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Furto di identità: che fine ha fatto il cognome dell’unione civile?

  di Marco Gattuso*

 

1. Premessa: le mele avvelenate.

L’11 di febbraio è entrato in vigore il d.lgs. n. 5 del 19 gennaio 2017 con il quale il Governo dà attuazione alla delega contenuta nel comma 28 della Legge sull’unione civile in materia di stato civile.

Il decreto contiene due norme in materia di cognome che appaiono fortemente sospette di illegittimità costituzionale per eccesso di delega. Con la prima il legislatore delegato impone una sostanziale abrogazione del comma 10 della Legge. Con la seconda si prevede addirittura la cancellazione dei cognomi già scelti dalle parti in questi primi sette mesi di vigore della norma, con una procedura amministrativa de plano e senza contraddittorio.

A queste mele avvelenate del decreto governativo è dedicato questo breve studio.

2. Il cognome della famiglia: una vera novità per il diritto di famiglia italiano.

L’introduzione del cognome comune rappresenta il più innovativo effetto personale dell’unione civile. La dottrina ne ha segnalato l’evidente rilevanza simbolica, in quanto la previsione di un cognome comune dell’unione ne sottolinea la natura familiare e ne rimarca l’unità, conferendo rilevanza esterna e visibilità all’unione. La disciplina del cognome dell’unione civile appare inoltre assai più egualitaria di quella del matrimonio e rappresenta, pertanto, uno di quei passaggi del testo legislativo che sono stati indicati dalla migliore dottrina come più moderni rispetto alla stessa disciplina del matrimonio, suggerendo una sorta di competizione in positivo fra i due istituti.

Come noto, la legge rimette alle parti la scelta di un cognome comune mentre l’articolo 143 bis del codice civile prevede che la moglie aggiunga al proprio cognome quello del marito, con la conseguenza che il solo cognome del maschio vale a identificare la famiglia e con l’ulteriore effetto, stabilito non da una specifica disposizione ma da una norma desumibile da un insieme di disposizioni, che tale cognome del marito, assunto quale cognome della famiglia, viene trasmesso ai figli nati nel matrimonio. La disposizione matrimoniale dopo l’entrata in vigore della Legge sull’unione civile, è stata finalmente colpita, ma solo parzialmente, da pronuncia di illegittimità costituzionale[1]. La Corte costituzionale è intervenuta difatti su un particolare aspetto della disciplina del cognome, particolarmente odioso e discriminatorio, dichiarando l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che impedivano ai genitori, anche in caso di accordo fra loro, di dare al figlio un doppio cognome (formato con i cognomi dei due genitori).

Nonostante l’intervento della Consulta, la norma matrimoniale sul cognome resta sostanzialmente discriminatoria (com’è attestato dal fatto che per dare al figlio anche il cognome della donna è comunque necessario l’assenso dell’uomo). Anche in caso di apertura del matrimonio, dunque, sarebbe stata necessaria una disposizione come quella del comma 10, poiché la regola patriarcale del cognome del marito non sarebbe stata applicabile alle coppie dello stesso sesso.

La disciplina del cognome nell’unione civile subisce, invece, l’evidente influenza del modello tedesco della Lebenspartnerschaft, ove la decisione sul cognome è rimessa alla piena autonomia delle parti. Tale opzione, a sua volta, è coerente con la scelta operata dal legislatore tedesco con la riforma del 16 dicembre 1993, per cui la scelta del cognome comune è rimessa alla volontà dei coniugi, con l’effetto, in mancanza di scelta, che gli stessi continueranno a portare cognomi diversi.

A norma del comma 10 della Legge si hanno due diverse dichiarazioni (entrambe solo eventuali): quella, comune, di scelta del cognome dell’unione civile, che diviene cognome di entrambe le parti; quella, individuale, della parte il cui cognome non è stato scelto, con cui la stessa dichiara, se vuole, di continuare a tenere anche il proprio cognome, accanto a quello comune[2].

