Cassazione civile, sezione prima, ordinanza del 20 Luglio 2018, n. 19443
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –
Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –
Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –
Dott. DI MARZIO Fabrizio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
sul ricorso 13996/2015 proposto da:
T.C., elettivamente domiciliato in (*),
– ricorrente –
contro
Associazione Avvocatura per i Diritti LGBTI – Rete Lenford, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma *;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 529/2014 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, pubblicata il 23/01/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/05/2018 dal cons. NAZZICONE LOREDANA;
lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Brescia con sentenza del 23 gennaio 2015 ha respinto l’impugnazione proposta avverso l’ordinanza del Tribunale di Bergamo, in funzione di giudice del lavoro, in data 6 agosto 2014, la quale ha dichiarato illecito, in quanto a carattere discriminatorio, il comportamento tenuto dall’odierno ricorrente, consistito nell’avere egli affermato, nel corso di un’intervista radiofonica, di non volere assumere e di non volersi avvalere della collaborazione, nel proprio studio, di persone omosessuali, condannandolo al risarcimento del danno nella misura di Euro 10.000,00 ed ordinando la pubblicazione in estratto del provvedimento su di un quotidiano nazionale.
Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione il soccombente, sulla base di nove motivi, illustrati da memoria. Resiste con controricorso l’associazione intimata, depositando, altresì, una memoria.
Motivi della decisione
- – I motivi del ricorso.
Con il primo motivo, il ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione dell’art. 437 c.p.c., non avendo la corte territoriale provveduto alla lettura del dispositivo in udienza, con nullità della sentenza ex art. 156 c.p.c., comma 2, trattandosi di rito del lavoro.
Con il secondo motivo, censura la violazione o falsa applicazione degli artt. 75, 81 e 100 c.p.c., nonchè la falsa applicazione del D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, art. 5, avendo la corte del merito ravvisato la capacità processuale e la legittimazione ad agire dell’associazione, mentre questa è composta esclusivamente da avvocati, o praticanti tali, ed è specializzata nella difesa giudiziaria dei diritti di tali persone, restando dunque priva di rilievo l’enunciazione dell’intento di diffonderne la “cultura”, mero presupposto ideologico dell’associazione medesima; viceversa, un’associazione può dirsi portatrice di interessi collettivi ed ente di essi esponenziale solo ove partecipata dai soggetti attivi di tali interessi.
Con il terzo motivo, lamenta la violazione o falsa applicazione delle regole sulla competenza, non sussistendo quella funzionale del giudice del lavoro, con conseguente violazione dell’art. 158 c.p.c., e carenza di potere giurisdizionale; infatti, non si tratta di una controversia neppure “latamente” di lavoro, come invece affermato dalla sentenza impugnata, non essendo mai stato dedotto un rapporto di tal genere, ma solo un presunto e mai avvenuto reclutamento; nè le controversie sulle prestazioni degli avvocati sono soggette al rito del lavoro, quali liberi professionisti e non lavoratori subordinati.
Con il quarto motivo, deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 164 c.p.c., comma 3, per la mancanza nell’atto introduttivo dell’avvertimento di cui all’art. 163 c.p.c., comma 1, n. 7, il quale avrebbe in ogni caso imposto al giudice di primo grado di fissare una nuova udienza.
Con il quinto motivo, deduce la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, art. 2, comma 1, lett. a), e art. 3, posto che il ricorrente non si presentò affatto come datore di lavoro, ma, al contrario, semplicemente andava ragionando quale privato cittadino, essendosi limitato ad esprimere un’opinione in riferimento alla categoria degli avvocati: ciò era palese per il contesto stesso delle dichiarazioni, rese non a fronte di un’offerta di lavoro pubblicamente esternata, ma durante una trasmissione radiofonica scherzosa e basata sulla provocazione, in cui egli aveva espresso a tinte forti il proprio pensiero, tuttavia del tutto astratto ed avulso da qualsiasi ambito lavorativo effettivo: non si trattava, cioè, della manifestazione pubblica di una politica di assunzione, come è dato accertato, oltretutto essendo egli in pensione; mentre, nelle sentenze Europee Feryn e Asociatia, citate dal giudice del merito, vi era una procedura di assunzione in corso. Opinare il contrario comporta l’inammissibile compressione dei diritti di cui all’art. 21 Cost.. Il giudice del merito avrebbe dovuto fare applicazione della teoria dei controlimiti per il contrasto con i principi supremi del nostro ordinamento e sollevare la questione pregiudiziale comunitaria, come presupposto di ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, invece direttamente disattesa.
