Tribunale di sorveglianza di Firenze, ordinanza n. 632 del 18 febbraio 2020
TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA DI FIRENZE
Il Tribunale
Il giorno 4.02.20 in FIRENZE si è riunito in Camera di Consiglio nelle persone dei componenti:
Dott. Marcello BORTOLATO Presidente
Dott.ssa Valeria MARINO Magistrato di sorveglianza
Dott.ssa Simona BALDINI Esperta
Dott.ssa Rosa MANFREDI Esperta
sentito il Sostituto Procuratore Generale Dott.sa Luciana PIRAS che ha espresso parere favorevole, nonchè la difesa; ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
visti ed esaminati gli atti relativi alla procedura di sorveglianza nei confronti di A. L., nata a NAPOLI (NA) il ___-1969, detenuta presso la Casa Circondariale di FIRENZE SOLLICCIANO in esecuzione della pena determinata con provvedimento di cumulo del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Asti dell’11.09.18 (fine pena: 11.04.31), avente ad oggetto RECLAMO AVVERSO RIGETTO DI RECLAMO GIURISDIZIONALE IN MATERIA DI DIRITTI EX 35-BIS O.P.
MOTIVAZIONE
Con ordinanza in data 11.09.19 il Magistrato di sorveglianza di Firenze rigettava un reclamo ex art. 35-bis o.p. avanzato dalla detenuta con il quale la stessa chiedeva di vedere riconosciuto ed assicurato il proprio diritto all’assegnazione ad un reparto femminile e ad ottenere un risarcimento ai sensi dell’art. 35-ter o.p. in relazione al danno subito a causa della sua ubicazione nell’attuale reparto ‘transgender’ del carcere di Sollicciano. Giova premettere in fatto quanto segue.
La detenuta nasce con i caratteri sessuali maschili e all’anagrafe risultava iscritta con il nome di ‘A. L.o’. Con sentenza del Tribunale civile di Firenze del 27.09.17 l’A. otteneva la rettificazione delle generalità e del sesso sugli atti di stato civile ed era autorizzata ad adeguare i caratteri sessuali da maschili a femminili mediante trattamento medico-chirurgico. La detenuta ha così ottenuto presso gli uffici di stato civile la rettificazione di sesso e le nuove generalità di ‘A. L.’ con sentenza passata in giudicato.
Sino alla data odierna la donna peraltro non si è sottoposta ad intervento chirurgico per la modifica degli organi genitali, che pertanto sono e allo stato rimangono maschili.
L’A., come emerge dalla sentenza del Tribunale civile, ha intrapreso da anni le terapie ormonali finalizzate al cambio di sesso, sentendosi – fin dall’età di 10 anni – una donna nel corpo di un uomo. Rivoltasi dapprima all’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli e poi all’Ospedale fiorentino di Careggi, le veniva diagnosticata in modo chiaro ed inequivoco una disforia di genere ed un’evidente volontà di effettuare la riassegnazione chirurgica del proprio sesso. Il giudice civile, premesso che, in chiaro allineamento con la giurisprudenza costituzionale (v. Corte cost. sent. n. 221/15), doveva escludersi il carattere necessario dell’intervento chirurgico ai fini della rettificazione anagrafica – essendo rimessa al singolo la scelta delle modalità attraverso cui realizzare il proprio percorso di transizione, che deve comunque riguardare “gli aspetti psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre l’identità di genere, alla stregua dell’irriducibile varietà delle singole situazioni soggettive” – accoglieva la domanda della detenuta. La chiara disforia di genere (di ‘grado elevato’) risultava poi associata ad una sofferenza clinicamente significativa ed a compromissione del funzionamento in ambito sociale. Tanto forte era il desiderio di appartenere al genere femminile che già dai primi anni di detenzione (2008) l’A. si sottoponeva a intense terapie con farmaci antiandrogeni ed estroprogestinici oltre ad assumere in maniera stabile un “ruolo” di genere femminile, tanto da far ritenere ormai compiuto in maniera irreversibile il suo percorso di identificazione con il genere opposto in cui il trattamento chirurgico, sebbene rappresenti il mezzo finale per il conseguimento del suo benessere psichico e fisico (ponendo definitivo rimedio al ‘rifiuto’ della propria morfologia anatomica), tuttavia non appariva necessario per la definitiva rettificazione anagrafica.