La scelta del cognome comune rappresenta esercizio di un diritto soggettivo previsto dalla Legge ed è una manifestazione del diritto alla vita familiare costituzionalmente e convenzionalmente riconosciuto alla coppia unità civilmente. In quanto manifestazione di un diritto fondamentale riconosciuto dalla Legge, incidente sulla stessa identità personale, oltre che sulla vita familiare, lo stesso è incoercibile e non può essere negato dall’ufficiale di stato civile se non per ragioni espressamente ammesse dalla legge.

3. La interpretatio abrogans del Governo.

Come si è anticipato, su tale quadro normativo è intervenuto il legislatore delegato. Il medesimo, dando per sua esplicita ammissione una lettura riduzionista della norma di legge, ha stabilito che il cognome comune non ha alcuna incidenza anagrafica.

Nel decreto legislativo in materia di stato civile n. 5. del 19 gennaio 2017 è stato previsto difatti che nell’articolo 20 (Schede individuali) del d.p.r. 30 maggio 1989, n. 223 (Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente) sia inserito il comma 3 bis per cui «per le parti dell’unione civile le schede (anagrafiche) devono essere intestate al cognome posseduto prima dell’unione civile» (articolo 3, comma 1, lettera c), n. 2). Dunque a dare credito a tale disposizione, la scelta di un “cognome comune” non incide sul cognome della parte (non incide né sulla scheda anagrafica né viene annotato sull’atto di nascita).

Nella relazione illustrativa che accompagna il decreto si legge che «in analogia a quanto previsto dall’articolo 143 bis per il cognome della moglie» si è deciso che la decisione delle parti di adottare il cognome dell’unione civile abbia il solo effetto di consentirne l’uso. In definitiva, non vi sarebbe alcuna incidenza sull’effettivo cognome della persona e, dunque, sui documenti, certificati e carte di identità dovrebbe restare l’indicazione del cognome originario (posto che i documenti identificativi debbono riportare i dati risultanti all’anagrafe). Sparisce quindi il “cognome della famiglia”, la grande novità della legge sull’unione civile.

Se la Legge avesse ritenuto di consentire ad una delle parti il mero utilizzo del cognome dell’altra, senza alcuna incidenza anagrafica sul suo cognome, non avrebbe avuto ragione di prevedere il suo ulteriore diritto di manifestare, con una seconda dichiarazione, la propria volontà di mantenere anche il proprio cognome anagrafico. Il comma 10 dispone che la parte «può» mantenere anche il proprio cognome, anteponendolo o posponendolo a quello acquisito («La parte può anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso, facendone dichiarazione all’ufficiale di stato civile»), e tale disposizione in tutta evidenza postula che in caso contrario la parte perda il detto cognome, acquisendo solo quello comune. Nell’interpretazione data dal legislatore delegato, tale disposizione di Legge resta priva di qualsiasi senso.

È bene rammentare che l’unica lettura consentita del comma 10 è stata condivisa, sino all’emanazione del decreto attuativo, dalla dottrina unanime e pure dallo stesso Governo, che, come detto, nel primo decreto transitorio non ha dubitato che il cognome scelto fosse cognome anagrafico[3].

La disposizione di cui al decreto legislativo non pare dunque meramente attuativa della disposizione contenuta nel comma 10, ma sembra proporne un’interpretazione contrastante con la lettera della disposizione e in buona sostanza appare di assai dubbia legittimità, per eccesso di delega, tenuto conto della natura meramente attuativa della delega e, ad abundantiam, che la stessa a norma del comma 28 è conferita «fatte salve le disposizioni di cui alla presente legge».

La disposizione del decreto attuativo sembra inoltre criticabile pure per la sua incongruenza interna. Nonostante la proclamata intenzione di ricondurre l’innovativa disciplina del comma 10 ai limitati effetti di cui all’articolo 143 bis, nell’interpretazione del legislatore delegato residua difatti una differenza ulteriore rispetto alla disciplina matrimoniale (oltre alla facoltà di scelta per le parti dell’unione civile), posto che il cognome comune e le ulteriori dichiarazioni relative al cognome, pur non essendo più annotate nell’atto di nascita e nelle schede anagrafiche, debbono comunque essere riportate all’interno dell’atto di unione civile, mentre nell’atto di matrimonio non v’è ovviamente traccia dell’uso da parte della moglie del cognome del marito[4].

