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Atto di nascita formato all’estero e bigenitorialità omosessuale: da Perugia un passo avanti verso il riconoscimento della filiazione intenzionale

di Stefania Stefanelli*

 

La decisione del Tribunale di Perugia si inserisce nel considerevole novero di quelle, di legittimità e di merito, che hanno disposto la trascrizione degli atti di nascita formati all’estero per bambini nati dal progetto procreativo di coppie formate da persone dello stesso sesso, a norma degli artt. 18 d.p.r. n. 396/2000 e 65 l. n. 218/1995, ritenendo che i relativi effetti non siano contrari all’ordine pubblico internazionale.

Sono «provvedimenti», ai sensi del citato art. 65, le sentenze e gli atti amministrativi che autoritativamente incidono sulle situazioni giuridiche riconnesse a capacità, diritti della personalità e rapporti di famiglia, ed in particolare quelli costitutivi o dichiarativi di stati familiari, capacità e diritti della personalità: tra questi, l’atto di nascita ha efficacia preclusiva di grado intermedio per l’accertamento della filiazione, mentre efficacia preclusiva massima spetta ai titoli giudiziali che accolgono le azioni di cui agli artt. 234, 239, 240, 269 c.c. o pronunciano l’adozione nelle forme della l. n. 184/1983.

La decisione aderisce al consolidato orientamento secondo il quale la filiazione giuridica non coincide necessariamente con la discendenza genetica, posto che ai sensi dell’art. 30, comma 4 Cost., le norme di rango primario fissano i limiti alla ricerca della paternità (e della maternità, non più certa per natura, in dipendenza della medicina riproduttiva), con disposizioni tipiche e di stretta interpretazione, ispirate alla salvaguardia dei diritti fondamentali (cfr. C. cost. n. 70/1965), alla luce del principio fondamentale di garanzia del pieno sviluppo della personalità umana. Tali erano quelle che impedivano il riconoscimento e la dichiarazione della nascita adulterina e di quella incestuosa, a garanzia dell’unità della famiglia matrimoniale. Mutato l’assetto assiologico (come ricorda Cass. n. 14878/2017), il riferimento è oggi: a) all’art. 9 l. n. 40/2004, che impedisce la rimozione dello stato di figlio della coppia che ha espresso il consenso alla p.m.a. ed esclude qualsiasi rapporto giuridico tra donatore/donatrice e nato; b) l’art. 27, comma 3, l. n. 184/1983, per il quale «con l’adozione cessano i rapporti dell’adottato con la famiglia di origine, salvi i divieti matrimoniali»; c) agli artt. 244 e 263 c.c. che, introducendo termini decadenziali alle azioni ablative, manifestano il favor opposto a quello veritatis, che sostiene la conservazione di uno status non veridico, ma corrispondente alla consolidata affettività, presumendo che questo sia l’interesse del figlio, a meno che non sia costui a decidere altrimenti, promuovendo l’azione in qualsiasi tempo.

Lo ha recentemente confermato la Consulta, interrogata sulla legittimità dell’art. 263 c.c., affermando il rilievo costituzionale – autonomo e potenzialmente confliggente con l’aspirazione alla veridicità – dell’interesse alla conservazione degli effetti del provvedimento costitutivo di status, in considerazione della durata del rapporto affettivo e della condizione identitaria acquisita dal figlio, che non dipende unicamente dalla continuità genetica (C. cost., sent. n. 272/2017).

In difetto di tali atti di accertamento, non si instaura il rapporto giuridico di diritto civile tra figlio e genitore/i, sicché il minore non potrà agire in giudizio per domandare cura, educazione, mantenimento, perché difetta il titolo che costituisce in capo a soggetti determinati la corrispondente obbligazione, e, specularmente, costoro non saranno titolari della responsabilità genitoriale e non potranno esercitarla attraverso il rapporto equilibrato e continuativo.

Sono proprio i casi di generazione omoaffettiva, nei quali la genitorialità giuridica è stata riconosciuta solo al padre biologico o alla madre partoriente ad evidenziare, soprattutto nella crisi della coppia, il drammatico difetto dello status nei confronti del genitore intenzionale, al quale è precluso l’affidamento del minore, potendo esclusivamente sollecitare il pubblico ministero all’azione ex art. 336 c.c., dimostrando che «l’interruzione ingiustificata, da parte di uno o di entrambi i genitori, in contrasto con l’interesse del minore, di un rapporto significativo, da quest’ultimo instaurato e intrattenuto con soggetti che non siano parenti, è riconducibile alla ipotesi di condotta del genitore “comunque pregiudizievole al figlio”» (C. cost., sent. n. 225/2016).