Con il sesto motivo, solleva la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 2, lett. a) e b), e art. 3, in relazione all’art. 21 Cost., chiedendo di proporre la questione pregiudiziale comunitaria innanzi alla Corte di giustizia dell’Unione Europea, al fine di permettere alla Corte costituzionale il controllo sul rispetto dei controlimiti suesposti.
Con il settimo motivo, il ricorrente censura la violazione del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28, con riguardo all’onere probatorio, avendo la corte del merito ritenuto onere del medesimo di provare l’insussistenza della discriminazione: ma egli ha dimostrato di non avere in corso nessuna assunzione, nè essendovi nessuna “prassi” di assunzione presso di lui, mancando così il presupposto per l’applicazione della normativa.
Con l’ottavo motivo, deduce la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28, comma 5, posto che l’associazione avversaria non ha soggettività giuridica e non avrebbe quindi potuto richiedere il risarcimento; non vi è stata nessuna condotta discriminatoria; è errato procedere alla liquidazione del danno sulla base del parametro della notorietà del ricorrente e della diffusione delle sue dichiarazioni, incongrui alla stregua dell’art. 1226 cod. civ. e rivelanti un intento di mera sanzione discrezionale; mentre la sola pubblicazione del provvedimento avrebbe potuto raggiungere lo scopo riparatorio in modo adeguato.
Con il nono motivo, censura la violazione o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., e D.M. n. 55 del 2014, art. 5, comma 6, avendo la corte territoriale accolto solo parte delle domande altrui, con parziale reciproca soccombenza; inoltre, le spese superano il massimo previsto dalla norma.
- – Le questioni processuali.
I motivi primo, terzo e quarto, sebbene pongano questioni di natura pregiudiziale di rito, non appaiono tuttavia al Collegio tali da definire la controversia.
- – Le questioni afferenti: a) la legittimazione attiva in capo ad un’associazione di avvocati; b) l’applicabilità della disciplina antidiscriminatoria sul lavoro alla manifestazione del pensiero.
La sentenza impugnata ha accertato, in punto di fatto, che, in una conversazione tenuta nel corso di una trasmissione radiofonica, l’intervistato profferì una serie di frasi, via via sollecitate dallo stesso interlocutore, al fine di sostenere il proprio astio generico per una data categoria di persone, tanto da non volerle intorno sè nel suo studio professionale, nè in una fantomatica scelta dei collaboratori; ha accertato altresì che non vi era nessuna selezione di lavoro aperta, e neppure programmata per il futuro.
Ciò posto, la controversia presenta due differenti profili, contenuti nel secondo e nel quinto motivo di ricorso, che si palesano centrali e per i quali la Corte ritiene di richiedere, in via pregiudiziale, l’intervento interpretativo della Corte di giustizia dell’Unione.
Essi prospettano, invero, a questa Corte le seguenti questioni:
- a) se un’associazione di avvocati, la quale si proponga la tutela giudiziale delle persone a differente orientamento sessuale, costituisca un ente esponenziale ai sensi dell’art. 9, comma 2, direttiva n. 2000/78/CE, per il fatto che nel suo statuto contempli anche il fine della diffusione della cultura medesima;
- b) se rientri nell’ambito della tutela antidiscriminatoria una manifestazione di pensiero contrario alla categoria delle persone omosessuali, sebbene avulso da qualsiasi procedura di assunzione ed esternato per palesare la propria opinione.
- – Prima questione: a) legittimazione attiva in capo ad un’associazione di avvocati.
4.1. – Le norme di riferimento.
4.1.1. – Il diritto dell’Unione.
La direttiva del 27 novembre 2000, n. 2000/78/CE, stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
L’art. 9, che riguarda i mezzi di ricorso, al comma 2, dispone:
“Gli Stati membri riconoscono alle associazioni, organizzazioni e altre persone giuridiche che, conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, abbiano un interesse legittimo a garantire che le disposizioni della presente direttiva siano rispettate, il diritto di avviare, in via giurisdizionale o amministrativa, per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso, una procedura finalizzata all’esecuzione degli obblighi derivanti dalla presente direttiva”.
