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Le coppie dello stesso sesso in anagrafe: la costruzione di uno spazio europeo dei diritti

imagedi Andrea Antognoni*

L’anagrafe offre un punto di osservazione privilegiato sulle modalità con cui gli status familiari acquisiti all’estero impattano nel sistema giuridico italiano. Custode dei dati di tutti i cittadini residenti nel nostro Paese, attraverso la funzione anagrafica lo Stato si occupa anche delle registrazioni dei cittadini non italiani. Nell’ambito di questi, gli operatori degli oltre 8.000 Comuni gestiscono in maniera diretta, cioè senza intermediazione di altra autorità o ufficio amministrativo, i cittadini dell’Unione Europea.

L’anagrafe: tra esistenza giuridica e identità

Il tema della registrazione degli status e dei dati personali è solo apparentemente secondario: forse per una storica sottovalutazione dell’importanza della corretta tenuta degli atti anagrafici, in cui il diritto soggettivo all’iscrizione e l’esattezza dei dati personali costituiscono il nucleo essenziale della personalità. Ciò è vero sin dalle origini dei sistemi anagrafici, che non a caso si sviluppano con la maturazione degli Stati democratici, in cui il cittadino-residente assume rilevanza come persona al di là della classe sociale.

L’esattezza e la puntualità dei dati anagrafici, oggi custoditi in database digitali, assume una rilevanza fondamentale in ogni sistema giuridico-amministrativo: si pensi semplicemente agli sforzi del legislatore italiano, ormai giunti alle battute finali, di creare finalmente un’unica banca dati, l’anagrafe nazionale della popolazione residente (ANPR) così da garantire univocità e congruità dei dati e più efficiente circolazione di essi all’interno del sistema pubblico.

Più banalmente, l’importanza della corretta e puntuale registrazione risulta evidente proprio dal suo apparire naturale per la stragrande maggioranza delle persone: ma come ci sentiremmo se immaginassimo, per un attimo, di avere una carta d’identità con un cognome diverso da quello con cui ci riconosciamo, o di richiedere un certificato di nascita o di matrimonio e sentirci rispondere che quell’atto non esiste, che non risulta nulla?

La qualità del dato anagrafico attiene, naturalmente, anche al rispetto di diritti fondamentali della persona, tutelati da norme di rango sovranazionale che devono coesistere con norme e prassi interne. Due fenomeni hanno contribuito ad aumentare il livello di complessità delle registrazioni: i flussi migratori di cittadini non italiani, e la definizione di un sistema giuridico europeo e di un’area in cui la sfera personale è tutelata anche dall’ordinamento europeo. Proprio il confronto, ineludibile, con il quadro di diritti essenziali strettamente collegato alla cittadinanza europea, ha portato in prima linea gli operatori comunali dei servizi demografici. Ecco dunque che la funzione di registrare l’iscrizione anagrafica del cittadino europeo e dei suoi familiari, conduce, gioco forza, l’operatore all’interno di un sistema giuridico sovranazionale, in cui le norme interne dialogano in modo costante e spesso ricco di tensioni, con quelle europee.

Poiché ogni norma non agisce nel vuoto ma s’intreccia con il sistema di cui fa parte e con altri ordinamenti, l’ufficiale d’anagrafe è chiamato a dare attuazione alla normativa di derivazione europea, dai principi scolpiti dai Trattati e modulati dalle pronunce della Corte di giustizia, fino alla Direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 e, infine, al Decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30.

Un complesso lavoro necessario a concretezza a diritti fondamentali, tutelati dall’ordinamento europeo che è, in materia, fonte primaria: il diritto di libera circolazione e soggiorno, e conseguentemente quelli all’unità familiare e al riconoscimento degli status legittimamente acquisiti dal cittadino dell’Unione.

L’iscrizione anagrafica del coniuge same-sex

Il diritto di soggiorno del coniuge dello stesso sesso è la rappresentazione più forte delle connessioni tra queste dimensioni. Assenza di norme esplicite, difficoltà operative e, ammettiamolo, barriere culturali, non hanno contribuito a dipanare la matassa per gli ufficiali d’anagrafe, che si sono trovati a dover decidere della sorte anagrafica (iscrizione o non iscrizione, cioè diritti o non diritti) di questi coniugi.