Nella sentenza si dava atto inoltre che durante la detenzione nel carcere di Sollicciano – ove ella era già reclusa al tempo della pronuncia del Tribunale civile – essendole precluso il collocamento nel reparto femminile, oscillava tra spostamenti nel reparto transex e l’isolamento nell’area ‘transito’ con continue frizioni con il personale e con gli altri reclusi e con gravi ripercussioni sul suo stato psico-fisico. Prima della rettificazione di sesso, è stata classificata nella tipologia ‘protetti’ (2008-2013), indi in quella ‘omosessuale’ (2015), infine in quella ‘transessuale’ (2016 a tutt’oggi).
Attualmente la donna è ancora ubicata nel reparto ‘transgender’ del carcere di Sollicciano, ove è rientrata, dopo un periodo presso il carcere di Napoli Poggioreale, il 22.03.17.
Fin dalla prima assegnazione a Sollicciano (avvenuta per un anno dal 2015 al 2016) la donna ha sempre rifiutato la sistemazione nel reparto ‘transessuali’ e per questo è stata allocata per un lungo periodo nel reparto ‘degenti’ pur essendole consentito di recarsi quotidianamente nella sezione femminile ma, avendo le sue intemperanze ed instabilità di umore creato notevole tensione, è stata allocata definitivamente nel reparto ‘transito’ in una camera singola, sempre all’interno della sezione ‘transgender’, allocazione che ella contesta quasi quotidianamente, ritenendo suo diritto essere ubicata nel reparto femminile, chiedendo in particolare di avere a disposizione una camera al piano terra di detto reparto, camera che, lontana dalle sezioni e vicina al corpo di guardia ed al reparto ‘mamme con bambini’, viene generalmente utilizzata per situazioni di emergenza.
Da qui il reclamo al magistrato di sorveglianza nel quale la donna lamentava che, nonostante le continue richieste di essere trasferita nel reparto femminile, l’Amministrazione penitenziaria continuava a mantenerne l’allocazione nella sezione ‘transessuali’, uno spazio bensì ricavato all’interno della sezione femminile ma da esso totalmente separato, con notevoli difetti e carenze strutturali, prima fra tutte la mancanza di una stanza dedicata alla socializzazione ed apposite stanze dedicate a colloqui con avvocati ed operatori.
La sezione ‘transex’ costituisce nel carcere di Sollicciano uno spazio separato destinato alla detenzione di persone ‘transgender M to F’, persone che all’atto del primo ingresso mostrano un dato anagrafico maschile ma caratteri esteriori femminili, uno spazio che sconta le problematiche gestionali di un reparto residuale in cui lo stesso personale è misto ma principalmente composto da agenti di Polizia penitenziaria di sesso maschile (alla data odierna esso ospita 9 ‘transgender’ ed è composto da personale di servizio esclusivamente maschile: v. nota della Direzione del 3.02.20). Detto reparto è altresì caratterizzato da discrezionalità amministrativa nella scelta delle persone da assegnare, sulla base del riconoscimento di una discrasia tra identità anagrafica e identità di genere che viceversa nel caso della A. non esiste più, avendo ella oramai ottenuto la rettificazione anagrafica. Pertanto, esponeva la reclamante, le ragioni della sua allocazione nel reparto transex, e cioè quelle protettive e di riconoscimento sociale che l’Amministrazione accorda a situazioni di identità di genere ‘in transizione’, erano del tutto venute meno, facendo sorgere in capo all’Amministrazione penitenziaria l’obbligo di assegnarla al reparto femminile in accordo con il suo sesso anagrafico e con la propria identità di genere. Ogni riferimento a questioni gestionali o di sicurezza, rivendicate in contrario dalla Direzione del carcere, doveva trovare il limite insuperabile del rispetto dei diritti individuali come definiti dagli artt. 2 e 3 Cost. e 3 e 8 CEDU: un generico riferimento alla promiscuità ed alla sicurezza non poteva essere dedotto dall’Amministrazione. Quanto al ‘grave’ pregiudizio la reclamante segnalava che la protrazione della sua detenzione all’interno di un reparto ‘transgender’ comportava una palese violazione del diritto ad essere in condizioni conformi al principio di dignità umana essendo l’identità di genere uno degli aspetti che fondano il concetto di dignità dell’uomo (come ad es, affermato dalla CEDU nel caso Y.Y. c. Turchia del 10.03.15) e dunque in palese violazione dell’art. 3 della Conv. europea.
