La svolta tedesca imprime un’accelerazione anche in Italia: alcune ipotesi sul percorso e i tempi verso il matrimonio egualitario
1 luglio, 2017 | Filled under OPINIONI |
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di Marco Gattuso
La caduta del muro di Berlino.
Con la scelta della Germania di aprire il matrimonio alle coppie dello stesso sesso l’Italia resta dunque l’unico grande paese occidentale a mantenere la discriminazione matrimoniale nei confronti delle persone omosessuali: Stati Uniti, Francia, Germania, Regno Unito (Irlanda del nord esclusa), Canada e Spagna hanno rimosso ogni discriminazione nell’accesso al matrimonio civile.
Nel 2005 la svolta fu impressa, come si ricorderà, dalla Spagna di Zapatero. Prima di allora solo quattro stati al mondo avevano aperto il matrimonio (Olanda e Belgio, con legge; Sudafrica e Massachusetts, per sentenza delle corti supreme). La scelta spagnola ebbe un’enorme risonanza globale, per l’importanza del paese e per la sua fortissima tradizione cattolica, e (come espressamente auspicato in varie interviste da Zapatero) ebbe un effetto domino, trascinando con se molti paesi latini e cattolici, passando per la Francia e il Regno Unito e sino alla “decisione più importante” (così titolammo su Articolo29) della corte suprema americana del giugno 2015 che rimosse il divieto di matrimonio in tutti gli stati dell’Unione.
Dunque in soli dieci anni il quadro è cambiato radicalmente e si è, anzi, ribaltato: la chiusura del matrimonio alle sole coppie eterosessuali è oggi una scelta di minoranza, che interessa in Occidente un solo grande paese, l’Italia.
La “caduta del muro di Berlino” del 30 giugno 2017 potrebbe avere nei prossimi mesi e anni un impatto analogo alla svolta spagnola di dodici anni fa. La Germania esercita difatti una grande influenza culturale, prima che politica ed economica, su un gran numero di paesi europei e la sua dottrina giuridica è, da almeno un secolo, una delle più accreditate e studiate in Italia e nel mondo. Soprattutto, con la scelta di ieri va definitivamente in frantumi il cd. “modello tedesco” e con esso l’illusione che vi fosse una alternativa credibile all’affermazione del principio di uguaglianza.
La vera novità di questa svolta é, inoltre, che l’Italia difficilmente potrà evitare di esserne investita e travolta. Non solo perché i politici indicarono nella Germania un modello che non c’è più, ma anche perché questa svolta isola l’Italia in Europa e in occidente avendo reso palese che anche per noi non vi è alternativa al “modello occidentale” dell’uguaglianza.
Il modello tedesco e l’unione civile italiana.
Sparito “il modello” ad appena un anno dalla promulgazione della legge Cirinnà, che allo stesso dichiarava di ispirarsi, sono oggi facili le ironie (ed in effetti già girano sui social).
Lasciando perdere l’area cd. “moderata” (per cui basti rammentare che per le sue posizioni omofobe, un nostro noto politico di centro fu giudicato troppo estremista e “inadatto” a ricoprire la carica di commissario europeo alla giustizia), i tre leader che si contesero nel 2013 l’opzione riformista, Bersani, Renzi e Grillo, litigarono su tutto ma, seguendo percorsi e calcoli politici anch’essi eterogenei, giunsero infine allo stesso approdo: che non era il caso di parlare di uguaglianza.
Seguendo questa linea, nel 2014 la Commissione giustizia del Senato decise di accantonare la proposta di legge n. 15 del sen. Lo Giudice, composta di pochissimi articoli e che portava significativamente il titolo di “Norme contro la discriminazione matrimoniale”, e iniziò la discussione solo sulla proposta di un istituto equivalente al matrimonio ma con un altro nome: l’unione civile fra persone dello stesso sesso.
Imprudentemente si evocò allora il “modello tedesco”, nonostante in mille occasioni (anche da questo sito) si fosse ammonito che quel modello era vetusto e in bilico: da due legislature, infatti, la stragrande maggioranza delle forze politiche e dei parlamentari tedeschi era favorevole all’apertura del matrimonio e il voto era impedito esclusivamente dal veto della CDU-CSU guidata da Angela Markel, due partiti alleati che avevano e hanno solo una maggioranza relativa (peraltro con un forte dissenso interno) e che erano tuttavia in grado di bloccare il voto a causa del patto di fiducia che vincolava i socialdemocratici nella Grosse Koalition.