L’orientamento negativo, almeno fino al 2010, al riconoscimento del diritto di soggiorno del coniuge dello stesso sesso in qualità di familiare (combinato disposto degli articoli 7, primo comma, lettera d) e 2 della Direttiva europea 2004/38/CE e del D.lgs n. 30/2007), era sostanzialmente legato a due motivazioni: la presunta inesistenza del matrimonio omosessuale nell’ordinamento interno, ancora definito contrario all’ordine pubblico dalla più recente edizione Massimario per gli ufficiali dello Stato Civile del Ministero dell’Interno (ed. 2012, pag. 213[1]), e l’assenza di riferimenti normativi espliciti in materia di iscrizione anagrafica.

Il primo punto rappresentava, probabilmente, una barriera più culturale che giuridica, poiché la funzione dell’anagrafe (dal greco άναγραφή, registrazione, iscrizione) è, da sempre, quella di registrare, cioè prendere atto di dati e status personali così come documentati dai cittadini (art. 14 D.p.r. n. 223/1989): il compito dell’ufficiale d’anagrafe, per i cittadini non italiani, deve dunque limitarsi a riprodurre fedelmente quanto certificato dalla competente autorità straniera, essendo il suo ruolo ben distinto da quello dell’Ufficiale dello Stato Civile, il quale agisce invece sugli stati personali.

La seconda obiezione era, invece, ragionevole e ci conduce a una premessa fondamentale: per capire se il termine “coniuge” sia davvero correlato al genere occorre, in sede di iscrizione anagrafica di cittadino europeo, analizzare le fonti del diritto comunitario e non di quello interno. Una premessa non scontata per operatori del tutto privi, sul punto, di qualunque supporto o indicazione degli organi gerarchicamente superiori, che dovrebbero invero indirizzare l’attività degli ufficiali d’anagrafe.

Soltanto attraverso questo passaggio logico, compresa cioè l’impossibilità di applicare filtri da parte di un singolo orientamento nazionale all’ordinamento comunitario in materia di libera circolazione e soggiorno[2], si può prendere coscienza dell’interpretazione del termine “coniuge” fatta dal diritto europeo.

Su questo punto è utile richiamare la sentenza della Corte europea dei diritti umani nel caso Schalk and Kopf c. Austria del 24 giugno 2010. In quell’occasione, il giudice convenzionale, chiamato a rileggere il quadro dei diritti dei cittadini europei nella duplice e sempre più sinergica combinazione tra Convenzione europea sui diritti dell’uomo e Carta di Nizza, chiarì che per la CEDU il matrimonio non è più legato alla differenza di genere tra gli sposi. Se la sfera di applicazione della CEDU e il diritto comunitario restano distinti, è pur vero che dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e della Carta dei diritti fondamentali dell’UE[3], i principi della CEDU sono sempre più correlati all’ordinamento europeo[4], e non si può non tenerne conto quando ci si muove in materie di competenza dell’Unione quale, appunto, il diritto di libera circolazione e soggiorno.

La decisiva scossa verso la corretta interpretazione del concetto di coniuge ai fini del diritto di soggiorno in Italia è arrivata con la sentenza del Tribunale di Reggio Emilia del 13 febbraio 2012, in cui, per la prima volta, si è distinto il tema del riconoscimento pieno dello status con quello dei diritti connessi e tutelati dall’ordinamento europeo. Il giudice ha così accolto il ricorso avverso il rifiuto al rilascio di una carta di soggiorno per familiare straniero di cittadino dell’Unione (nella fattispecie si trattava di coniuge uruguayano di cittadino italiano), disponendo che il coniuge è familiare per il diritto europeo e, dunque, ha diritto di soggiorno in Italia[5].

Si tratta, come noto, del combinato disposto degli articoli 7, primo comma, lett. d) e 2, primo comma, lett. b) punto 1) del D.lgs n. 30/2007: egli gode del diritto in quanto familiare in senso stretto, ed è familiare in quanto coniuge (e non partner, come ancora oggi alcuni osservatori tendono a confonderlo, poiché se il legame fosse semplicemente quello di un’unione registrata, sarebbe a oggi insufficiente ai fini della maturazione del diritto, per la semplice lettura dell’art. 2 del D.lgs n. 30/2007[6]).