Per questi motivi non si limitava a chiedere l’assegnazione al reparto femminile dell’istituto ma chiedeva altresì, ai sensi dell’art. 35-ter o.p., una riduzione di pena ancora da espiare di un giorno per ogni 10 durante il quale aveva subito il pregiudizio.
La Direzione dell’istituto, con nota del 4.02.19, esponeva che l’A. era di fatto autorizzata a partecipare alle attività del reparto femminile pur continuando ad essere ubicata nel reparto transex e che l’ipotesi di inserirla nella sezione femminile era stata ritenuta ‘non opportuna’ per le reazioni che la sua presenza certamente avrebbe scatenato in almeno una parte della popolazione femminile ivi presente e per il rischio che l’interessata, avvertendo di non essere accettata, potesse subire una deflessione dell’umore giungendo a livelli di criticità peggiori di quelli conosciuti in passato. La Direzione Generale dei detenuti e del trattamento, con nota del 17.01.18, aveva pienamente avallato detta decisione. Con l’ordinanza sopra citata il Magistrato di sorveglianza, nel respingere il reclamo (con parere favorevole al suo accoglimento viceversa espresso dal P.M.) pur affermando che le ragioni di ordine pubblico interno al carcere addotte dall’amministrazione non possono essere poste a fondamento di una decisione che comprima i diritti soggettivi del detenuto (posto che sarebbe bastato intensificare la presenza della polizia penitenziaria) stabiliva che proprio sulla base della normativa vigente (art. 14 o.p. come riformato dal D.Lgs. 123/2018) l’amministrazione penitenziaria aveva operato la giusta scelta di allocare l’A. nel reparto ‘transgender’ avendo l’obbligo di tenere in considerazione le sue caratteristiche personali e dunque inserendola in un reparto caratterizzato dalla ‘omogeneità’ della categoria di riferimento. In particolare evidenziava il magistrato che, essendo comunque garantita la partecipazione a tutte le attività trattamentali, eventualmente anche insieme alla restante popolazione femminile, la A. era una persona ‘transessuale’ non avendo ancora completato la transizione dal punto di vista biologico. Non vi era, in altre parole, incompatibilità tra le due categorie, posto che la detenuta appartiene ad entrambe e di volta in volta può venire in rilievo l’una piuttosto che l’altra in relazione ai diversi contesti (nella motivazione si fa l’esempio di un problema di salute della detenuta relativo agli organi genitali che dovrebbe essere valutato da un urologo e non da un ginecologo). Richiamava il giudice in particolare l’art. 1 o.p. secondo cui il trattamento penitenziario deve essere individualizzato e dunque calibrato sulle specifiche condizioni del condannato\condannata e pertanto la sua condizione fisica attuale (donna con organi genitali maschili) non poteva essere ignorata ai fini del suo collocamento in un reparto piuttosto che nell’altro. In tale contesto l’Amministrazione penitenziaria ha preso la decisione di assegnare la A. al reparto transex cioè “nel reparto che è riservato esattamente alle persone che si trovano nelle sue stesse condizioni”. Concludeva il magistrato non riconoscendo in capo alla detenuta il diritto soggettivo di essere allocata sic et simpliciter nel reparto femminile e che la sua allocazione nel reparto transgender non doveva considerarsi lesiva della sua dignità, considerato altresì che assecondando la richiesta della reclamante si sarebbe viceversa dato riconoscimento ad un ingiustificato pregiudizio discriminatorio nei confronti dei soggetti transessuali con cui la detenuta non voleva confondersi. Da ultimo affermava la sussistenza di un diritto soggettivo in capo alle donne detenute nel carcere di Sollicciano di non essere costrette a convivere (dormire, fare le docce, usare i bagni etc.) con persone dotate di organi genitali maschili e pertanto l’Amministrazione penitenziaria ha il dovere giuridico di collocare i detenuti transgender “in reparti separati ed omogenei per attuare il trattamento individualizzato voluto dal legislatore per le persone che hanno le stesse caratteristiche psicofisiche”.
Avverso tale provvedimento proponeva personalmente reclamo la detenuta deducendo che la sentenza, più volte ricordata, del Giudice civile aveva ormai rettificato il genere e l’identità anagrafica della detenuta, smentendo integralmente quanto affermato dal magistrato di sorveglianza e dovendosi pertanto escludere in maniera categorica l’appartenenza alla categoria ‘transgender’. Osservava inoltre che l’intervento chirurgico era stato una prima volta rinviato nel giugno 2018 soltanto perché non era stata adeguatamente informata delle conseguenze sul piano fisico e della particolare convalescenza che avrebbe dovuto subire all’esito dell’ablazione degli organi genitali maschili.