Il considerando 29 premetteva, appunto, l’esigenza che al “fine di assicurare un livello più efficace di protezione, anche alle associazioni o alle persone giuridiche dovrebbe essere conferito il potere di avviare una procedura, secondo le modalità stabilite dagli Stati membri, per conto o a sostegno delle vittime, fatte salve norme procedurali nazionali relative alla rappresentanza e alla difesa in giudizio”.
Al riguardo, rilevano anche la raccomandazione della Commissione Europea dell’Il giugno 2013 (2013/396/UE), sui principi comuni per i meccanismi di ricorso collettivo di natura inibitoria e risarcitoria, e la comunicazione COM(2013)401, Verso un quadro orizzontale Europeo per i ricorsi collettivi, le quali si propongono di offrire un quadro giuridico preciso agli Stati, al fine di creare un sistema uniforme e coerente di tali azioni.
A proposito della legittimazione ad agire, tra i criteri ivi individuati accanto alla pertinenza tra lo scopo statutario e i diritti lesi viene sottolineata l’assenza di scopo di lucro.
4.1.2. – Il diritto interno.
Attuando il precetto ricordato, il D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, art. 5, Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, prevede, quanto alla legittimazione ad agire, che:
“1. Le organizzazioni sindacali, le associazioni e le organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso, in forza di delega, rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata, a pena di nullità, sono legittimate ad agire ai sensi dell’articolo 4, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile il comportamento o l’atto discriminatorio.
- I soggetti di cui al comma 1 sono altresì legittimati ad agire nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione”.
4.2. – Requisiti di legittimazione attiva di un’associazione.
4.2.1. – Sulla base della direttiva n. 2000/78/CE, come pure della legge nazionale, non tutte le associazioni possono agire per conto altrui oppure vantare una posizione giuridica soggettiva propria: ma soltanto quelle in capo alle quali, sotto il primo profilo, sussista un potere delegato dal titolare del diritto soggettivo, o, sotto il secondo profilo, sia riconoscibile un “interesse legittimo a garantire che le disposizioni della presente direttiva siano rispettate” o, ai sensi della terminologia interna, siano “rappresentative del diritto o dell’interesse leso”.
La tutela, predisposta dalla direttiva e dal provvedimento di attuazione, contro le condotte discriminatorie sul lavoro appartiene dunque al soggetto che le subisca e non alla collettività, non ponendosi come interesse diffuso, onde il primo è l’unico legittimato a farla valere, alla stregua delle regole generali.
Tuttavia, nel caso in cui la discriminazione risulti attuata verso un’intera categoria di soggetti coinvolti fra quelle cui la disciplina intende offrire tutela, che non sia possibile nominatim individuare dunque verso una “collettività” – subentra l’autonoma fattispecie legittimante D.Lgs. n. 216 del 2003, ex art. 5, comma 2.
In tal modo la norma, dopo aver contemplato, al primo comma, la figura ordinaria della delega conferita all’associazione perchè rappresenti in giudizio l’interesse di un soggetto determinato, ha attribuito ad essa, nel secondo comma, la rappresentanza ex lege per conto di una collettività indeterminata, postulandone la natura esponenziale degli interessi contro la discriminazione, in tale fattispecie rivolta ad una pluralità di soggetti aventi analoghe caratteristiche.
Il legislatore non ha prescelto di individuare con chiarezza inequivoca – ad esempio, mediante l’iscrizione in un registro o albo o elenco – le associazioni rappresentative di dati interessi, sulla base di precisi requisiti: come, invece, ha fatto in altri settori, legittimando all’azione o all’intervento a tutela di interessi collettivi solo le associazioni iscritte in apposito albo (cfr. elenco D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215, ex art. 5, di attuazione della direttiva direttiva 2000/43/CE, con riguardo alla discriminazione a causa della razza; D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394, art. 52, comma 1, lett. a), in tema di registro delle associazioni, degli enti e degli altri organismi privati che svolgono le attività a favore degli stranieri immigrati; D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, artt. 137 e 139, Codice del consumo, in merito al quale Cass., sez. un., 16 novembre 2016, n. 23304, ha negato all’associazione di consumatori priva del requisito dell’iscrizione nell’elenco ministeriale la legittimazione attiva) oppure formalmente individuate dalla pubblica amministrazione (v., in materia di danno ambientale, la L. 8 luglio 1986, n. 349, artt. 13 e 18, Istituzione del Ministero dell’ambiente, secondo cui le associazioni di protezione ambientale a carattere nazionale e quelle presenti in almeno cinque regioni, individuate con decreto del Ministro dell’ambiente, possono intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa).