Ulteriore incongruenza: se la norma di cui al comma 10 non serve ad eleggere un unico cognome della famiglia, identificativo del nucleo (e in prospettiva trasmissibile ad eventuali figli comuni), ma configura una sorta di “autorizzazione” che una parte dà all’altra di usare il proprio cognome, non si spiega a questo punto perché una sola parte possa dare tale autorizzazione all’altra.

4. Le ragioni della scelta del Governo.

Secondo il legislatore delegato tale “interpretazione” del comma 10 «è apparsa la più convincente tenuto conto, non solo di quanto previsto per il matrimonio, ma anche del fatto che una vera e propria variazione anagrafica del cognome della parte dell’unione civile determinerebbe il mutamento anagrafico anche del cognome del figlio della medesima parte dell’unione civile ed eventualmente per il solo periodo di durata dell’unione, effetto questo che pare eccedere la volontà del legislatore primario».

Dunque il Governo segnala tre diverse ragioni della propria interpretazione abrogativa del cognome comune.

4.1. «tenuto conto, non solo di quanto previsto per il matrimonio»

La prima, appena accennata, riguarda la volontà di tener conto «di quanto previsto per il matrimonio».

Nell’ampio dibattito sulla relazione fra matrimonio e unione civile, non è passato inosservato che la legge del 2016, pur con tantissimi difetti formali e di sostanza (il primo fra tutti, ad avviso di chi scrive, non avere aperto direttamente il matrimonio assicurando piena uguaglianza) fra cui il più eclatante è la carenza di presunzione di paternità e di adozione (ma è importante sottolineare che c’è, invece, il richiamo alla legge sulla procreazione medicalmente assistita ed alla possibilità di riconoscere i figli alla nascita a norma degli articoli 8 e 9 della legge n. 40 del 2004, richiamati dal comma 20), conteneva un diritto in più per le coppie gay e lesbiche rispetto alle coppie coniugate. La migliore dottrina ha qualificato l’unione civile come un istituto di diritto famiglia per certi aspetti persino più europeo e moderno del matrimonio, proprio grazie alla disciplina del cognome, oltre che per l’attesa cancellazione della separazione, delle pubblicazioni, dell’obbligo di fedeltà, del matrimonio “riparatore” per i minorenni, del riferimento alle “anomalie sessuali”, al “lutto vedovile” e alla “inconsumazione” (tutti retaggi dell’origine canonica del matrimonio, la cui rimozione rende l’unione civile un matrimonio non solo, purtroppo, “con un altro nome”, ma anche, per fortuna, più laico e vicino all’attuale comune sentire).

La previsione del cognome comune sottolineava, inoltre, nel modo più eclatante la indiscussa natura dell’unione civile come istituto del diritto di famiglia. Non v’è modo più esplicito di riconoscere la natura di famiglia delle coppie gay e lesbiche che conferendo loro il diritto di scegliere un cognome comune del nucleo familiare, aperto alla sua trasmissione ai figli. La sua “cancellazione” da parte del legislatore delegato, comunque, resta un arma del tutto spuntata, posto che il mantenimento di un diritto al cognome che si vuole identico a quello matrimoniale (salvo che per il rispetto dell’uguaglianza fra le parti, che manca nel matrimonio) riafferma comunque la natura familiare dell’unione civile e che in ogni caso il riconoscimento delle coppie gay e lesbiche come famiglie è oggi pressoché unanimemente affermata, anche dalla Corte europea dei diritti umani e dalla nostra Corte di cassazione (d’altra parte lo stesso comma 12 della legge parla univocamente di «vita familiare» mentre nessun tecnico del diritto assume che l’uso della formula «formazioni sociali» sia ostativa, posto che è pacifico che tutte le famiglie, quelle sposate e quelle unite civilmente ma anche quelle di fatto, sono formazioni sociali). La natura familiare dell’unione civile è ammessa incondizionatamente dalla dottrina largamente maggioritaria[5] e pure la giurisprudenza ha già avuto modo di sottolinearne la pacifica natura[6]. Se dunque qualcuno ha creduto di inficiare la natura familiare dell’unione civile cancellandone il simbolo più eclatante, va detto che l’operazione è destinata ad un clamoroso insuccesso.

