Si tratta di una sorta di aberratio che finisce per riportare erroneamente al principio del favor veritatis la ragione sostanziale del divieto e cioè la strumentalizzazione della donna che il nostro ordinamento ritiene comunque insita nella surrogazione della maternità. Seguendo questa interpretazione della clausola di ordine pubblico si viene infatti, contro la sua stessa ratio, a sancire l’operatività della pratica vietata a favore del genitore biologico sanzionando irrazionalmente il soggetto che non ha avuto un ruolo efficiente nella procreazione e che si è assunto la responsabilità di essere genitore.
Se queste considerazioni appaiono convincenti deve allora ritenersi che è altrove la frizione fra gli strumenti esistenti per pervenire al riconoscimento della filiazione e l’ordine pubblico internazionale. Si tratta del carattere tendenzialmente automatico che tali strumenti hanno progressivamente e sia pure parzialmente acquisito per effetto di una maggiore internazionalizzazione dei rapporti sia economici che personali e per l’accresciuta mutualità del riconoscimento che gli ordinamenti statali vanno via via incrementando. Una materia sensibile come quella per cui si controverte tende invece a sottrarsi a una valutazione di tipo automatico ed è pertanto comprensibile che sia lasciato ai legislatori un ampio spazio di manovra nel predisporre strumenti alternativi e specifici finalizzati al riconoscimento della filiazione nei confronti del genitore intenzionale. Tuttavia si assiste, per altro verso, nelle giurisprudenze sovranazionali e degli altri paesi che sono vicini alla nostra tradizione giuridica, a un processo di “costituzionalizzazione” del diritto internazionale privato e, per altro verso, nell’assenza all’attualità di strumenti alternativi, nel nostro ordinamento, non può che rivolgersi nuovamente l’attenzione sulla compatibilità della delibazione (o della trascrizione) con i valori sottesi al divieto di surrogazione e con l’aspirazione del nostro Stato a scoraggiare prassi elusive poste in essere dal cd. turismo procreativo.
Una condizione preliminare perché questa compatibilità possa ipotizzarsi ed essere poi verificata è che la valutazione di coerenza all’ordine pubblico insito nella norma che sanziona il divieto di surrogazione deve essere compiuta non in astratto ma con riferimento ad ogni singolo caso concreto sia pure alla luce di criteri che abbiano validità generale. Un’altra condizione è che la valutazione sia guidata dal criterio della inerenza nell’individuazione dei valori costituzionali in potenziale condizione di conflitto e dai principi di proporzionalità e ragionevolezza nella formulazione del bilanciamento, cui deve pervenire il giudicante, senza che vi sia una aprioristica definizione di prevalenza di un interesse in gioco, neanche di quello del minore, sia pure non disattendo il principio ribadito dalla Corte Costituzionale della preminenza degli interessi del minore declinato nella direzione della costante ricerca della soluzione ottimale in concreto da privilegiare.
Il rispetto di queste condizioni, che deriva dall’espressa motivazione della sentenza n. 33/2021 della Corte Costituzionale, deve portare quindi al superamento dell’interpretazione secondo cui il diritto fondamentale del minore a conservare lo status filiationis legittimamente acquisito all’estero costituisca un interesse destinato ad affievolirsi in caso di ricorso alla surrogazione di maternità così come deve essere superata la riconduzione di questa interpretazione a una scelta compiuta una volta per tutte dal legislatore finalizzata a segnare il limite oltre il quale cessa di agire il principio di autoresponsabilità e torna a operare il favor veritatis. Quello che non appare condivisibile in questa interpretazione è sia la possibilità di configurare l’affievolimento di un diritto inviolabile, qual è quello alla propria identità personale e al pieno godimento della vita familiare, sia l’attribuzione al legislatore di una tale scelta che, quand’anche fosse stata compiuta, incontrerebbe un evidente conflitto con la giurisprudenza costituzionale richiamata dalla sentenza n. 33/2021.
La stessa decisione della Corte Costituzionale richiama però l’opposta esigenza in un sistema costituzionale caratterizzato dal rapporto di integrazione reciproca di tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Carta costituzionale di non considerare automaticamente prevalente l’interesse del bambino rispetto ad ogni altro con-trointeresse in gioco.