4.2.2. – Nell’ipotesi di associazione privata, occorre, in generale, distinguere il caso in cui l’associazione agisca facendo valere un diritto altrui in forza di una delega dell’interessato, dal caso in cui operi quale portatrice di un interesse collettivo che alla stessa faccia direttamente capo, quale c.d. ente esponenziale, non costituente ex ante una posizione soggettiva in capo ai singoli, ma nato come posizione sostanziale direttamente e solo in capo all’ente, dunque sorta di “derivazione” dell’interesse diffuso, per sua natura adespota.
L’esigenza di un interesse qualificato risponde a criteri di selezione razionale dei soggetti che possano far valere un diritto in giudizio, per evitare l’espansione eccessiva dei legittimati, pur quando il fine primario sia propriamente altro, rispetto a quello di farsi portatori di un interesse prima diffuso.
Sembra, poi, che l’interesse qualificato ad agire in giudizio non si possa riconoscere – pena la tautologia – unicamente in base al fatto che si tratti di associazione di avvocati operante, per definizione, mediante le azioni legali: in tal caso, tutte le associazioni di avvocati specializzate in date controversie dovrebbero automaticamente ritenersi titolari in proprio del diritto di azione (nonchè, come nel caso di specie, del diritto a richiedere una condanna risarcitoria in proprio favore).
4.2.3. – Mancando, nella specie, un sicuro criterio formale di attribuzione della legittimazione attiva, essa va individuata volta per volta.
Il D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 5, comma 2, prevede una doppia indagine, richiedendo di accertare: a) l’impossibilità di individuare il soggetto o i soggetti singolarmente discriminati; b) la rappresentatività dell’associazione rispetto all’interesse collettivo in questione.
Una volta operato il duplice accertamento, ne deriva la titolarità ex lege della legittimazione ad agire.
L’azione proposta dall’associazione, in tal caso, è a diretta tutela dell’interesse collettivo proprio dell’ente esponenziale, legittimato a farne valere la lesione: onde il medesimo avrà, altresì, la facoltà di richiedere il risarcimento del danno in proprio favore (art. 17 direttiva n. 2000/78/CE; D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 4, comma 5; D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28, comma 5).
Il requisito sub a) postula che la discriminazione, in quanto in violazione della parità di trattamento sul lavoro, abbia colpito una categoria indeterminata di soggetti, rientrante nel disposto del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 2.
Il requisito sub b) va verificato sulla base dell’esame dello statuto associativo, il quale dovrà univocamente contemplare la tutela dell’interesse collettivo assunto a scopo dell’ente, che di esso si ponga quale esponenziale: deve, dunque, trattarsi di un interesse proprio dell’associazione, perchè in connessione immediata con il fine statutario, cosicchè la produzione degli effetti del comportamento controverso si risolva in una lesione diretta dello scopo istituzionale dell’ente, il quale contempli e persegua un fine ed un interesse, assunti nello statuto a ragione stessa della propria esistenza e azione, come tale oggetto di un diritto dell’ente stesso.
Secondo, inoltre, la ricordata raccomandazione della Commissione Europea dell’11 giugno 2013 (2013/396/UE), rileva che l’associazione sia priva di scopo di lucro. E la Corte di giustizia dell’Unione ha più volte chiarito che le raccomandazioni, pur non vincolanti in quanto non attribuiscono diritti, non sono tuttavia prive di qualsiasi effetto giuridico, perchè “i giudici nazionali sono tenuti a prenderne in considerazione il contenuto ai fini della soluzione delle controversie sottoposte al loro giudizio” (così Comunità Europee, 13-12-1989, n. C-322/88, Grimaldi).
Quindi, non deve trattarsi di un ente che agisca secondo criteri di economicità, quale equilibrio tra costi e ricavi, occorrendo che non si tratti di un’attività funzionale al procacciamento di entrate remunerative dei fattori produttivi, finalizzata almeno al detto equilibrio.
4.2.4. – La sentenza impugnata ha ritenuto l’associazione, odierna intimata, legittimata all’azione per il fatto che, secondo l’art. 2 dello statuto, l’associazione si propone, in generale, “lo scopo di contribuire a sviluppare e diffondere la cultura e il rispetto dei diritti delle persone” con date preferenze sessuali “sollecitando l’attenzione del mondo giudiziario”, e, quindi, in particolare, che essa “gestisce la formazione di una rete di avvocati… favorisce e promuove la tutela giudiziaria, nonchè l’utilizzazione degli strumenti di tutela collettiva, presso le Corti nazionali e internazionali” (p. 11-12 sentenza impugnata).