Non è mancato chi ha giustificato l’intervento del Governo con la volontà di evitare alle coppie unite civilmente le complicazioni burocratiche che conseguono all’effettivo mutamento anagrafico del cognome. Si è addirittura ipotizzato che tale burocrazia in più fosse indice di una discriminazione nei confronti delle coppie dello stesso sesso. La scelta di un “cognome della famiglia” comporta in effetti il necessario adeguamento di tutti gli atti e i documenti intestati alla parte: codice fiscale, patente, carta di identità, passaporto, utenze ecc… Aveva destato perplessità, in particolare, la necessità di modificare il codice fiscale, per gli evidenti inconvenienti burocratici. Nonostante tali adempimenti burocratici, è nondimeno da escludere, com’è ovvio, che possa parlarsi di discriminazione rispetto al matrimonio, posto che le due fattispecie in tutta evidenza non sono comparabili avendosi soltanto nell’unione civile il diritto soggettivo, non riconosciuto al coniuge, di scegliere un cognome comune della famiglia. Inoltre si tratta comunque di una scelta in più, sicché ognuno resta libero di unirsi civilmente senza scegliere un cognome di famiglia (e affrontare i connessi adempimenti burocratici). Peraltro i comprensibili problemi pratici conseguenti alla necessità di cambiare il codice fiscale (che pure si incontrano in ogni caso di cambiamento o rettifica del nome o del cognome) potrebbero attenuarsi anteponendo il cognome proprio a quello comune, posto che in questo caso le prime tre lettere del codice corrispondono comunque al primo cognome del suo titolare (così risulta che abbiano fatto alcune della coppie unite civilmente nei primi mesi di vigore della legge, le quali non hanno dovuto cambiare alcun codice fiscale).

 4.2. «una vera e propria variazione anagrafica del cognome della parte dell’unione civile determinerebbe il mutamento anagrafico anche del cognome del figlio della medesima parte dell’unione civile»

La seconda questione posta dal Governo riguarda i figli.

Il tema della filiazione è e resta il più controverso della legge e certo il riconoscimento di un cognome comune a tutta la famiglia non risolve i problemi. Ma va forse detto al riguardo che chi si era illuso che la mancata apertura del matrimonio e lo stralcio della cd. stepchild adoption fra le polemiche e gli slogan omofobi (“abbiamo fermato una rivoluzione contro natura”) avrebbe bloccato il processo di avvicinamento del diritto di famiglia italiano a quello degli altri partner europei (Germania, Francia, Regno Unito, Spagna, Portogallo, Austria, Belgio, Olanda, paesi scandinavi…) è già rimasto deluso, visto che dopo l’entrata in vigore della legge la Corte di cassazione ha ammesso l’adozione dei figli ai sensi dell’articolo 44 lettera d) ed ha ammesso la trascrizione di atti di nascita stranieri con due genitori dello stesso sesso, e visto che il comma 20 attraverso il rinvio a tutte le norme dell’ordinamento che contengono la parola “coniuge” e dunque anche all’articolo 9 della legge 40 del 2004 consente (anzi, impone in caso di attivazione del ricorso per la dichiarazione giudiziale della «paternità e maternità») ai membri della coppia che ha dato il consenso alla tecnica di PMA (e dunque anche al genitore privo di legame biologico) di riconoscere i figli alla nascita.

In questo quadro non è indifferente che il comma 10 consenta (consentisse?) di dare loro il cognome dell’unione civile.

Non si vede per quale ragione dovrebbe assumersi problematica la scelta del legislatore, certamente consapevole, di consentire il cambiamento del cognome con il conseguente mutamento del cognome del figlio in caso di mutamento del cognome del genitore. Si tratta di una scelta meditata, presente sin dal primo progetto di legge e che è stata dunque ampiamente vagliata e discussa negli oltre due anni di gestazione della legge in sede parlamentare (si rammenta che la legge de qua è di iniziativa parlamentare). Il legislatore, al pari di quello tedesco e subendone l’influenza, ha consapevolmente deciso di introdurre un chiaro elemento di novità nel sistema del cognome di famiglia, con la sua trasmissibilità alla prole.