Insisteva dunque per essere assegnata, in camera singola, nel reparto femminile.
All’udienza la detenuta, ribadita la sua volontà di assegnazione al reparto femminile, affermava di non aver nulla contro i transessuali ma di voler dimenticare “quello che era stata” e la sua sofferenza di quella precedente vita da “transessuale” in cui non si riconosce più e di cui invece è costretta a pagare ancora le conseguenze, di aver subito spesso umiliazioni da parte di alcune compagne della sezione ‘transex’ e di non voler partecipare con esse alle attività comuni. Sostanzialmente indifferente al genere del personale di Polizia penitenziaria addetto al reparto (è ben consapevole di non poter essere perquisita da personale femminile fintanto che non sarà operata), è ora in attesa dell’intervento fissato per il 16 marzo 2020.
Ciò premesso, si osserva quanto segue.
In primo luogo, nonostante l’espressa sollecitazione da parte del magistrato di sorveglianza con nota indirizzata al DAP in data 7.11.19 (in atti) non si è proceduto da parte dell’Amministrazione penitenziaria alla rettificazione negli atti ufficiali delle generalità della detenuta che, a tutt’oggi, risulta ancora immatricolata come A. L.o, categoria Media sicurezza. Protetto – Transex’ (v. risposta Direzione Generale Detenuti e trattamento 29.11.19).
Per quanto riguarda l’attuale trattamento al quale è sottoposta la condannata, dall’ultimo aggiornamento della relazione di sintesi (datato 22.01.20) emerge che alla detenuta sono state proposte varie attività (scuola, laboratorio delle bambole, sartoria, scrittura creativa) che sostanzialmente essa rifiuta o ha abbandonato dopo una brevissima partecipazione. La motivazione del rifiuto è che si tratta di attività alle quali possono in astratto partecipare anche i transessuali con i quali l’A. non vuole condividere la carcerazione. La donna inoltre rifiuta financo di chiedere la liberazione anticipata e di accettare la proposta, che pure le è stata fatta, di un lavoro all’esterno ex art. 21 o.p.
Per quanto riguarda l’intervento chirurgico sono in corso le visite multidisciplinari presso l’Ospedale di Careggi nella prospettiva della definitiva fissazione (allo stato prevista per il 16 marzo p.v.).
Vi è in atti relazione dell’esperto psicologo ex art. 80 o.p. dalla quale risulta che, personalità con tratti marcatamente istrionici (costante richiesta di attenzione), l’A. ostenta la sua condizione percependo il contesto detentivo che non le riconosce l’identità femminile come vissuto persecutorio e come un inasprimento della pena; ella inoltre accentua il suo vissuto di persona emarginata. Nel confronto con l’esperienza detentiva femminile, che le è stato offerto sotto il profilo della partecipazione alle attività comuni con le donne, essa ha dato adito a dinamiche contrastanti con la popolazione detenuta a causa della sua scarsa capacità di mediazione, rivelando una strutturazione rigida della personalità “in cui prevale un ideale femminile molto elevato ed ormai fuori tempo riconducibile alla cultura di appartenenza”.
Spesso mette in atto comportamenti non consoni numerosi ancora gli atti di autolesionismo (riferisce ingestioni di corpi estranei che di solito non corrispondono al vero e per i quali rifiuta gli accertamenti sanitari); numerose le sanzioni disciplinari ei comportamenti aggressivi nei confronti di alcune figure sanitarie. Peraltro dimostra con gli interlocutori penitenziari atteggiamenti collaborativi con buona capacità comunicativa e di esternazione del proprio vissuto. Seppur faticosamente ha sviluppato un attaccamento all’ambiente detentivo che vive in maniera rassicurante e familiare percependo talvolta le regole penitenziarie in modo funzionale al contenimento della sua personalità, pur mantenendo la sua pressoché quotidiana richiesta di essere allocata nel reparto femminile.
Ciò premesso in fatto, ritiene il Tribunale di accogliere il reclamo.
In primo luogo, deve essere riconosciuto il comportamento gravemente lesivo dell’Amministrazione (ma non, per il vero, della Direzione del carcere) nel continuare ad attribuire alla detenuta, nonostante la rettificazione di sesso (disposta con sentenza passata in giudicato ormai tre anni orsono) e nonostante, da ultimo, la segnalazione del Magistrato di sorveglianza del novembre scorso, le generalità maschili.