Quanto fosse obsoleto quel modello é ora davanti a tutti: è bastata una intervista di quattro giorni fa della Merkel alla rivista “Brigitte” (!) per portare il Bundestag a votare dopo solo due giorni il matrimonio con una rapidità davvero sorprendente (un dibattito di… cinque minuti).
Vivere con un solo modello.
Il modello giuridico occidentale, fondato sui principi di libertà, fraternità e uguaglianza, afferma, innanzitutto, l’uguaglianza formale dei cittadini davanti alla legge. L’esclusione di una classe di cittadini e cittadine dall’accesso a un istituto giuridico del diritto civile contraddice l’uguaglianza formale (solo di rimando quella sostanziale) sicché pone un problema per il giurista e per ogni indirizzo politico che si richiami ai nostri comuni valori. Tanto per la sinistra che per la destra (non fascista) il tema dell’uguaglianza formale è fondante, da cui la famosa asserzione del premier conservatore David Cameron, all’atto di porre al voto la legge sul matrimonio, per cui la stessa era proposta “non nonostante io sia conservatore ma proprio in quanto sono conservatore”.
Secondo un’opinione, tuttavia, la parola “matrimonio” denoterebbe “naturalmente” l’unione di un uomo con una donna, sicché non sarebbe giuridicamente concepibile usare questa parola per dare regolamentazione giuridica alle coppie dello stesso sesso. Non vi sarebbe alcuna lesione del principio di uguaglianza formale nei confronti delle persone omosessuali, in quanto quell’istituto sarebbe naturalmente ristretto alle coppie eterosessuali. Da qui la scelta di introdurre un istituto equivalente al matrimonio ma “con un altro nome”. Alla equivalenza di regolamentazione (sostanzialmente imposta dalla giurisprudenza della Corte europea di giustizia), corrisponderebbe dunque una distinzione di fondamento giuridico.
La storia insegna che il principio di uguaglianza ha tracciato un lungo percorso e ha riservato non poche sorprese. La talpa dell’uguaglianza formale ha scavato a fondo nel corso dei secoli, rivelando significati prima invisibili ai più. Come ci ha insegnato Thomas Kuhn, quando viviamo sotto un certo paradigma scientifico e culturale le ipotesi alternative ci sono invisibili, come in una immagine della Gestalt (la famosa figura del vaso e dei due profili, o della papera e il coniglio, ove se si guarda uno non si vede l’altro). Non molto tempo fa pareva naturale che l’uguaglianza formale si applicasse ai soli uomini e non alle donne o solo all’interno di razze da tenere separate (la Corte suprema americana teorizzava il principio del cd. separate but equal e in autorevoli sentenze le corti sostenevano ancora nel 1956 che Dio e la natura avevano voluto l’umanità divisa in razze così giustificando il divieto di matrimoni fra bianchi e neri).
L’inclusione di sempre nuovi soggetti nella nozione di cittadinanza (le donne, innanzitutto) e il suo intrecciarsi con l’esercizio dei diritti fondamentali (si pensi alla vicenda del divieto di matrimoni interrazziali o interreligiosi) ci ha mostrato come la latitudine dell’uguaglianza formale (sancita da noi dall’articolo 3, comma primo, della Costituzione) sia tutt’altro che scontata e la sua forza tutt’altro che esaurita.
Un percorso identico sta attraversando la “questione omosessuale”.
L’ipotesi per cui la “parola” matrimonio contenga ineluttabilmente in se la restrizione a due persone di sesso diverso è oggi resa vetusta e persino ridicola dalla constatazione che questa parola ha un altro significato, inclusivo, in pressoché tutte le lingue europee (inglese, francese, spagnolo, tedesco…). Il significato delle parole cambia col mutare della cultura, ce lo ha insegnato De Saussure, e non c’è parlamento o giudice che possa arrestare il mutamento della lingua e della cultura del mondo.
Il modello occidentale e la nostra Costituzione.
Era a mio avviso, in fondo, questo il senso della decisione della Corte costituzionale n. 138 del 15 aprile 2010.
Fu una decisione che nella sua ambiguità deluse molti e lasciò molti dubbi. Ma la Corte scrisse a chiare lettere che l’impedimento ad aprire il matrimonio non risiedeva nel richiamo dell’articolo 29 della Costituzione alla “società naturale”, locuzione che non richiama alcun dato “di natura” o di diritto naturale (né la Corte ha mai detto che le coppie dello stesso sesso non siano “famiglia”), ma nella parola “matrimonio” che in carenza di chiari indizi di segno opposto doveva intendersi riferita alla nozione presupposta dai Costituenti nel 1948.