L’attenzione deve essere rivolta, in questa prospettiva, ai due valori che sono stati menzionati dalle precedenti pronunce sia della Corte Costituzionale che della giurisprudenza di legittimità vale a dire la dignità della donna coinvolta nel processo procreativo e la preservazione dell’istituto dell’adozione.
Sotto il primo profilo non può non ritenersi che la donna, che accetta di portare a termine una gravidanza anche nella prospettiva di non diventare la madre del bambino che partorirà, è in una condizione di soggezione che può essere considerata non lesiva della sua dignità solo se sia il frutto di una scelta libera e consapevole, indipendente da contropartite economiche e se tale scelta sia revocabile sino alla nascita del bambino. Se queste condizioni non sussistono e non sono effettive nell’ordinamento del paese in cui avviene la procreazione mediante gestazione per altri la violazione della dignità della donna assume un rilievo talmente importante da consentire il rifiuto della delibazione (e della trascrizione) sempre però in una ottica di valutazione, caso per caso, della soluzione che rispetti anche gli interessi del minore. Al contrario se queste condizioni sono esistenti e sono state rispettate il bilanciamento basato sul diniego aprioristico di riconoscimento degli effetti della sentenza straniera (o dell’atto formato all’estero) assume una connotazione di non inerenza alla soluzione di un concreto e attuale conflitto perché inconferente rispetto all’esigenza di tutela della dignità donna cui l’ordinamento straniero ha riconosciuto una libertà di scelta su una decisione che coinvolge la sua sfera personalissima di autonomia decisionale. Appare quindi del tutto irragionevole ritenere irrilevante la valutazione della legislazione (e della sua applicazione) nel paese in cui la gestazione per altri è avvenuta, così come non risponde all’esigenza di una corretta valutazione degli interessi in gioco non considerare quale sia stata in concreto la posizione e la volontà della donna coinvolta nella gestazione. Se il nostro ordinamento non consente alla donna di partecipare a un simile progetto procreati-vo è per altro verso da considerare che consente alla donna al momento del parto di dichiarare la propria volontà di rimanere anonima e di non assumere alcuna responsabilità genitoriale escludendo così l’instaurazione del rapporto di filiazione. Per altro verso, in una valutazione di ordine pubblico internazionale, non può non tenersi conto del margine di apprezzamento ampio attribuito agli Stati in questa materia e della valutazione positiva che uno Stato appartenente alla tradizione costituzionale occidentale, fondata sul riconoscimento dello stato di diritto e sulla tutela dei diritti fondamentali, quale è il Canada, ha operato rispetto alla libera scelta della donna.
Sotto il profilo invece dell’interferenza lesiva delle tecniche di surrogazione di maternità sull’istituto della adozione la valutazione degli interessi costituzionalmente rilevanti non può che riferirsi, in primo luogo, alla tutela del minore da pratiche elusive e illegali intese a vanificare le norme che lo garantiscono, specificamente nei procedimenti di adozione internazionale, da qualsiasi forma di mercificazione. In una simile fattispecie si trovò a giudicare del resto la Corte di Cassazione con la sentenza n. 24001/2014 relativa a un caso in cui due coniugi italiani avevano fraudolentemente violato la norma straniera che imponeva per l’accesso alla surrogazione di maternità il contributo genetico di almeno uno dei due genitori intenzionali alla formazione dell’embrione. La sanzione della strumentalizzazione fraudolenta della liceità della surrogazione di maternità in altri ordinamenti è stata, allo stesso modo, ritenuta pienamente legittima dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo con la nota sentenza Paradiso Campanelli c. Italia (CEDU, Grande camera, 24.1.2017, n. 25358/12). In questa stessa prospettiva la recente sentenza delle Sezioni Unite (Cass. civ. S.U. n. 9006 del 31 marzo 2021) ha affermato che non contrasta con i principi di ordine pubblico internazionale il riconoscimento degli effetti del provvedimento giurisdizionale straniero di adozione di un minore da parte di una coppia omoaffettiva maschile che attribuisca lo “status” genitoriale secondo il modello dell’adozione piena, non costituendo elemento ostativo il fatto che il nucleo familiare sia omogenitoriale, ove sia esclusa la preesistenza di un accordo di surrogazione di maternità a fondamento della filiazione. In questa controversia è stato ritenuto infatti non ostativa al riconoscimento la circostanza per cui nel diritto statunitense il consenso dei genitori biologici costituisca uno dei presupposti essenziali per la emanazione della sentenza di adozione. Anche qui pertanto assume rilievo la contrarietà all’ordine pubblico di una strumentale e occulta utilizzazione della surrogazione di maternità perché nella specie essa vanificherebbe la genuinità del consenso dei genitori biologici viziando in radice il procedimento adottivo.