Il riconoscimento alla nascita si differenzia altresì dall’adozione ex art. 44 l. n. 184/1983 perché prescinde dalla valutazione giudiziale di corrispondenza all’interesse del minore, consente la costituzione dello status come immediata conseguenza dell’atto di responsabilità genitoriale, ed inserisce il figlio a pieno titolo nella famiglia del genitore, costituendogli i legami di parentela di cui all’art. 74 c.c. (esclusi dal rinvio all’art. 300 c.c. contenuto nell’art. 55 l. adozione) ed i conseguenti diritti patrimoniali (come quello al mantenimento ex art. 316 bis c.c.), successori e affettivi, tra cui quello di intrattenere stabili rapporti con gli ascendenti, di cui all’art. 315 bis comma 2, c.c. Quando si tratta di generazione nell’ambito delle coppie formate da persone dello stesso sesso, infine, la clausola che esclude l’estensione alle unioni civili delle disposizioni codicistiche sulla filiazione, di cui all’art. 1 comma 20, l. 76/2016, impedisce che si possa formare un atto di nascita in matrimonio, ma non ha effetto rispetto al riconoscimento, fondato sull’assenza dei presupposti della matrimonialità, fermo l’identico contenuto dello status filiationis, dopo la riforma del 2012-2013.

In sintesi, i titoli costitutivi della filiazione, che attribuiscono giuridica rilevanza al rapporto tra genitore e figlio e, dando attuazione ai diritti fondamentali facenti capo a ciascun individuo per effetto della nascita, comportano in ogni caso il sorgere della responsabilità genitoriale secondo quanto prevedono il reg. CE n. 2201/2003 e gli artt. 315 ss. c.c., devono risultare dagli atti dello stato civile. A tali atti si riconosce indubbia efficacia probatoria (artt. 236, 451 e 452 c.c.), ma ciò non incide sulla natura di accertamento costitutivo dello status, da cui dipende tra l’altro l’acquisto della cittadinanza per discendenza, ex art. 1, l. n. 92/1991. Conferma se ne rintraccia nell’art. 46 d.p.r. n. 396/2000 che ascrive l’ordine di sospendere l’annotazione del riconoscimento o di annotare la domanda di impugnazione del riconoscimento, ex art. 268 c.c., alla competenza del giudice chiamato a decidere su tale azione di stato.

 

Il caso presentato alla cognizione del Tribunale di Perugia si differenzia da quello oggetto del primo giudizio di legittimità (Cass. n. 19599/2016) in ragione della cittadinanza delle due donne, che erano madri in virtù dell’atto di nascita formato in Catalogna: mentre nella fattispecie più risalente il nato aveva la cittadinanza spagnola, trasmessagli da una delle madri ai sensi della legge nazionale, in quella in esame entrambe le donne erano soltanto cittadine italiane, sicché l’atto di nascita spagnolo non aveva consentito l’attribuzione della cittadinanza iure soli, e solo la trascrizione nei registri di stato civile italiano avrebbe permesso la trasmissione di quella italiana.

Identiche erano, invece, le circostanze del concepimento e della nascita, attraverso la fecondazione dell’ovocita di una delle madri con gamete di donatore, formazione dell’embrione in vitro, suo impianto nell’utero dell’altra donna, che aveva condotto la gestazione e partorito il bambino. In entrambi i casi il certificato di nascita era stato presentato per la prima volta all’ufficiale dello stato civile italiano, con richiesta di sua integrale trascrizione, e dal radicale rifiuto opposto dall’amministrazione, in ragione della contrarietà all’ordine pubblico, traevano origine i giudizi, avviati con impugnazione ex art. 95, comma 1, d.p.r. n. 396/2000.

A causa della cittadinanza delle madri il neonato, il cui atto di nascita non aveva trovato ingresso nei registri di stato civile perugini, si era visti negati, in conseguenza del mancato perfezionarsi del titolo acquisitivo dello status nell’ordinamento italiano, sia la cittadinanza e l’iscrizione all’A.I.R.E., sia l’attuazione concreta del principio di acquisto della capacità giuridica di cui all’art. 1 c.c., sia l’accesso agli strumenti sociali predisposti per i cittadini, sia, più in radice, l’identità personale, fino al momento in cui, dopo quasi un anno, l’atto era stato parzialmente trascritto, con indicazione della sola madre partoriente.