Il giudice di Reggio Emilia fu chiamato a intervenire poiché il coniuge che richiedeva il diritto di soggiorno in Italia era cittadino di Paese terzo: ogni qual volta la coppia è composta, invece, da due cittadini dell’Unione, la sola autorità chiamata a esprimersi è l’ufficiale d’anagrafe, e in particolare quello del Comune nel cui territorio la coppia ha fissato la propria dimora abituale. In questo caso, infatti, non vi è alcun titolo di soggiorno: la cittadinanza europea scardina completamente la materia dalla sfera di pubblica sicurezza e la fa rientrare, pienamente e unicamente, in quella anagrafica.

Non è dato sapere in che modo gli ufficiali d’anagrafe italiani abbiano dato applicazione all’interpretazione europea del concetto di coniuge ai fini del diritto di soggiorno e dell’iscrizione anagrafica, non essendoci alcuna rilevazione ufficiale in tal senso. Trattandosi di un terreno ancora, per molti versi, inesplorato e certamente scivoloso, gli operatori hanno potuto contare unicamente sulle interpretazioni della dottrina in materia anagrafica, anch’esse tuttavia per nulla univoche.

Va però ricordato che il Ministero dell’Interno si uniformò all’orientamento del giudice emiliano attraverso la Circolare del dipartimento dell’immigrazione n. 8996 del 26/10/2012 diretta alle Questure di Firenze e Pordenone[7], ma non fornì invece alcuna indicazione agli uffici anagrafe. Siamo già a fine 2012: il diritto di soggiorno del coniuge dello stesso sesso è ancora un diritto che pare debole, non adeguatamente garantito dallo Stato italiano. Va, altresì, ricordato che non sempre le Questure hanno interpretato in modo conforme il quadro normativo e le indicazioni ministeriali contenute nella circolare appena citata, tanto che altri giudici sono stati chiamati a intervenire in materia[8].

Da allora, tuttavia, in base ai dati forniti da alcune associazioni (in particolare Certi Diritti) risultano diverse decine le carte di soggiorno per familiare di cittadino europeo rilasciate dalla Questure ai coniugi dello steso sesso, alcune delle quali arrivate dopo estenuanti batti e ribatti con gli uffici immigrazione. Su quei documenti, cioè su documenti di soggiorno rilasciati dallo Stato italiano a cittadini regolarmente soggiornanti (che a norma dell’art. 1 del D.p.r. n. 445/2000 hanno altresì funzione di documento di riconoscimento) troviamo nella maggior parte dei casi l’indicazione, corretta, di “coniuge” o “familiare”.

E’ questa, probabilmente, la dimostrazione più lampante della distonia presente oggi nell’ordinamento italiano: come Paese membro dell’Unione europea, l’Italia ha l’obbligo di riconoscere il diritto di soggiorno del coniuge dello stesso sesso, alla luce dell’impossibilità, in materia, di interpretazioni differenti da quella che emerge dal diritto dell’Unione. Pur avendo individuato in precisi atti e documenti lo status di coniuge – quali ad esempio, quelli previsti dal D.lgs n. 286/1998 ovvero il nulla osta al ricongiungimento familiare nonché gli stessi permessi di soggiorno per motivi familiari – l’Italia non pare tuttavia pronta a recepire quello stesso dato in modo adeguato all’interno della banca dati fondamentale del sistema pubblico nazionale, da cui derivano tutte le notizie riprodotte in documenti, attestazioni, registrazioni: l’anagrafe.

Coniuge sì o no? L’anagrafe risponde… ni!

Se le buone prassi avranno raggiunto l’ufficiale d’anagrafe cui il coniuge dello stesso sesso (cittadino Ue) presenta la dichiarazione di residenza in qualità di familiare di altro cittadino avente autonomo diritto di soggiorno, egli avrà compreso che il diritto all’iscrizione è indiscutibile poiché si incarna, come detto, nell’articolo 2 della Direttiva e del D.lgs n. 30/2007. Pur tuttavia, si scontrerà immediatamente di fronte a difficoltà operative che, di nuovo, evidenziano l’inidoneità del sistema giuridico-amministrativo italiano a tutelare concretamente lo status del cittadino, o meglio la sua continuità all’interno del sistema di libera circolazione europeo, nonché l’esattezza dei propri dati personali.