Deve quindi ritenersi la non riconoscibilità in Italia degli effetti di una decisione giudiziaria che abbia sancito la filiazione derivante da surrogazione di maternità ma che sia stata ottenuta fraudolentemente in violazione delle leggi del paese che la consente da persone che non possono accedere alle procedure di adozione in Italia e intendono avvalersi delle tecniche di procreazione assistita mediante surrogazione di maternità senza rispettarne le condizioni legali di ammissione. Così come non è riconoscibile l’adozione che celi un accordo di maternità surrogata. Ma è anche da ritenere non riconoscibile una sentenza o un atto di nascita che accerti la filiazione in relazione a una surrogazione di maternità consentita dalla legge del paese in cui è avvenuta anche se i genitori intenzionali non hanno apportato alcun contributo genetico alla procreazione. E’ quanto deciso di recente dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo con la sentenza emessa il 18 maggio 2021 nel caso Valdis Glodis Fjolnisdottir ed Eydis Ros Glodis Agnarsdottir c. Islanda (appl. n. 71552/17) in cui le due donne che avevano adito la gestazione per altri in California attraverso una agenzia non avevano apportato alcun contributo genetico alla procreazione come è consentito dalla legge californiana. Dopo il loro divorzio le due donne avevano vista preclusa la possibilità di una adozione piena del minore loro affidato (in via provvisoria al momento del loro ritorno in Islanda e attualmente in via definitiva). L’adozione infatti era consentita alla coppia dall’ordinamento islandese, prima del divorzio, in alternativa al riconoscimento, che spetta in via esclusiva alla madre gestazionale indipendentemente dal contributo genetico alla procreazione (oltre che al o alla partner genitore intenzionale). La Corte Edu ha valorizzato la preservazione della vita familiare fra il minore e le due donne, sia prima che dopo il loro divorzio, e la possibilità di ottenere l’adozione, ai fini di escludere la violazione dell’art. 8 della Convenzione prospettata dalle ricorrenti in relazione al rifiuto di riconoscimento del certificato di nascita rilasciato negli USA dal quale risultava la registrazione delle due donne quali genitori del bambino. Secondo l’opinione concorrente del giudice L.P. questa decisione non rappresenta una inversione di tendenza nella giurisprudenza della Corte ma la conferma della linea già tracciata, in prospettive diverse, dai casi Mennesson e Paradiso Campanelli, quella cioè di ritenere necessario ai fini del rispetto dell’art. 8 della Convenzione l’obbligo per gli Stati di riconoscere il rapporto di filiazione con il genitore intenzionale solo quando alla procreazione mediante surrogazione di maternità abbia contribuito l’altro componente della coppia che intende assumere la genitorialità. Mentre, anche al di là di dei casi di falsità dell’atto di nascita quanto al contributo genetico alla procreazione (caso Paradiso Campanelli), la Corte Europea non riterrebbe, almeno allo stato, che gli Stati siano tenuti al riconoscimento nell’ipotesi di surrogazione di maternità nella quale entrambi i genitori intenzionali non hanno apportato alcun contributo genetico alla procreazione, sussistendo tuttavia l’obbligo degli Stati aderenti alla Convenzione EDU di rispettare e garantire, anche in questi casi, la formazione e la vita del nucleo familiare riconosciuto in quanto tale all’estero. Questa opinione può essere o meno considerata convincente quanto alla coerenza della decisione ai precedenti citati ma traccia una linea di demarcazione effettiva e utile per rispondere alla esigenza di comporre il possibile conflitto di interesse fra riconoscimento della filiazione e tutela dell’istituto dell’adozione. Infatti una procreazione mediante surrogazione di maternità in cui non vi è stato alcun contributo genetico da parte dei genitori intenzionali si risolve in una vicenda pattizia che normalmente viene gestita da un intermediario per fini economici e che esclude in radice la partecipazione dei genitori intenzionali e della madre gestazionale a un progetto procreativo. Come tale implica nella normalità dei casi, e salva una verifica in concreto, una lesione della dignità della donna che assume l’obbligo della gestazione e un attentato all’istituto dell’adozione.