Dal momento che si tratta di un’associazione di avvocati e che lo statuto, oltre all’indicazione del fine di diffondere il rispetto dei diritti di queste persone, si incentra sullo scopo di offrire assistenza giudiziaria, si pone la questione se sia sufficiente l’enunciazione del primo fine per rendere l’associazione legittimata ad agire a tutela delle discriminazioni sul lavoro in relazione ad un proprio diretto interesse e per ottenere la condanna al risarcimento del danno in proprio favore.
- – Seconda questione: b) l’applicabilità della disciplina antidiscriminatoria sul lavoro alla manifestazione del pensiero.
5.1. – Le norme di riferimento.
5.1.1. – Il diritto dell’Unione.
L’art. 1 della direttiva del 27 novembre 2000, n. 2000/78/CE, sugli “obiettivi”, dispone:
“La presente direttiva mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento”.
L’art. 2, sulla “nozione di discriminazione”, prevede:
“1. Ai fini della presente direttiva, per “principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1.
- Ai fini del paragrafo 1:
- a) sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;
- b) sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale (…).
- La presente direttiva lascia impregiudicate le misure previste dalla legislazione nazionale che, in una società democratica, sono necessarie alla sicurezza pubblica, alla tutela dell’ordine pubblico, alla prevenzione dei reati e alla tutela della salute e dei diritti e delle libertà altrui”.
L’art. 3, concernente il “campo d’applicazione”, prevede:
“1 Nei limiti dei poteri conferiti alla Comunità, la presente direttiva, si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene:
- a) alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale, nonchè alla promozione;
- b) all’accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali;
- c) all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione;
- d) all’affiliazione e all’attività in un’organizzazione di lavoratori o datori di lavoro, o in qualunque organizzazione i cui membri esercitino una particolare professione, nonchè alle prestazioni erogate da tali organizzazioni. (..)”.
5.1.2. – Il diritto interno.
Il D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 1, rubricato “oggetto”, dispone:
“Il presente decreto reca le disposizioni relative all’attuazione della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, disponendo le misure necessarie affinchè tali fattori non siano causa di discriminazione, in un’ottica che tenga conto anche del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini”.
L’art. 2, circa la “nozione di discriminazione”, prevede:
“1. Ai fini del presente decreto (…) per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così come di seguito definite:
- a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;
- b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone. (…)”.
L’art. 3, in tema di “ambito di applicazione”, prevede:
“1 Il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall’art. 4, con specifico riferimento alle seguenti aree:
- a) accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione;
- b) occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento;
- c) accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali;
- d) affiliazione e attività nell’ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni.(…)”.
5.2. – Il confine tra discriminazione e libertà di opinione.
5.2.1. – La connessione ad un rapporto di lavoro.
L’ambito di applicazione della tutela antidiscriminatoria è riferito sia dalla fonte eurounitaria, sia dalla fonte nazionale – alla situazione che concerne l’instaurazione, l’esecuzione o la conclusione di un rapporto di lavoro.
La lettera e la ratio della direttiva 2000/78/CE, come sovente accade nelle forti eurounitarie grazie all’ampio preambolo che le caratterizza, sono particolarmente chiare.
Nel preambolo, sotto il profilo teleologico, si richiamano gli obiettivi di coordinamento tra le politiche degli Stati membri “in materia di occupazione” (considerando 7), il fine di promuovere l’inserimento sociale sul “mercato del lavoro” (considerando 8), posto che “l’occupazione e le condizioni di lavoro” sono elementi chiave per garantire pari opportunità a tutti i cittadini e contribuiscono notevolmente alla piena partecipazione degli stessi alla vita economica, culturale e sociale e alla realizzazione personale (considerando 9); si ribadisce ulteriormente che la discriminazione potrebbe pregiudicare il raggiungimento di “un elevato livello di occupazione” (considerando 11); anche le deroghe sono strettamente afferenti esigenze lavorative (considerando 13, 14, 19, 23), sempre se giustificate da obiettivi legittimi di “politica dell’occupazione, mercato del lavoro e formazione professionale” (considerando 25).