Si tratta di questioni a prima vista residuali, a meno di non riuscire a immedesimarsi nel cittadino e comprendere quanto anche una parola, una definizione, possa essere rilevante nella bilancia emotiva della coppia e nella sfera personale di due persone che hanno stabilito la propria residenza in Italia: sono aspetti che diventano essenziali affinché norme e principi prendano corpo e abbiano effetti concreti nella vita delle persone.

Una volta iscritto in anagrafe, il coniuge dello stesso sesso non può non godere degli stessi diritti di ogni altro cittadino, diritti che cominciano dalla correttezza dei propri dati e status personali, in base al regolamento anagrafico e, ancor prima, al Codice in materia di protezione dei dati personali[9]. I dati anagrafici sono, infatti, l’elemento fondamentale nel sistema di pubblicità e di certezza delle identità nell’ordinamento: a tal fine essi vengono continuamente aggiornati, certificati ed elaborati. Non si dimentichi la funzione certificativa dell’anagrafe: dal latino certum facere, le certificazioni anagrafiche (e dunque le registrazioni anagrafiche) hanno un ruolo di prim’ordine nel sistema di pubblicità e certezza delle identità e degli status.

Dalla normativa anagrafica, e dalle prassi consolidate, emergono due punti di criticità che, a oggi, non trovano una soluzione condivisa e, ancora una volta, nessun intervento degli organi teoricamente preposti: l’indicazione del rapporto di parentela tra i due coniugi che fanno parte della stessa famiglia anagrafica[10] e la registrazione anagrafica dei dati di matrimonio (da non confondere con la trascrizione dell’atto, fattispecie del tutto distinta poiché afferente alla disciplina dello Stato Civile).

I rapporti di parentela indicati in anagrafe sono frutto di prassi consolidate e piccoli interventi, molto datati, del Ministero dell’Interno, come il passaggio dal capofamiglia all’intestatario scheda. In merito al coniuge same-sex, l’anagrafe dovrebbe prendere semplicemente atto della relazione documentata e registrare, correttamente, la relazione esistente per come acquisita agli atti del procedimento d’iscrizione (se il rapporto di matrimonio non fosse documentato, non vi sarebbe diritto all’iscrizione anagrafica ai sensi degli articoli 2 e 7 del d.lgs n. 30/2007). Più spesso, tuttavia, è prevalente la prassi di utilizzare, quale relazione, il termine “convivente”, definizione standard utilizzata per coloro che non sono legati da nessun vincolo oggettivo e documentato, ma che fanno parte della medesima famiglia anagrafica per “vincoli affettivi”.

Perché non indicare coerentemente “marito” o “moglie” anche il coniuge dello stesso sesso? O perché non eliminare ogni riferimento di genere e indicare semplicemente “coniuge”? Tutte domande che rimangono aperte ma che un ordinamento anagrafico moderno dovrebbe porsi in particolare oggi che è in corso la codifica nazionale dei dati in vista dell’entrata in vigore dell’Anagrafe nazionale della popolazione residente (ANPR).

Un ragionamento è però necessario: come può un ufficiale d’anagrafe, che ha iscritto quella persona proprio per il documentato status di coniuge, acquisito agli atti del procedimento, non indicare poi correttamente la relazione di parentela nella banca dati, indicando quel coniuge come “convivente”? Si tratterebbe di una palese incoerenza e, a mio parere, anche di un ingiustificato degrado di un elemento fondamentale della personalità.

L’iscrivere in anagrafe il coniuge dello stesso sesso non potrà che, logicamente e coerentemente con il quadro normativo descritto, portare anche all’indicazione del corretto rapporto di parentela e di tutti i dati di matrimonio. Quando parliamo di esattezza dei dati personali, come insegna la normativa sulla privacy, la forma è sostanza, poiché s’interviene sulla sfera più intima dell’individuo.