Anche all’esito di questo parziale ripensamento dell’amministrazione residuava comunque la lesione del diritto del bambino a vedersi riconosciuto anche dall’Italia lo status di figlio nei confronti di entrambe le donne indicate dal titolo spagnolo, come correttamente osserva il collegio, in accordo con la richiamata giurisprudenza di legittimità. Difettava, in altri termini, l’atto costitutivo della genitorialità giuridica in capo alla madre genetica, ma non partoriente. Nello stesso senso argomenta anche l’ordinanza con la quale il Tribunale di Pisa ha sollevato questione di costituzionalità delle norme che impedirebbero la formazione in Italia di un atto di nascita identico a quello oggetto della decisione in commento: il diritto presidiato dall’art. 7 della Carta europea di Nizza comprende infatti, «in una lettura non atomistica della disposizione, (quello) a essere immediatamente registrato e, nei limiti del possibile, conoscere i suoi genitori, (e) comporta anche il diritto a non veder disconosciuta la filiazione che gli attribuisce la sua legge nazionale senza contrasto con l’ordine pubblico costituzionale» (Trib. Pisa, ord. 69/2018, in G.U., 19/2019).

Le ragioni che fondano la decisione in commento sono imperniate sulla delimitazione dell’oggetto del sindacato che compete all’ufficiale di stato civile, al quale siano presentati (dagli interessati o dalla pubblica autorità, ex art. 12, comma 11, d.p.r. n. 396/2000) gli atti di nascita formati all’estero. Mentre l’art. 18 del d.p.r. cit. riferisce agli atti stessi il vaglio conformità all’ordine pubblico, l’art. 65 della l. d.i.p. specifica che «gli effetti» dei provvedimenti stranieri non devono essere contrari all’ordine pubblico.

La Corte di legittimità ne aveva ancorato la definizione ai principi fissati nella Costituzione, ed a quelli con essa compatibili desunti dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (ai sensi degli artt. 10, 11, 117 Cost.), che impediscono al legislatore ordinario di introdurre con legge ordinaria disposizioni analoghe alle straniere di cui si discute l’applicazione, a garanzia del rispetto della gerarchia delle fonti e, in definitiva, dell’assetto democratico. Significativamente, la S.C. aveva insegnato che «si tratta di un giudizio (o di un test) simile a quello di costituzionalità, ma preventivo e virtuale», e la giurisdizione non si sostituisce al legislatore neppure in caso di sentenze additive o sostitutive, vincolate alle «rime obbligate».

Tornando sul punto, la stessa Cassazione aveva ricordato che, ai sensi dell’art. 23 del Reg. CE n. 2201/2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, l’ordine pubblico di uno Stato osta al riconoscimento delle decisioni estere solo in quanto non sia contrario ai best interests of the child.

La S.C. aveva condotto tale giudizio, preventivo ed ipotetico, ricercando l’eventuale prevalenza di altri diritti umani costituzionalmente protetti su quello del minore «alla conservazione dello status fiiationis legittimamente acquisito all’estero nei confronti della madre genetica e alla continuità dei rapporti affettivi», che avrebbe imposto la trascrizione. Esclusa la natura di ordine pubblico della tutela della sola maternità che si manifesta nel parto, del divieto di applicare tecniche di p.m.a. alle coppie omosessuali e del divieto di maternità surrogata, espressi nella legislazione ordinaria con scelta non obbligata dalla Costituzione, è il diritto fondamentale allo status, presidiato dagli artt. 2, 3 e 30 Cost., a imporre il rispetto dell’interesse del bambino e dell’adolescente a vedersi riconosciuto dall’ordinamento italiano il vincolo di filiazione validamente costituito all’estero, e corrispondente alla sua identità ed all’affettività consolidata (Cass., sent. n. 19599/2016, cit.).