Quel che forse non deve essere piaciuto è l’effetto del comma 10 già nell’immediatezza prodottosi sui bambini delle famiglie arcobaleno, posto che già nei primi mesi di vigore della legge alcune mamme si sono unite civilmente (o hanno trascritto i matrimoni esteri) ed hanno scelto il cognome comune, con la conseguenza che i figli hanno ricevuto il doppio cognome (a norma del menzionato articolo 33 del d.p.r. n. 396 del 2000).

È evidente che avere un cognome di famiglia non conferisce al bambino lo status di figlio di entrambe le mamme, e tuttavia da un punto di vista simbolico e nella realtà della vita quotidiana nessuno può ignorare che avere lo stesso cognome del bambino scioglie molti problemi quotidiani, dà visibilità alla relazione genitoriale ed è un enorme aiuto anche psicologico, innanzitutto per il minore.

4.3. «eventualmente per il solo periodo di durata dell’unione»

 Il Governo sembra avere spiegato la interpretatio abrogans anche con le difficoltà applicative conseguenti alla indicazione per cui la scelta del cognome è operata «per la durata dell’unione», fra cui il legislatore delegato evidenzia la perdita automatica del cognome anche da parte del figlio.

Tale excusatio, tuttavia, non persuade in quanto, tali -non irrilevanti- problemi avrebbero potuto trovare una soddisfacente soluzione già in sede di interpretazione della Legge.

Problematica è certamente la perdita del cognome in caso di cessazione dell’unione civile, la quale in prima battuta parrebbe suggerita dallo stesso comma 10 ove dispone che il cognome dell’unione civile venga scelto «per la durata dell’unione». Tale disposizione, non prevista nei primi progetti di legge ed introdotta soltanto con il cd. maxi-emendamento, ha suscitato e suscita in effetti comprensibili perplessità ed ha diviso i primi commentatori. Questa è stata certamente una scelta, vagliata in poche ore dagli uffici legislativi dello stesso Governo, assai poco ponderata per i suoi indesiderabili effetti.

Secondo l’opinione più diffusa, da tale ultima espressione («per la durata dell’unione») conseguirebbe che con lo scioglimento dell’unione (per morte o per passaggio in giudicato della sentenza di divorzio) si produrrebbe anche la cessazione del cognome comune. Ci si è chiesto, in particolare, se si tratti di effetto automatico, che imporrebbe la rettificazione d’ufficio da parte dell’ufficiale di stato civile (all’atto dell’annotazione del decesso o del passaggio in giudicato della sentenza di divorzio), o se necessiti di una nuova dichiarazione della parte avanti all’ufficiale di stato civile[7]. In quest’ultima ipotesi, mentre in caso di morte sarebbe necessaria una specifica dichiarazione della parte superstite diretta a provocare la cessazione del cognome comune (in cui mancanza, dunque, il cognome comune sopravvivrebbe all’unione), nel caso di divorzio si renderebbe necessaria per la sua cessazione una espressa dichiarazione in tale senso di una delle parti (potendo avere interesse alla cessazione sia la parte il cui cognome è divenuto cognome comune che l’altra).

Se da tale inciso si desume, come pare suggerito nei primi commenti, la perdita automatica del cognome comune in caso di morte o divorzio, non può che sottolinearsene allora l’assai dubbia ragionevolezza e compatibilità col quadro costituzionale[8]. È invero assai dubbio che sia legittimo che una persona, che abbia utilizzato un certo cognome anche per anni o decenni e sia socialmente identificata con questo in ogni occasione della vita, debba sopportare la perdita del detto cognome, mutando radicalmente un primario segno distintivo della propria identità personale (in particolare ove lo stesso rappresenti il suo unico cognome, per non avere scelto di aggiungere il proprio cognome a quello comune), per il solo fatto della morte del compagno o della compagna di una vita. Circostanza aggravata dal fatto che a norma dell’articolo 33, secondo comma d.p.r. 396 del 2000, nella sua interpretazione corrente, il mutamento di cognome del genitore comporta anche l’automatico cambiamento di cognome del figlio, sicché il figlio minorenne, ma anche quello maggiorenne (e salvo il ricorso alla procedura di cui allo stesso articolo 33), si troverebbe a mutare improvvisamente cognome per un evento (cessazione dell’unione per morte o divorzio) del tutto indipendente dalla sua volontà[9].