Inidoneità a produrre effetti, ma in quale ordinamento?

In questo breve excursus ho evidenziato le ricadute sul piano amministrativo e pratico della tutela dei diritti dei cittadini europei che, faticosamente e non senza incongruenze, sono riconosciuti dal sistema pubblico italiano, in questo caso dall’anagrafe. Le coppie di coniugi dello stesso sesso che sono, dunque, iscritti in anagrafe (avendone non soltanto il diritto, ma prima ancora il dovere ai sensi della legge n. 1228/1954[11]) si sono viste riconoscere gli effetti del loro vincolo matrimoniale nella sfera del diritto di libera circolazione e soggiorno, che tocca direttamente l’ordinamento interno attraverso le norme anagrafiche.

L’inevitabile e indissolubile intreccio tra sfera d’influenza del diritto comunitario e ordinamento interno, che si incardina nel diritto di soggiorno e prende forma con l’iscrizione anagrafica[12], evidenza una questione fondamentale: l’impossibilità manifesta di limitare gli stati personali ai principi dell’ordinamento interno, essendo tale ordinamento già oggi, in virtù dell’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, concretamente affiancato da quello europeo. Si è di fronte, in sostanza, a una protezione multipla del cittadino europeo: da parte da parte dei singoli ordinamenti, ma dall’altra, e prima ancora, dell’ordinamento europeo.

L’orientamento per cui, nell’ambito della registrazione degli status matrimoniali in anagrafe (e delle conseguenti indicazioni del rapporto di parentela e dei dati di matrimonio) sarebbe possibile differenziare il cittadino europeo da quello italiano, perché su quest’ultimo verterebbe una sorta di veto derivante dall’impossibilità di riconoscere validamente un matrimonio con persona del suo stesso sesso, non può essere condivisibile. La sfera di protezione multilivello, effetto diretto della cittadinanza europea, non può che includere anche il cittadino italiano, che diversamente si troverebbe ingiustamente discriminato[13].

L’analisi fin qui fatta ci porta a un’ulteriore riflessione, relativa alle richieste di trascrizione degli atti di matrimonio, adempimento relativo allo Stato Civile e, normalmente, obbligatorio quando uno dei due coniugi è cittadino italiano. Com’è possibile che il diniego alle richieste di trascrizione in caso di matrimonio tra persone dello stesso sesso avvenga sulla base della “inidoneità a produrre effetti nell’ordinamento interno” (Corte di Cassazione, sentenza n. 4184/2012), quando un effetto primario e fondamentale quale il diritto di soggiorno in Italia è direttamente connesso a quell’atto e l’ordinamento interno non può ignorarlo? Su quali basi si fonda un’inidoneità limitata all’ordinamento interno in un sistema multilivello, nel quale i cittadini ricevono protezione giuridica di pari valore sia dal diritto nazionale che da quello europeo, e l’effetto di tale protezione ha conseguenze sul piano amministrativo e documentale, attraverso l’iscrizione anagrafica?

Guardando in modo complessivo al quadro normativo sovranazionale applicabile alla sfera personale e agli status, da cui il nostro Paese non può isolarsi, l’anagrafe fotografa l’esistenza di uno spazio europeo dei diritti: uno spazio in cui i coniugi dello stesso sesso hanno diritto all’esatta registrazione dei propri dati personali e alla continuità degli status legittimamente acquisiti, e in cui il rifiuto alla trascrizione di quegli atti di matrimonio risulta sempre meno giustificabile.

 *Istruttore amministrativo, Comune di Poggio Torriana (RN) ed esperto Associazione Nazionale Ufficiali di Stato Civile e Anagrafe (ANUSCA)

 

[1] Il documento è disponibile sul sito della Direzione centrale dei servizi demografici all’indirizzo http://servizidemografici.interno.it/it/content/massimario-dello-stato-civile-anno-2012

[2] La necessaria applicazione dell’ordinamento europeo emerge anche dai Considerando della Direttiva n. 2004/38/CE e in particolare:

1) La cittadinanza dell’Unione conferisce a ciascun cittadino dell’Unione il diritto primario e individuale di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dal trattato e le disposizioni adottate in applicazione dello stesso;

2) La libera circolazione delle persone costituisce una delle libertà fondamentali nel mercato interno che comprende uno spazio senza frontiere interne nel quale è assicurata tale libertà secondo le disposizioni del trattato.