A questa interpretazione aderisce condivisibilmente la decisione in commento, sebbene sui confini del concetto di ordine pubblico internazionale sia nel frattempo stato proposto l’intervento del massimo organo di nomofilachia, sul presupposto che debbano trovare rilievo anche «le norme costituenti esercizio della discrezionalità legislativa, in materie strettamente connesse o direttamente implicate» (Cass., ord. n. 4382/2018), come avevano insegnato le S.U. in materia di danni punitivi. In quell’occasione, il Supremo Collegio ne aveva chiarito la nozione promozionale, che mira ad armonizzare il rispetto dei valori, essenziali per la vita e la crescita dell’Unione, ai sensi dell’art. 67 T.F.U.E.

Tanto aveva scritto disegnando chiaramente, attraverso l’evoluzione della giurisprudenza della Corte di legittimità degli ultimi trent’anni, il passaggio da un concetto coincidente col «complesso dei principi fondamentali che caratterizzano la struttura etico-sociale della comunità nazionale in un determinato periodo storico, e nei principi inderogabili immanenti nei più importanti istituti giuridici», a quello che risulta dal «sistema di tutele approntate a livello sovraordinato a quello della legislazione primaria, sicché occorre far riferimento alla Costituzione e, dopo il Trattato di Lisbona, alle garanzie approntate ai diritti fondamentali dalla Carta di Nizza».

Precisava che «gli esiti armonizzanti, mediati dalle Carte sovranazionali, potranno agevolare sovente effetti innovativi, ma Costituzioni e tradizioni giuridiche con le loro diversità costituiscono un limite ancora vivo» specialmente nell’ordine pubblico sostanziale, in funzione di controllo e garanzia di principi essenziali della legge nazionale. Tuttavia ne riconduceva comunque il fondamento alla Carta costituzionale, discutendo di «materie, come per esempio quella del lavoro (…) che sono presidiate da un insieme di norme di sistema che attuano il fondamento della Repubblica», e facendo riferimento alla decisione che qualificò tale l’obbligo di concorso per le assunzioni a tempo indeterminato nella pubblica amministrazione, consacrato nell’art. 97 Cost.

Coerente è l’elaborazione dottrinale che evidenzia come non sia in gioco la contrazione del margine di apprezzamento nazionale nella determinazione dei propri valori, quanto piuttosto la necessità che il livello di protezione dei diritti fondamentali sia portato avanti, intorno a valori comuni, derivati da strumenti internazionali, disegnando una nozione di ordine pubblico dai forti contorni transnazionali, in quanto fondata sulla necessità di rendere la legislazione nazionale permeabile ai diritti umani come internazionalmente condivisi e accettati.

Anche la Corte di Giustizia UE, pur riconoscendo alle autorità nazionali «un certo potere discrezionale entro i limiti imposti dal Trattato» nella definizione della nozione di ordine pubblico, ne ha fatto il presidio dei diritti fondamentali specificando che la stessa è «parte integrante dei principi generali del diritto dei quali la Corte garantisce osservanza ispira(ndosi) alle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri e alle indicazioni internazionali relative alla tutela dei diritti dell’uomo» (Corte giust. 14 ottobre 2004, C-36/2002, Omega).

Non può, infine, trascurarsi la «“felice contaminazione” tra ordine pubblico internazionale e diritti fondamentali» che la S.C. ha realizzato, discutendo «del diritto delle persone di autodeterminarsi e di formare una famiglia, valori questi già presenti nella Carta costituzionale (artt. 2, 3, 31 e 32 Cost.) e la cui tutela è rafforzata dalle fonti sovranazionali che concorrono alla formazione dei principi di ordine pubblico internazionale». In questo modo, utilizzando la fraseologia dell’art. 8 CEDU, alla giurisprudenza della Corte EDU espressamente rinviava, affermando che il riferimento all’ordine pubblico «non può passare come una carta bianca per giustificare qualsiasi misura, poiché incombe sullo Stato l’obbligo di farsi carico dell’interesse superiore del bambino, indipendentemente dalla natura del legame parentale, genetico o di diverso titolo» (Corte EDU, 26 giugno 2014, ric. n. 65192/11, Mennesson c. Francia; e ric. n. 65941/1, Labassée c. Francia).

Pare dunque quantomeno improbabile, che, disconoscendo la descritta evoluzione della clausola– dalla tradizionale ricostruzione in prospettiva meramente negativa al suo necessario ancoraggio a princìpi di rango costituzionale – possano trovare accoglimento le obiezioni per le quali sarebbero norme di ordine pubblico internazionale le disposizioni, contenute nella l. 40/2004, in base alle quali la «diversità di sesso tra i genitori (sarebbe) un requisito indispensabile per il riconoscimento di un rapporto di filiazione tra gli stessi e un terzo soggetto», come argomentava la soccombente difesa erariale perugina.