Infine per ciò che concerne la finalità dissuasiva perseguita legittimamente dallo Stato rispetto all’elusione del divieto di surrogazione di maternità da parte dei cittadini italiani che si recano all’estero per potere accedere a tale tecnica procreativa, laddove è consentita, il bilanciamento di tale interesse con quello del minore non può che avvenire in una logica di prevenzione e non di ritorsione, in danno del genitore di intenzione e soprattutto del minore, per una condotta che sarebbe illecita nel nostro paese ma della quale il minore è del tutto irresponsabile. Una valutazione di compatibilità con l’ordine pubblico come quella che si è cercato di configurare sinora ha una indiretta ma ampia efficacia dissuasiva in tutti i casi in cui verrebbe ad escludersi il riconoscimento secondo i criteri generali delineati. Nello stesso tempo è coerente all’obiettivo di rispettare il principio, evidenziato con solennità nella sentenza n. 33 della Corte Costituzionale, secondo cui ogni soluzione che non dovesse offrire al bambino alcuna chance di un tale riconoscimento, sia pure ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice del suo interesse al riconoscimento, finirebbe per strumentalizzare la persona del minore in nome della pur legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata.
Ne’ può sostenersi che la soluzione del diniego generalizzato di riconoscimento del genitore intenzionale sia l’unica adottabile dal legislatore e dall’interprete. L’adempimento del monito della Corte Costituzionale consentirebbe di fruire di uno strumento processuale più adeguato e calibrato sui valori costituzionali rispetto alla delibazione di una sentenza straniera o alla trascrizione di un atto di nascita ma è anche vero che una valutazione, caso per caso, in questi procedimenti, attualmente disponibili, consente di valutare la portata elusiva del comportamento dei richiedenti la delibazione in una logica di verifica concreta del conflitto con l’ordine pubblico internazionale. Per altro verso un’azione più incisiva da parte dello Stato non può che avvenire attraverso gli strumenti classici propri del diritto internazionale e cioè la negoziazione a livello multi o bilaterale di trattati e convenzioni che escludano o limitino ulteriormente l’accesso dei propri cittadini a questa tecnica procreativa ma anche attraverso la negoziazione di una convenzione multilaterale che avvicini la legislazione degli Stati su questa materia sensibile valorizzando i profili etici che essa implica. Vi è anche un profilo di proporzionalità e razionalità da considerare. A fronte di una grave compromissione dei diritti del minore che comporta l’esclusione del riconoscimento della filiazione nei confronti del genitore intenzionale, (cui è però aperta la possibilità di una adozione L. n. 183 del 1983, ex art. 44, lett. d) mentre è automatico il riconoscimento nei confronti del genitore biologico), va valutata infatti la sua efficacia dissuasiva come del tutto sproporzionata e irrazionale.
Queste le linee di un possibile controllo di corrispondenza della delibazione all’ordine pubblico internazionale fondato sui valori condivisi di dignità della donna e di tutela dell’istituto dell’adozione oltre che sul bilanciamento dell’interesse del minore al riconoscimento con quello dello Stato a disincentivare comportamenti elusivi del divieto di surrogazione da parte dei cittadini italiani. Assolutamente centrale resta però la valutazione della corrispondenza del riconoscimento all’interesse del minore che, per le ragioni sin qui descritte, è normalmente insito nella tutela stessa della sua vita privata e familiare. Ma che va verificata in concreto attraverso la rappresentazione della vita familiare che si è già instaurata e del ruolo che entrambi i genitori hanno assunto secondo la chiara indicazione della Corte Costituzionale.