La lettera e la ratio del D.Lgs. n. 216 del 2003, non sono diverse. L’art. 1 definisce l’oggetto del decreto come recante disposizioni “relative all’attuazione della parità di trattamento fra le persone… per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro”; l’art. 2 menziona, in dettaglio, i momenti dell’accesso, della formazione, delle condizioni di lavoro (quali carriera e retribuzione), del licenziamento e dell’aderenza alle organizzazioni di lavoratori o datoriali.
La normativa eurounitaria e quella italiana di attuazione sono cioè focalizzate sulla ricerca di una parità di trattamento sul lavoro, sin dalla fase della sua instaurazione, al fine di assicurare l’aumento dell’occupazione e con esse il miglioramento delle condizioni di vita.
5.2.2. – Incidenza della tutela antidiscriminatoria sull’iniziativa economica, non sulla manifestazione del pensiero.
L’ambito proprio della tutela è perciò quello dell’autonomia negoziale, espressione del diritto di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.).
La disciplina antidiscriminatoria non appare volta ad apprestare i mezzi processuali per la tutela dell’onore, della reputazione o dell’identità personale, di cui siano titolari i citati soggetti; nè è volta ad operarne il bilanciamento con l’altrui diritto alla libera manifestazione del pensiero: categorie concettuali estranee all’ambito di applicazione, sopra richiamato, della direttiva 2000/78/CE. La libertà di manifestazione del pensiero è un diritto fondamentale, ai sensi dell’art. 10 della Carta diritti fondamentali dell’Unione Europea, dell’art. 18 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966 dall’Assemblea delle Nazioni Unite, dell’art. 9 Convenzione Europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dell’art. 21 Cost.
La disciplina in esame sembra del tutto estranea alla libertà di manifestazione del pensiero, nè sembra che intenda limitarla.
5.2.3. – L’accesso al lavoro.
Trattandosi di discriminazione, si richiede un giudizio di comparazione fra due termini: da una parte, il trattamento subito dal soggetto che se ne duole; dall’altra, quello riservato a chi non presenti date caratteristiche.
Il secondo termine del paragone riguarda, per la direttiva e la legge nazionale, anche una posizione potenziale del soggetto comparato: che, in ipotesi, avrebbe fruito di un trattamento migliore.
Sembra comunque richiesta, secondo la ratio esposta, una situazione di effettivo pericolo.
Quando, perciò, si tratti di discriminazione relativa alla fase dell’assunzione – che è quella rilevante nel caso di specie – è dubbio se debba almeno essere in corso una trattativa individuale di lavoro o un’offerta al pubblico di lavoro.
E’ dubbio, quindi, specularmente, se invece rientrino nella tutela della libertà di manifestazione del pensiero le mere dichiarazioni, che non presentino almeno le caratteristiche di un’offerta al pubblico (cfr. art. 1336 c.c.). Ciò, ad evitare che si trasli verso un diritto sanzionatorio dell’intenzione, che sembra incompatibile con i principi dello Stato di diritto e con una legittima compressione dei diritti fondamentali.
5.2.4. – I precedenti della Corte di giustizia.
Sotto questo profilo, la Corte dei giustizia dell’Unione ha emesso alcune pronunce.
Nel caso Feryn, deciso da Corte giust. 10 luglio 2008, C-54/07, Centrum voor gelijkheid van kansen en voor racismebestrijding c. Firma Feryn NV, il contesto della decisione è palesato anche dal quesito di rimessione da parte dell’Arbeidshof te Brussel, che chiedeva di stabilire se sussiste una discriminazione “qualora un datore di lavoro, dopo aver collocato un’offerta di lavoro destinata a richiamare l’attenzione, dichiari in pubblico” che non assumerà stranieri, avendo dunque accertato che il datore seguiva “criteri di selezione direttamente discriminatori” (Corte di giustizia 10 luglio 2008, C-54/07, Feryn, punto 18).
Ivi risulta, dalle conclusioni dell’Avvocato generale, che “All’inizio del 2005 la Feryn cercava operai per l’installazione di porte basculanti presso la clientela. A tale scopo, essa collocava sul terreno aziendale lungo l’autostrada Bruxelles-Anversa un grande cartellone per la ricerca di personale” (conclusioni dell’avvocato generale M. Poiares Maduro presentate il 12 marzo 2008, punto 2).