Appare, tuttavia, opportuno tentare la strada di una lettura costituzionalmente orientata della norma, valutando se l’indicazione per cui le parti scelgono un cognome comune “per la durata dell’unione” comporti davvero sempre e comunque l’automatica perdita dello stesso alla cessazione dell’unione. La norma, in effetti, non sembrerebbe precludere del tutto uno sforzo ermeneutico che tenga conto della volontà delle parti e degli interessi in gioco, che attengono come detto allo stesso diritto fondamentale all’identità personale. Secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, l’inciso «per la durata dell’unione» non svolgerebbe, allora, la funzione -del tutto irragionevole e punitiva- di negare l’utilizzo del cognome comune anche quando ciò corrisponda alla volontà delle parti e non vi sia alcun interesse contrapposto, ma avrebbe lo scopo obiettivo di escludere la possibilità di revoca nel corso dell’unione civile. Con l’indicazione che la scelta deve avvenire per tutta la durata dell’unione il legislatore avrebbe inteso impegnare le parti ad assumere una decisione vincolante per tutta la durata dell’unione, negando (a differenza della legge tedesca) ogni ripensamento o possibilità di revoca.

Tale lettura potrebbe condurre, in conclusione, ad assumere che con la cessazione dell’unione civile (per morte o divorzio) al fine di dismettere il cognome comune sia necessaria una nuova dichiarazione avanti all’ufficiale di stato civile. Nel dubbio, non risolto dalla Legge, se la cessazione dell’unione abbia un effetto automatico sul cognome, che imporrebbe la rettificazione d’ufficio da parte dell’ufficiale di stato civile, o se necessiti di una nuova dichiarazione della parte avanti all’ufficiale di stato civile, si tratterebbe dunque di optare per tale seconda ipotesi, che consente di recuperare uno spazio all’autonomia delle parti.

Nel caso di cessazione dell’unione civile per la morte di una delle parti potrebbe, allora, assumersi che scegliendo il cognome comune le parti si obblighino a mantenerlo “per tutta la durata dell’unione”, non escludendo affatto il suo utilizzo anche dopo la morte di una delle due parti, corrispondendo semmai tale prolungato uso del comune segno distintivo proprio alla loro più vera ed intima volontà[10]. La dismissione del cognome comune, ed il ripristino di quello originario ove dismesso, conseguirebbe dunque ad una nuova dichiarazione della parte superstite (che così potrebbe valutarne gli effetti anche sugli eventuali figli).

La dismissione del cognome dopo il divorzio, inoltre, potrebbe essere ritenuta subordinata alla manifestazione di una volontà in tale senso delle parti (nel corso della procedura divorzile), ed in particolare della parte il cui cognome è stato adottato come cognome comune (né, attesa la diversa natura del cognome dell’unione civile, parrebbe preclusiva la diversa interpretazione della disposizione matrimoniale per cui la perdita del cognome maritale consegue automaticamente allo scioglimento del vincolo[11]). In tal caso, in ipotesi di conflitto potrebbe comunque essere rimessa al giudice la valutazione della sussistenza di un preminente interesse della parte (e di eventuali figli), collegato alla protezione dell’identità personale, tenendo conto dei principi generali in materia di tutela del diritto al nome e, come si è pure acutamente osservato, anche in applicazione delle stesse disposizioni sul cognome contenute nella disciplina del divorzio, posto che le disposizioni di cui all’articolo 5, commi 3 e 4 della legge 1 dicembre 1970 n. 898, seppure non richiamate dal comma 25, appaiono comunque richiamate dal comma 20 della Legge, di modo che la tutela ivi prevista per il coniuge (e per eventuali figli) ben potrebbe estendersi, ove ricorrano le medesime esigenze, anche alla parte dell’unione civile (e a suoi eventuali figli)[12].