Non è nemmeno il caso di sottolineare che tale ostinato comportamento si pone in netto contrasto con l’art. 1, comma 1, dell’ordinamento penitenziario che impone di assicurare ai detenuti un trattamento rispettoso della dignità della persona. L’identità di genere è uno degli aspetti che fondano il concetto di dignità dell’uomo e costituisce, come peraltro affermato dalla sentenza 21.10.15 della Corte cost. (citata sopra), un diritto fondamentale’.
Nel caso dell’A. l’acquisizione di una nuova identità (anche anagrafica) è il frutto di un processo individuale che non postula la necessità di un avvicinamento ineludibile del soma alla psiche e quindi non presuppone l’obbligatorietà dell’intervento chirurgico (peraltro fortemente desiderato dall’interessata) che è solo uno strumento eventuale di ausilio al fine di garantire il conseguimento di un pieno benessere psichico e fisico, ma soprattutto essa è il prodotto di un rigoroso accertamento tecnico in sede giudiziale, attestato con la sentenza 27.09.17 del Tribunale civile di Firenze che ha ordinato la rettificazione nell’atto di nascita dell’attribuzione di sesso maschile a femminile con contestuale rettificazione del prenome “L.o” a “L.”.
Inspiegabilmente viceversa ancora oggi nella posizione giuridica della detenuta appaiono le precedenti generalità declinate al maschile, in aperta contraddizione con l’art. 5 della 1. 164/1982 che stabilisce che “le attestazioni di stato civile riferite a persona della quale sia stata giudizialmente rettificata l’attribuzione di sesso sono rilasciate con la sola indicazione del nuovo sesso e nome”.
La ‘gravità’ della lesione è insita nella stessa natura del diritto leso che, appartenendo ai diritti fondamentali, non può tollerare una così palese violazione, essendo tra l’altro pacifico che il caso sfugga al potere definitorio di un’Amministrazione penitenziaria che, del tutto arbitrariamente, continua ad attribuire alla detenuta le originarie generalità maschili.
E’ dunque fatto obbligo all’amministrazione di adeguare in tutti gli atti e provvedimenti di propria competenza le generalità della detenuta in piena conformità con la statuizione del giudice civile.
Ciò detto, deve ora affrontarsi la questione della sua allocazione all’interno dei reparti detentivi. Va innanzitutto sottolineata la particolarità del carcere di Sollicciano, una delle poche realtà in Italia ad aver istituito un tertium genus di tipologia detentiva ‘informale’, non prevista da alcuna fonte normativa: la sezione ‘transgender’ (Reparto D). In Italia, infatti, la gestione della popolazione detentiva si era svolta storicamente con la separazione per sesso secondo il binarismo normativo maschile/femminile, risolvendo anche il problema della promiscuità attraverso la strategia della ‘eliminazione del rischio’ (assumendo peraltro l’eterosessualità come la norma). Il dove collocare i detenuti/detenute si è dunque sempre storicamente risolto a partire dalla biologica identità genitale, per cui le persone transgender sono sempre state collocate in aree comuni nel reparto maschile e solo per necessità gestionali si è sviluppata la prassi (cfr. Circolare DAP 2.05.01 prot. n. 500422) della allocazione nelle classiche sezioni ‘protette’, sempre all’interno del reparto maschile (essendo il fenomeno caratterizzato pressoché quasi esclusivamente da persone transessuali ‘Male to Female’), in ciò seguendo un paradigma discriminatorio assai forte, censurato in sede europea (cfr. sent. CEDU X c. Turchia 9.10.12 che ha condannato lo Stato per aver collocato un detenuto omosessuale in isolamento continuato in funzione protettiva anziché, come richiedeva, insieme ad altre persone omosessuali). Successivamente si è sviluppata una prassi volta a scardinare tale catalogazione individuando spazi autonomi di incarceramento, creando apposite sezioni per ‘transessuali’, come nel caso di Sollicciano. Tuttavia la particolarità di quest’ultimo istituto sta nel fatto che la sezione è stata ricavata non già all’interno delle sezioni comuni maschili ma all’interno di quella femminile, pur mantenendo una stretta separazione interna. Tale reparto inoltre presenta gravi carenze, mancando ad es. una stanza dedicata alla socializzazione ed apposite stanze dedicate a colloqui con avvocati ed operatori e dunque mantenendo in tutto e per tutto un carattere di ‘specialità’ che perpetua e riproduce quel paradigma discriminatorio di cui si è detto.