Anche nella prospettiva del diritto dell’Unione Europea l’interesse del minore alla tutela dei suoi diritti inviolabili all’identità personale e al pieno dispiegamento della sua vita privata e familiare assume una importanza maggiore con riferimento allo specifico rilievo nel diritto Eurounitario (art. 4 p. 2 del T.U.E., artt. 20 e 21 del T.F.U.E., artt. 7, 24 e 25 della Carte dei diritti fondamentali dell’Unione) della conservazione degli status personali e della libertà di circolazione e soggiorno e della stretta correlazione di tali principi con l’esplicazione della vita familiare come è stato di recente affermato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel caso VMA c./Stolichna obshtina, rayon Pancharevo (sentenza del 14 dicembre 2021 nella causa C-490/2020).
In conclusione va quindi ribadito il quesito che il Collegio pone all’attenzione del Primo Presidente ed eventualmente alle Sezioni Unite unitamente agli altri che derivano dalla motivazione sin qui svolta.
Se cioè la sentenza della Corte Costituzionale n. 33/2021, accertando l’inidoneità del ricorso in questa materia all’adozione in casi particolari, L. n. 184 del 1983, ex art. 44, lett. d) abbia determinato il superamento del diritto vivente rappresentato dalla sentenza n. 12193/2019 delle Sezioni Unite.
Se la non attuazione del monito rivolto al legislatore dalla stessa sentenza n. 33/2021 abbia determinato di conseguenza un vuoto normativo.
Se, e come, sia superabile in via interpretativa tale situazione di vuoto normativo non potendosi più il giudice, sia ordinario che di legittimità, riferire al preesistente diritto vivente che, in base alla motivazione della sentenza della Corte Costituzionale, non è idoneo a impedire la lesione dei diritti fondamentali del minore a causa del generale mancato riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore d’intenzione e nello stesso tempo per l’inadeguatezza della soluzione offerta dall’istituto di cui alla L. n. 184 del 1983, art. 44, lett. d).
Se una possibile interpretazione adeguatrice consentita alle Corti possa consistere nel configurare la valutazione del conflitto del riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore di intenzione con l’ordine pubblico internazionale, spettante al giudice investito della richiesta di delibazione, come valutazione legata al singolo caso in esame, secondo criteri di inerenza, proporzionalità e ragionevolezza per come affermati dalla giurisprudenza costituzionale specificamente nell’ottica della ricerca della soluzione ottimale in concreto per l’interesse del minore.
Se in tale valutazione il giudice debba mettere a confronto, in concreto, l’interesse del minore a che vengano rispettati i suoi diritti fondamentali alla identità personale e alla vita familiare con la tutela della dignità della donna coinvolta nel processo procreativo mediante gestazione per altri, con la prevenzione di qualsiasi attentato che, sempre in concreto, possa derivare dal riconoscimento all’istituto dell’adozione, con la legittima aspirazione dello Stato a scoraggiare pratiche elusive del divieto di surrogazione di maternità.
Se i criteri generali indicati nella motivazione della presente ordinanza (adesione libera consapevole e non determinata da necessità economiche da parte della donna alla gestazione, revocabilità del consenso alla rinuncia all’instaurazione del rapporto di filiazione sino alla nascita del bambino; necessità di un apporto genetico alla pro-creazione da parte di uno dei due genitori intenzionali; valutazione in concreto degli effetti dell’eventuale diniego del riconoscimento sugli interessi in conflitto), eventualmente in aggiunta o combinazione con altri criteri generali, debbano o possano assumere il ruolo di una direttiva nell’interpretazione cui debba attenersi il giudice del merito.
Se infine derivi anche dal diritto dell’Unione Europea un limite alla possibilità di non riconoscere lo status filiationis acquisito all’estero da un minore cittadino italiano nato da gestazione per altri legalmente praticata nello Stato di nascita nella misura in cui tale disconoscimento comporti la perdita dello status e limiti la sua libertà di circolazione e di esplicazione dei suoi legami familiari nel territorio dell’Unione.
P.Q.M.
La Corte rimette gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 18 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2022