5. La seconda mela avvelenata, ovvero come ti cancello l’identità senza avviso.

Il problema rilevato dal Governo e posto a giustificazione della interpretatio abrogans del comma 10 poteva e può essere risolto, dunque, in via interpretativa.

Anche a ritenersi che tale lettura costituzionalmente orientata non sia possibile e che permanga, dunque, un profilo di irragionevolezza della norma, la soluzione corretta richiederebbe il ricorso al giudice delle leggi perché verifichi la compatibilità dell’inciso “per tutta la durata dell’unione” con i diritti fondamentali delle parti, non parendo comunque consentito al legislatore delegato di cancellare (rectius, tentare di cancellare, non avendone il potere) una norma prevista dalla Legge di delega, costitutiva di un nuovo diritto soggettivo, qual è quello ad un cognome comune della famiglia unita civilmente.

Peraltro, come evidenziato anche dalla Commissione giustizia della Camera, tale scelta del Governo pone oggi un delicato problema di diritto intertemporale, atteso che a stare alle statistiche diffuse (circa) un migliaio di coppie si sono unite civilmente nelle more dell’emanazione del decreto legislativo ed una parte ha verosimilmente scelto di avere un cognome comune come previsto dalla Legge (e come correttamente consentito dalla prima disciplina regolamentare transitoria adottata con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 23 luglio 2016, n. 144).

Quid iuris, dunque, per il cognome scelto da tali coppie?

La Commissione giustizia della Camera ha creduto di risolvere il problema rilevando la necessità di «introdurre una norma di coordinamento che specifichi espressamente le procedure che gli ufficiali di stato civile dovranno seguire per la correzione delle variazioni anagrafiche già effettuate». Per conseguenza, il legislatore delegato ha previsto all’articolo 8 (Disposizioni di coordinamento con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144) del d.lgs. n. 5/2017 che«entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, l’ufficiale dello stato civile, con la procedura di correzione di cui all’articolo 98, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, annulla l’annotazione relativa alla scelta del cognome effettuata a norma dell’articolo 4, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144», non cogliendo tuttavia appieno la questione, atteso che le dette coppie scegliendo il cognome comune e mutando il proprio cognome anagrafico hanno esercitato un diritto soggettivo loro conferito dalla Legge, il quale non potrebbe essere cancellato con una mera disposizione attuativa (appare peraltro assai peculiare e di assai dubbia legittimità che la cancellazione del nome avvenga con una procedura amministrativa e senza alcuna salvaguardia del principio del contraddittorio).

Non è difficile prevedere che, ancora una volta in funzione di supplenza rispetto ad un legislatore (delegato) quantomeno distratto, tale diritto a scegliere e mantenere il cognome comune previsto dal comma 10 dovrà essere assicurato, assai verosimilmente, dall’Autorità giudiziaria ordinaria. In particolare, le parti che hanno già esercitato il diritto di scegliere un cognome comune avvalendosi della disposizione prevista dalla Legge e che dopo un periodo (di qualche mese) in cui hanno assunto il nuovo cognome si siano vista annullata l’annotazione, con regresso al cognome precedente, potranno adire l’Autorità giudiziaria ordinaria per vedersi riconosciuto il diritto a mantenerlo.

 * giudice presso il tribunale di Bologna

 

 

[1] Corte costituzionale n. 286/2016.

[2] Si è correttamente parlato al riguardo di «quattro distinte opzioni» offerte dalla Legge: a) cognome comune; b) mantenimento da parte di ciascuno del proprio cognome; aggiunta, per la parte il cui cognome non è stato scelto, del proprio cognome a quello comune, c) posponendolo oppure d) anteponendolo, M. N. Bugetti, Il cognome comune delle persone unite civilmente, in Famiglia e diritto, 2016, 10, pag. 911.