Se la separatezza delle persone transgender riduce il rischio di ‘promiscuità’ (soprattutto sessuale), riduce il rischio di episodi di sopraffazione e discriminazione da parte della restante popolazione maschile (alla stregua di una mentalità carceraria che non accetta la figura del ‘trans’), rende indipendente il trattamento rispetto allo spazio femminile (ad es. con la scelta di personale quasi esclusivamente maschile), tuttavia essa ha determinato una scarsità di offerte trattamentali e di attività specifiche per le persone transgender, circostanza che è derivata, al di là delle buone intenzioni dell’Amministrazione (che, ricavando il Reparto D proprio all’interno della sezione femminile, voleva in contrario favorire attività congiunte con le donne), dai costanti problemi tra detenute donne e detenute transgender nello svolgimento delle attività comuni (problemi di cui si dà ampiamente atto nella motivazione dell’ordinanza impugnata). La ‘residualità’ dell’intervento trattamentale nei confronti delle persone transgender si accompagna anche ad un universo semantico e linguistico tutto ‘al maschile’, oltre ad una costante precarietà della condizione trattamentale che non fa che aumentare la percezione di un reparto assai ‘scomodo’, la percezione, soprattutto, di un reparto provvisorio destinato alla soluzione di problemi spesso temporanei e secondari e, ciò che più conta ai fini di quello che si dirà, di un reparto che perpetua nel tempo e nello spazio il senso di una separatezza di chiara valenza discriminatoria, che trova la sua unica ragione d’essere nella disposizione dell’art. 32 Reg. (la quale consente all’amministrazione di raggruppare detenuti per i quali ‘si possano temere aggressioni o sopraffazioni da parte dei compagni’). Ogniqualvolta l’amministrazione di Sollicciano si trovi a dover far fronte all’inadeguatezza dell’individuo rispetto al binarismo normativo, l’assegnazione al reparto transgender si presenta di fatto come l’unica risposta effettiva ai problemi di gestione e sicurezza dell’istituto.
Orbene, con questa realtà si deve quotidianamente confrontare l’odierna reclamante che, ottenuta la rettificazione di sesso, rivendica viceversa il pieno diritto di essere collocata nella sezione femminile, respingendo, come è evidente da quanto affermato dalla stessa, quell’esigenza di protezione che percepisce come discriminatoria nei suoi confronti, tutt’affatto appartenendo alla categoria delle persone ‘transgender’.
Tale diritto le va pienamente riconosciuto.
Va preliminarmente osservato su questo punto che non spetta al Tribunale in questa sede prendere posizione sul complesso tema dell’identità sessuale, posto che è ben noto come secondo i più recenti orientamenti le identità maschile e femminile non esauriscano affatto le possibili identità: l’identità di genere infatti non corrisponde alla semplificazione dualistica uomo/donna ma è un continuum che dal maschile porta al femminile e viceversa. Tuttavia il decidente deve fare i conti con la fattuale (e storica) separazione per sesso secondo il binarismo normativo maschile/femminile che vuole risolvere il problema della promiscuità (cioè in una parola il problema della sessualità in carcere) attraverso la strategia della ‘eliminazione del rischio’. Orbene, ciò comporta che necessariamente la popolazione detenuta vada suddivisa tra uomini e donne, non esistendo normativamente un tertium genus (cfr. art. 14 co. 5 o.p.) e dunque la disciplina delle allocazioni va necessariamente ricondotta entro le coordinate normative dell’art. 14 cit.
La reclamante, oltre ad essere anagraficamente donna (benché l’Amministrazione non la riconosca come tale negli atti ufficiali) manifesta il forte desiderio di essere riconosciuta nella sua identità femminile, indipendentemente dalla corrispondenza biologica del suo sesso a quello giuridico (attribuito in forza della pronuncia giudiziale quale punto di arrivo di un percorso identitario ormai compiuto e indipendente dalla necessità dell’intervento chirurgico di riassegnazione). Ciò impone la fuoriuscita da una categoria (di pura creazione amministrativa e nata solo per esigenze gestionali tutte interne all’amministrazione) e da una sezione, quella ‘transex’, in cui non si riconosce e l’assegnazione alla quale respinge con dignitosa fermezza. La detenuta, come prevede il disposto dell’art. 14, comma 5, o.p., va dunque assegnata ai reparti femminili essendo, a tutti gli effetti, ordinamentali e giuridici in senso lato, di sesso femminile.