Il primo indizio di segno opposto é giunto, come noto, appena tre mesi dopo quella sentenza: il 24 giugno 2010. Con la “svolta semantica” impressa nella storica sentenza Schalk e Kopf contro Austria, la Corte europea dei diritti umani affermò che la parola “matrimonio” ai sensi dell’articolo 12 Cedu era riferibile anche ai matrimoni fra persone dello stesso sesso. Svolta che come noto fu recepita dalla nostra Cassazione nel 2012 con la sentenza n. 4184 in cui la Corte ripudiò la vecchia tesi per cui il matrimonio tra due persone dello stesso sesso era “inesistente” (una svolta non di poco conto se solo si rammenta che la stessa nozione giuridica della “inesistenza” del negozio giuridico -da affiancare a nullità e annullamento- fu inventata in Francia nel diciannovesimo secolo proprio per impedire che un matrimonio fra due persone -poi rivelatesi- dello stesso sesso potesse produrre i limitati effetti del negozio nullo).
Da allora gli indizi del cambiamento semantico sono divenuti innumerevoli. Vengono dalla giurisprudenza, italiana e europea, che tante volte ha classificato le coppie gay e lesbiche (e i loro figli, quando ci sono), come famiglia. Vengono dalla legge n. 76 del 2016 che espressamente riconosce queste unioni come famiglia (vedi il comma 12 che parla univocamente di vita familiare) e che pone una “clausola generale di equivalenza” fra unione civile e matrimonio. Vengono dall’evoluzione del comune sentire favorito dalla promulgazione della legge, contribuendo a determinare quel mutamento di paradigma giuridico e culturale che ha indotto l’opinione pubblica tedesca a ritenere che l’uso “di un altro nome” per un istituto equivalente sia del tutto insostenibile (per inciso: secondo alcuni, invece, l’unione civile darebbe una scusa alla politica per non agire e addirittura allontanerebbe il momento in cui si passerà al matrimonio. A me pare abbastanza evidente che non sia così. In ogni caso, non sapremo mai come sarebbero andate le cose se, e come direbbe Wittgenstein, di quel di cui non si può dire converrebbe ora tacere, concentrandosi invece tutti sull’analisi di cosa può succedere adesso).
Cosa succede adesso.
La Corte costituzionale ha ritenuto nel 2010 che sarebbe stato per lei “interpretazione creativa” attribuire alla parola matrimonio un significato che era diverso da quello inteso nel 1948 (e che i giudici nel 2010 verosimilmente non percepivano neppure nella realtà sociale di allora) e tale visione ha ripetuto, anche con più forza, nel 2014.
É dubbio quale sarebbe in futuro l’atteggiamento della Corte a fronte di analoghe eccezioni di incostituzionalità della legge Cirinnà. É certo che in un nuovo quadro giuridico e sociale non potrebbe liquidare così rapidamente la questione della compatibilità del modello separate but equal col principio di uguaglianza.
Ciò a maggior ragione quando sarà più chiaro che il nuovo quadro giuridico definito dalla legge Cirinnà non esclude affatto ma anzi contempla le famiglie arcobaleno con figli. La giurisprudenza sta già compiendo il proprio dovere nell’interpretazione della legge secondo il superiore interesse del minore e subito dopo la promulgazione della legge Cirinnà si sono moltiplicate le sentenze di adeguamento del quadro giuridico alla realtà delle famiglie arcobaleno (si contano in un anno almeno tre storiche sentenze della Cassazione e diverse decisioni di merito). Il legislatore del 2016 ha correttamente tenuto conto che la relazione verticale fra genitori e figli non é regolata dal matrimonio ma é uguale dentro e fuori dal matrimonio, quindi la relativa disciplina si applica senz’altro anche in caso di unione civile. Resta tuttavia la grave questione, ancora irrisolta, del riconoscimento della filiazione per il genitore non biologico. Non vi é solo il tema dell’adozione del figlio, ormai chiarita dai nostri giudici, ma anche quello del riconoscimento dei figli alla nascita secondo le disposizioni previste dalla legge 40 del 2004 (la legge applicabile in questo caso, visto che questi bambini, se frutto di un progetto della coppia, nascono tutti con PMA). A mio avviso non v’è dubbio che dopo la Cirinnà le parole “coppia” e “convivente” previste nella legge 40 si applicano anche alle coppie e convivenze dello stesso sesso e che la parola “coniuge” sia richiamata dal comma 20 della Legge Cirinnà. In caso, poi, di gestazione per altri (cd. surrogazione di maternità o GPA) dovrebbe riconoscersi alla gestante, se lo chiede, il diritto di frequentare il minore. Non come genitore, poiché la legge 40 impone che siano genitori solo quelli che hanno assunto ab origine la responsabilità genitoriale, ma in virtù della specialissima relazione fra gestante e nascituro. Anche qui vi è spazio per l’intervento legislativo ma, verosimilmente, anche della giurisprudenza. Una prospettiva che mi pare del tutto ragionevole, in particolare rispetto al delirio ideologico del “reato universale”, proposto da qualcuno forse ignorando che ad oggi é accolto nel mondo solo da due regimi non proprio da seguire come modello: Turchia e Malesia.