Al contrario, essendo la discendenza ingenita uno solo dei criteri per l’attribuzione diretta dello stato di figlio, l’art. 9 l. n. 40/2004 – incentrato sull’affettività e l’intenzionalità, a tutela dell’interesse del figlio – testimonia in ogni caso una «tradizione giuridica», interna all’ordinamento, che fonda la responsabilità genitoriale sul consenso e giustifica il riconoscimento del titolo straniero, che non contrasta nemmeno con «le norme costituenti esercizio di discrezionalità legislativa».

La decisione in commento si segnala infine per il rilievo sistematico grazie al quale deduce dalla condivisibile affermazione per cui nella Costituzione non esiste «un modello di genitorialità esclusivamente fondato sul legame biologico» (cfr. C. cost., sent. n. 272/2017), il rilievo della filiazione intenzionale quale fonte della responsabilità genitoriale nell’ambito della p.m.a., e ne ancora il fondamento alla «tutela del concreto interesse del minore ad essere riconosciuto figlio di chi lo aveva voluto, e ciò proprio in caso di ricorso a tecniche vietate». Così argomentando, suggerisce alcune osservazioni in merito alla sollevata questione di legittimità costituzionale delle disposizioni che impedirebbero la formazione, in Italia, di un atto di nascita di contenuto identico a quello della cui trascrizione si discuteva.

Ai sensi dell’art. 8 l. n. 40/2004, i nati attraverso l’applicazione di tecniche medicali «hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’art. 6», che disciplina il consenso informato richiesto ai soggetti, cui l’art. 5 riserva l’accesso alla p.m.a., escludendone le coppie di persone del medesimo sesso. Ne deriva l’impossibilità per le coppie di donne di domandare l’applicazione delle tecniche alle strutture italiane autorizzate, ma tanto non ci sembra impedire che trovi applicazione, a tutela del nato, la medesima disposizione che, prima della declaratoria di incostituzionalità del divieto di eterologa, presidiava lo status di colui che venisse generato all’estero, attraverso gameti estranei alla coppia eterosessuale italiana.

La filiazione intenzionale, sulla scorta degli insegnamenti della Consulta e della loro implementazione ad opera della S.C., si esprime infatti nell’art. 8 in positivo, e nell’art.9 in negativo, escludendo la coincidenza necessaria tra verità biologica e verità legale. Ciò attua, nei confronti del nato, il vincolo ai «doveri previsti per la sua formazione, in particolare dagli artt. 30 e 31 della Costituzione, ma ancor prima – in base all’art. 2 Cost. – ai suoi diritti nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità» (C. cost., sent. n. 347/1998).

L’espresso consenso, ricavabile anche da atti concludenti ai sensi dell’art. 9, comma 1, è dunque titolo della filiazione, a garanzia del nato, ed il riferimento ai doveri fondamentali di solidarietà consente di superare l’ulteriore obiezione secondo la quale la volontà espressa dalla donna convivente o unita civilmente alla gestante non sarebbe assimilabile a quello dell’uomo convivente o coniugato, perché non si potrebbe discutere di sterilità o infertilità per le coppie omosessuali.

La tesi – ancorata alla decisione che sancì la non omogeneità delle due formazioni sociali del matrimonio e dell’unione omosessuale, sulla base del «rilievo costituzionale attribuito alla famiglia legittima ed alla (potenziale) finalità procreativa del matrimonio che vale a differenziarlo dall’unione omosessuale» (C. cost., sent. n. 138/2010) – dimentica l’ulteriore fondamento costituzionale del diritto di accesso alla p.m.a. nella libertà di autodeterminazione della coppia, in cui si comprende la scelta di formare una famiglia ed avere dei figli, «riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost. ».

Disconosce, soprattutto, che la prospettiva determinante non è quella dei diritti della coppia, ma di quelli del nato «nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo», diritti che non tollerano disparità di trattamento in ragione delle condizioni e convinzioni personali dei genitori, in quanto presidiati dall’art. 2 Cost.

 

*Professore associato di diritto privato nell’Università degli studi di Perugia