Ciò detto, deve porsi il problema se le esigenze di ‘protezione che l’amministrazione vanta nei suoi confronti (posto che le altre ragioni addotte, di mera opportunità o di difficoltà di gestione interna, sono del tutto irrilevanti non trovando alcun riscontro normativo né nell’art. 14 o.p. né nell’art. 32 Reg.) ne autorizzino l’allocazione (ormai di fatto divenuta definitiva) nella sezione ‘transgender’ senza che la stessa abbia mai prestato il suo consenso.
La risposta non può che essere negativa.
La materia è stata fortemente incisa dalla novella legislativa del 2018 (d. lgs. 2.10.18 n. 123) che ha modificato l’ultimo comma dell’art. 14 cit..
In esso si prevede che l’assegnazione dei detenuti “per i quali si possano temere aggressioni o sopraffazioni da parte della restante popolazione detenuta, in ragione solo dell’identità di genere o dell’orientamento sessuale, deve avvenire, per categorie omogenee, in sezioni distribuite in modo uniforme sul territorio nazionale previo consenso degli interessati i quali, in caso contrario, saranno assegnati a sezioni ordinarie”.
La novella consegna una norma volta esclusivamente alla protezione del soggetto che si senta in pericolo se posto insieme a compagni di detenzione che non condividano la sua condizione in relazione alla propria identità di genere, perciò inviso a causa di una deprecabile subcultura carceraria. Se la persona non voglia più, pertanto, consentire all’allocazione separata, dovrà essere inserita in una sezione comune e, in quel contesto, l’amministrazione dovrà fare buon uso della sua discrezionalità nella scelta della collocazione comunque più adatta a consentirne l’evoluzione trattamentale. E’ questo, in altre parole, il superamento delle sezioni cd ‘protette’ attraverso la valorizzazione, per la prima volta, della volontà del detenuto in ordine alla sua allocazione nei reparti detentivi.
Nel caso di Sollicciano ovviamente non si è difronte ad una sezione ‘protetta’ promiscua (che raccolga cioè persone condannate per reati ritenuti di particolare riprovazione sociale: sex offenders, appartenenti alle forze dell’ordine oppure soggetti discriminati per via del loro orientamento sessuale) ma ad una sezione ‘protetta’ per sole persone transessuali che, peraltro, soddisfa i caratteri della ‘omogeneità’ (raccoglie infatti, ad accezione della A., persone che, indipendentemente dal reato commesso, si identificano nel genere femminile pur non avendo chiesto od ottenuto la rettificazione di sesso) e che, si presume, hanno prestato il loro consenso ad esservi inserite.
L’espressa tutela antidiscriminatoria prevista dall’art. 1, co. 1, o.p. impone che le persone vi siano allocate solo se richiedono protezione e solo con il loro consenso: non è pacificamente il caso della detenuta A. la quale non solo non richiede protezione dalle proprie compagne del sesso di riferimento, non solo non presta il consenso alla permanenza nel reparto ma in più non vi rientra nemmeno per ‘omogeneità’ avendo avuto il definitivo riconoscimento giudiziale della propria identità femminile.
Va dunque affermato il diritto della detenuta ad essere assegnata ai reparti femminili ordinari.
Deve ora porsi il problema – che viene espressamente affrontato nell’ordinanza impugnata – del possibile rifiuto da parte della compagne del reparto femminile ad accogliere la A..
Lo stesso magistrato di sorveglianza afferma che “ragioni di ordine pubblico interno al carcere addotte dall’amministrazione non possono essere poste a fondamento di una decisione che comprima i diritti soggettivi del detenuto” e ciononostante respinge il reclamo sulla scorta di una presunta omogeneità con le persone transgender per non aver “ancora completato la transizione dal punto di vista biologico”, circostanza quest’ultima, come si è visto, del tutto inconferente. Va negato, per le stesse ragioni, che esista un “diritto soggettivo” in capo alle donne detenute nel carcere di Sollicciano di non essere costrette a convivere con persone che non hanno ancora operato la riassegnazione di sesso biologico, trattandosi in ogni caso di persona avente la loro stessa identità di genere, giudizialmente riconosciuta.