5) Il diritto di ciascun cittadino dell’Unione di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri presuppone, affinché possa essere esercitato in oggettive condizioni di libertà e di dignità, la concessione di un analogo diritto ai familiari, qualunque sia la loro cittadinanza.

11) Il diritto fondamentale e personale di soggiornare in un altro Stato membro è conferito direttamente dal trattato ai cittadini dell’Unione e non dipende dall’aver completato le formalità amministrative.

[3] Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea – Articolo 52

(…) 3. Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa.

[4]Trattato sull’Unione Europea (come modificato dal Trattato di Lisbona) – Articolo 6

1. L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati. I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni.

2. L’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati.

3. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”.

[5] Nel merito rilevano anche le Linee guida della Commissione Europea, COM (2009)313, per una migliore trasposizione della Direttiva 2004/38/CE, per cui “devono essere riconosciuti, in linea di principio, tutti i matrimoni validamente contratti in qualsiasi parte del mondo, con l’unica eccezione dei matrimonio forzati o poligami”.

[6] Nella nozione di familiari, infatti, la lettera b) dell’art. 1 specifica chiaramente al punto 2) “il partner che abbia contratto con il cittadino dell’Unione un’unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante”.

[7] Scrive il Ministero: “Il giudice ha affermato l’applicabilità del D.lgs n. 30/2007 ritenendo oggetto dell’accertamento non lo status di coniuge del ricorrente, non riconosciuto dalla legge, ma la qualità di familiare utile ai fini dell’ottenimento del titolo di soggiorno in esso previsto. (…) Lo straniero che ha contratto in Spagna un matrimonio con un cittadino dell’Unione dello stesso sesso deve essere qualificato come familiare ai fini del diritto di soggiorno in Italia”.

[8] Ricordiamo qui l’ordinanza del Tribunale di Pescara del 15 gennaio 2013 (pres. Angelo Bozza).

[9] Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, art. 11 – Modalità del trattamento e requisiti dei dati:

1. I dati personali oggetto di trattamento sono:

a) trattati in modo lecito e secondo correttezza;

b) raccolti e registrati per scopi determinati, espliciti e legittimi, ed utilizzati in altre operazioni del trattamento in termini compatibili con tali scopi;

c) esatti e, se necessario, aggiornati;

d) pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati;

e) conservati in una forma che consenta l’identificazione dell’interessato per un periodo di tempo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali essi sono stati raccolti o successivamente trattati.

2. I dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati.

[10]D.p.r. n. 223/1989, articolo 4 – Famiglia anagrafica:

1. Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune.

2. Una famiglia anagrafica può essere costituita da una sola persona.

[11] Legge 24 dicembre 1954, n. 1228, articolo 2: “E’ fatto obbligo ad ognuno di chiedere per sé e per le persone sulle quali esercita la patria potestà o la tutela, la iscrizione nell’anagrafe del Comune di dimora abituale e di dichiarare alla stessa i fatti determinanti mutazione di posizioni anagrafiche, a norma del regolamento (…)”.

[12] Interessante, da questo punto di vista, la riflessione di Paolo Morozzo della Rocca in Le fonti del diritto dell’immigrazione, breve premessa a tre casi emblematici, in merito al “principio dell’effetto attenuato tollerabile delle norme del diritto europeo sul diritto nazionale” (p. 14). Documento disponibile su www.cortedicassazione.it

[13] E’ il paradosso che evidenzia il Consiglio nazionale del notariato nello Studio internazionale Europa2020 n. 1-2015/E2020: “Risulta stridente co il diritto UE negare validità ai matrimoni omosessuali dei soli cittadini italiani, potendo una simile prospettazione comportare una “discriminazione alla rovescia”. Detta conclusione, infatti, porrebbe i cittadini italiani in una posizione deteriore rispetto a quella delle persone provenienti da altri Paesi membri”.