La situazione era tale per cui quel datore “non si limita a parlare di discriminazione, bensì discrimina. Non si limita a pronunciare parole, bensì compie un “atto linguistico” (“speech acta)”, specificamente idoneo a scoraggiare date candidature dalla procedura in corso (conclusioni dell’avvocato generale, punto 16).
In tale vicenda, pertanto, nonostante non fosse provato che qualcuno si fosse presentato come candidato, era stata pubblicamente esposta dall’impresa la propria effettiva politica di assunzione, per scoraggiare le candidature alloctone non gradite dalla clientela.
La Corte di giustizia ha dichiarato sussistere una discriminazione diretta, ai sensi della direttiva 2000/43/CE, anche quando si tratti di una procedura di assunzione e, quindi, prima dell’eventuale decisione sull’assunzione ed anche in mancanza di candidati identificabili.
Nel caso Asociatia Accept, dal suo canto, si trattava del periodo del reclutamento dei giocatori da parte di una squadra di calcio professionistica, e tutta la controversia si incentra sulla imputabilità alla società delle dichiarazioni di un suo azionista, sfornito di poteri formali di impegnarla, il quale aveva reso dichiarazioni omofobe nei confronti di un dato giocatore in procinto di essere trasferito presso la sua squadra; la direzione della squadra aveva confermato la linea seguita in materia di ingaggi, e le illazioni giornalistiche, relative all’omosessualità del predetto giocatore, avevano condotto alla mancata stipula del contratto di lavoro (Corte giustizia 25 aprile 2013, C-81/12, Asociatia ACCEPT c. Consiliul National pentru Combaterea Discriminarli, spec. punti 2, 25, 27, 31, 49).
Sulla base di tali pronunce, la Corte di giustizia non è mai giunta al punto di affermare che la direttiva 2000/78/CE sanzioni la mera manifestazione di un’opinione che, per quanto criticabile e non condivisibile, sia rimasta del tutto avulsa da una selezione discriminatoria del personale.
Al contrario, non sono mancati richiami, da parte della Corte di giustizia dell’Unione, al bilanciamento degli interessi coinvolti, in particolare quando si finirebbe per comprimere diritti e libertà parimenti riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (v. Corte giustizia 14 marzo 2017, C-157/15, Achbita, punti 37-38, secondo cui il diritto del datore di lavoro di dare ai clienti un’immagine di neutralità rientra nella libertà d’impresa, riconosciuta dall’art. 16 della Carta).
- – Rimessione alla Corte di giustizia.
Tutto quanto esposto induce il Collegio, trattandosi di questione che richiede l’esatta interpretazione e delimitazione delle norme poste da una direttiva Europea, a sospendere il procedimento ed a sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267, del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) le seguenti questioni pregiudiziali:
1) “Se l’interpretazione dell’art. 9 della direttiva n. 2000/78/CE sia nel senso che un’associazione, composta da avvocati specializzati nella tutela giudiziale di una categoria di soggetti a differente orientamento sessuale, la quale nello statuto dichiari il fine di promuovere la cultura e il rispetto dei diritti della categoria, si ponga automaticamente come portatrice di un interesse collettivo e associazione di tendenza non profit, legittimata ad agire in giudizio, anche con una domanda risarcitoria, in presenza di fatti ritenuti discriminatori per detta categoria”;
2) “Se rientri nell’ambito di applicazione della tutela antidiscriminatoria predisposta dalla direttiva n. 2000/78/CE, secondo l’esatta interpretazione dei suoi artt. 2 e 3, una dichiarazione di manifestazione del pensiero contraria alla categoria delle persone omosessuali, con la quale, in un’intervista rilasciata nel corso di una trasmissione radiofonica di intrattenimento, l’intervistato abbia dichiarato che mai assumerebbe o vorrebbe avvalersi della collaborazione di dette persone nel proprio studio professionale, sebbene non fosse affatto attuale nè programmata dal medesimo una selezione di lavoro”.
Il rinvio pregiudiziale determina la sospensione del procedimento.
P.Q.M.
La Corte, visto l’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e l’art. 295 c.p.c., chiede alla Corte di giustizia dell’Unione Europea di pronunciarsi, in via pregiudiziale, sulle questioni di interpretazione del diritto comunitario indicate al p. 6 della motivazione.
Ordina la sospensione del processo e dispone che copia della presente ordinanza sia trasmessa alla cancelleria della Corte di giustizia.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 30 maggio 2018.
Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2018.