[3] Articolo 4, comma 2 del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 23 luglio 2016, n. 144, per cui: «a seguito della dichiarazione relativa al cognome, gli ufficiali dello stato civile procedono all’annotazione dell’atto di nascita e all’aggiornamento della scheda anagrafica».

[4] Così anche quando vi è divorzio, per cui a norma dell’articolo 5, comma 2 della legge 898/1970 «la donna perde il cognome» che aveva aggiunto, o quando passa a nuove nozze dopo la morte del marito, non v’è alcuna annotazione circa il cognome.

[5] V. ex multis G. Ferrando, La disciplina dell’atto. Gli effetti: diritti e doveri, in Famiglia e diritto, 2016, 10, pag. 890, per cui le unioni civili sono «fonte di uno status familiare» e «sono anch’esse “famiglie”, non diversamente da quella tradizionale»; M. Dogliotti, Dal concubinato alle unioni civili e alle convivenze (o famiglie?), in Famiglia e diritto, 2016, 10, pag. 874, per cui «si tratta, all’evidenza, di una vera e propria famiglia tra persone dello stesso sesso»; T. Auletta Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio: evoluzione o morte della famiglia? in Le Nuove Leggi Civili Commentate, 2016, 3, p. 401; R. Fadda, Le unioni civili e il matrimonio: vincoli a confronto, in La Nuova giur. Civ. comm., 2016, 10, p. 1386.

[6] Tar Lombardia per cui «è pacifico che nel sistema della legge 76 rivesta natura contrattuale solo l’istituto, nettamente distinto dall’unione civile, del contratto di convivenza, contratto tipico, con propri requisiti sostanziali e formali, introdotto e disciplinato dai commi 50 e seguenti dell’articolo unico della legge 76», Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, sezione di Brescia, del 29 dicembre 2016 che ha rilevato in Articolo29.it con nota M. Gattuso, Tar Lombardia: perché le celebrazioni delle unioni civili e dei matrimoni debbono essere uguali.

[7] M. N. Bugetti, Il cognome comune delle persone unite civilmente, in Famiglia e diritto, 2016, 10, pag. 914.

[8] Illegittimità costituzionale che è stata ravvisata anche nell’irragionevole disparità di trattamento rispetto al matrimonio, M. N. Bugetti, Il cognome comune delle persone unite civilmente, in Famiglia e diritto, 2016, 10, pag. 914.

[9] Potrebbe trattarsi di figlio di un solo genitore, che abbia assunto il cognome dell’altra parte dell’unione civile, o comune ad entrambi in ragione dei meccanismi dell’adozione coparentale ex art. 44 lettera d), della trascrizione di certificato di nascita estero o del riconoscimento ex art. 9 Legge 40 del 2004.

[10] Concorda che «ne va pertanto esclusa l’applicazione col conseguente riconoscimento del diritto del superstite a mantenere il cognome precedentemente stabilito», T. Auletta Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio: evoluzione o morte della famiglia? in Le Nuove Leggi Civili Commentate, 2016, 3, p. 383.

[11] Come noto, l’articolo 5 L. div. è correntemente interpretato nel senso che la perdita del cognome maritale consegue automaticamente allo scioglimento del vincolo non occorrendo, pertanto, che la sentenza di divorzio contenga alcuna specifica statuizione in proposito, cfr. A. Arceri, Articolo 143 bis, in Codice della famiglia a cura di M. Sesta, Giuffrè, 2015, p. 478.

[12] M.N. Bugetti, Il cognome comune delle persone unite civilmente, in Famiglia e diritto, 2016, 10, pag. 915. Rileva che non potrebbe escludersi che «la giurisprudenza, onde tutelare il diritto all’identità personale della ex parte dell’unione civile per lungo tempo identificata con il cognome dell’altra, possa autorizzare, per via diretta e senza il medio di una interpretazione analogica o estensiva della norma in questione, la conservazione del segno distintivo, al di là della durata del vincolo e fino all’eventuale passaggio ad una nuova unione», R. Campione, L’unione civile tra disciplina dell’atto e regolamentazione dei rapporti in La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze,  M. Blasi, R. Campione, A. Figone, F. Mecenate e G. Oberto (a cura di), Giappichelli, 2016, pag. 14