É indubbio, per contro, che spetti quantomeno al legislatore decidere se aprire o meno il matrimonio senza alibi inopinatamente derivati dall’articolo 29. Dopo il voto tedesco, il sen. Lo Giudice ha chiesto che anche in Italia venga calendarizzata immediatamente la sua proposta di legge “contro la discriminazione matrimoniale”. La stessa cosa viene chiesta dalla sen. Cirinnà e da altri.
É infatti da escludere che la nostra Costituzione si ponga contro quello che abbiamo chiamato “il modello occidentale”, peraltro senza alcuna specifica disposizione ma solo per la presenza della parola “matrimonio”, la quale ovviamente appare in identico modo in tutte le altre costituzioni che si occupano della famiglia.
La vicenda tedesca ha qualcosa da dirci anche a questo riguardo. Il tribunale costituzionale tedesco ritenne nel 1994 che l’articolo 6 della Legge fondamentale, che assicura “speciale protezione” (besondere Schutz) al matrimonio fosse riferito alla sola unione fra uomo e donna. Oggi qualcuno minaccia un ricorso alla corte contro la nuova legge, ma é pressoché unanime l’opinione che non vi sia alcuna possibilità di successo. É peraltro bene ricordare che anche in Francia, Spagna e Portogallo corti costituzionali che avevano negato l’illegittimitá costituzionale del negato accesso al matrimonio per le coppie dello stesso sesso hanno poi sancito tutte la legittimità delle leggi che hanno aperto il matrimonio.
È peraltro tempo che si ponga mano a diversi aspetti del diritto di famiglia e il nuovo istituto dell’unione civile contiene al riguardo molte importanti indicazioni: uguaglianza nella scelta del cognome della famiglia e dei figli; divorzio diretto (senza previa separazione); superamento di aspetti derivati dalla tradizione canonica che oggi cozzano col comune sentire (pubblicazioni, matrimoni per i minorenni, divorzio per “inconsumazione”, nullità per “deviazione sessuale”, promessa di matrimonio ecc..). Su alcuni di questi aspetti proprio la comparazione fra unione civile e matrimonio potrebbe forse consentire già alla giurisprudenza un’operazione di adeguamento.
Quanto all’apertura del matrimonio, se il legislatore non dovesse intervenire rapidamente, una strada percorribile potrebbe essere in futuro il ricorso alla Corte di Strasburgo, non tanto per chiedere il riconoscimento di un “diritto convenzionale al matrimonio” ex art. 12 (per cui comunque dopo la svolta tedesca il margine di apprezzamento pare sempre più stretto) quanto se non violi il divieto di discriminazione ex art. 14 prevedere regolamentazioni equivalenti cui sono assegnati nomi (e quindi dignità) diversi in ragione esclusivamente dell’orientamento sessuale (una decisione positiva riguarderebbe in questo caso non tutti i paesi aderenti alla Convenzione, fra cui alcuni estremamente refrattari come Russia e Turchia, ma solo l’Italia, la Svizzera, l’Austria e pochi altri).
Ma dopo il caso Oliari che ci ha costretto a fare le unioni civili, farci imporre di nuovo le decisioni da Strasburgo sarebbe una nuova umiliazione per un paese fondatore dell’Unione europea, che vanta d’essere culla del diritto e che a gran voce invoca una Europa dei popoli e non solo della moneta unica.
Azzardare previsioni non è semplice: i politici italiani sono impegnati in queste ore a tracciare l’orizzonte dei loro programmi elettorali per “l’Italia del 2020“. Non è azzardato invocare un colpo di reni. Due anni sino al 2020, per far rientrare l’Italia nell’Europa dei diritti, sono anche troppi.