E’ evidente che l’Amministrazione, all’atto della collocazione nei reparti femminili, sceglierà non solo la posizione più idonea – vista la particolarità del caso (che non può ovviamente essere sottaciuta anche per la caratteristiche comportamentali e la personalità della A., come sopra ampiamente ricordate) – a garantire le esigenze di naturale (ben comprensibile) riservatezza di ciascuna ristretta, ivi compresa la possibile (se ritenuta indispensabile) allocazione in una camera singola, ma anche adotterà forme di tutela delle posizioni degli operatori penitenziari, disponendo, ad es., che le eventuali perquisizioni corporali sulla detenuta continuino ad essere compiute da personale maschile. Ciò che non dovrà mai mancare sarà la permanenza anche notturna nel reparto femminile, la possibilità di condividere le attività e gli spazi comuni alla popolazione femminile e la partecipazione ad attività trattamentali (offerte ma mai imposte) ivi previste, idonee a consentire l’evoluzione di un percorso trattamentale libero e pienamente voluto dalla detenuta e meglio confacente allo sviluppo della sua personalità. Nel caso in cui si dovessero sviluppare forme di rifiuto più o meno mascherate o, addirittura, atti di sopraffazione o violenza da parte delle compagne, l’Amministrazione adotterà forme di cautela, che potranno anche comportare la separazione temporanea della A. dal resto della popolazione femminile, ma pur sempre all’interno della sezione femminile e con l’obbligo (previsto dall’art. 32 Reg.) di una costante verifica e riesame delle ragioni della permanenza e senza la necessità di una ricollocazione in reparti diversi (maschili, ‘protetti’ o ‘transex’).
Per quanto riguarda l’originaria domanda relativa alla compensazione ex art. 35-ter o.p. (respinta dal giudice di prime cure), si osserva che nel reclamo avanti al Tribunale essa non è stata più riproposta e pertanto si deve ritenere non più oggetto di decisione.
In definitiva, affermato il diritto della A. ad essere assegnata al reparto detentivo corrispondente alla sua identità di genere e vietata la permanenza, senza il suo consenso, nella sezione di attuale allocazione, va ordinato all’Amministrazione di adottare, entro il termine che si ritiene congruo di 30 giorni, tutti i provvedimenti conseguenti e idonei ad assicurare un trattamento penitenziario ed un trattamento rieducativo confacenti all’evoluzione della sua personalità, nel pieno rispetto della sua dignità, senza discriminazioni ed adottando, se del caso, ogni più opportuna cautela per la tutela della sua incolumità psicofisica.
P.Q.M.
visti gli artt. 1, 14, 35-bis e 69 o.p. e 678 c.p.p.
in integrale accoglimento del reclamo proposto, annullata l’ordinanza impugnata, ordina all’Amministrazione penitenziaria:
1) di rettificare in tutti gli atti e provvedimenti di competenza del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria le generalità della detenuta in piena conformità con la statuizione del giudice civile di cui alla sentenza del Tribunale ordinario di Firenze in data 27.09.17, assegnandole la rettificazione di sesso e le nuove generalità di ‘A. L.’;
2) di impartire a tutto il personale l’ordine di rivolgersi alla detenuta A. L. al femminile e con le modalità dovute ad una donna e di disporre le più opportune modalità in materia di perquisizioni ed ispezioni corporali in maniera tale da non ledere la sua dignità;
3) di assegnare A. L. al reparto detentivo femminile, corrispondente alla sua identità di genere, vietandone la permanenza, senza il suo consenso, nella sezione ‘transessuali’ del carcere di Firenze-Sollicciano o di qualunque altro istituto dotato di apposita sezione avente le stesse caratteristiche;
4) di adottare ogni più idoneo provvedimento ad assicurare un trattamento confacente all’evoluzione della sua personalità, nel pieno rispetto della sua dignità e senza discriminazioni in ragione della identità di genere od orientamento sessuale;
5) di adottare ogni più opportuna cautela per la tutela della sua incolumità psicofisica nel pieno rispetto delle disposizioni di cui agli artt. 14 o.p. e 32 Reg..
Assegna termine di giorni trenta dalla comunicazione della presente ordinanza per l’adozione dei provvedimenti di cui ai capi che precedono.
Manda per le notifiche e comunicazioni prescritte.
Firenze, li 4.02.20
Il Presidente est.
dott. Marcello Bortolato
Depositato in cancelleria i 18/02/2020