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Il nome della rosa (la disciplina italiana delle unioni civili)

Solo il tuo nome è mio nemico
Prendi un altro nome!
Che c’è nel nome?
Quella che chiamiamo rosa,
anche con altro nome avrebbe il suo profumo
Romeo and Juliet, II, 2

Stat rosa pristino nomine, nomina nuda tenemus
Il nome della rosa, Ultimo folio

 di Geremia Casaburi*

1. Premessa: da Shakespeare ad Eco

Il senato ha appena approvato la legge che disciplina le unioni civili tra persone dello stesso sesso (ma anche – ed è parte non  secondaria – le convivenze di fatto, di cui però non mi occuperò, se non marginalmente), ed appare verosimile (almeno allo stato, certo magmatico, della vita politica italiana) che lo farà anche la Camera (vi è, certo, l’ulteriore incognita della promulgazione del  Presidente della Repubblica).

Le coppie omosessuali escono dal limbo della inesistenza giuridica, almeno sul piano normativo (la realtà giurisprudenziale e sociale è molto diversa) ma, come si dirà, non entrano nel Paradiso (?) della piena eguaglianza rispetto a quelle eterosessuali, in quanto – a differenza che in altri Paesi occidentali, anche con ordinamenti molto vicini al nostro – la questione del matrimonio egualitario neppure si è posta.

Se poi il nuovo istituto giuridico, appunto  le unioni civili tra persone dello stesso sesso (d’ora in avanti: UC) costituisca o meno (e in che misura) una forma di matrimonio (o meglio, se sia- ed in quale misura- rapportabile a quest’ultimo) è questione controversa, non meramente formale, e che affronterò  in questo lavoro; da qui anche il titolo.

Infatti, da un lato, per molti profili, le differenze tra matrimonio e UC sono solo nominali, non di contenuto (e qui il riferimento alle immortali parole di Giulietta è inevitabile), dall’altro lato – e fermo che vi sono, e come, anche differenze sostanziali di rilievo- vi è la considerazione che le parole sono pietre, specie con riferimento ad istituti per i quali i simboli, le parole, sono moltissimo.

Ed allora – parafrasando l’antico motto con cui Eco (richiamarlo in questi giorni è del pari inevitabile) chiude il suo primo e più celebre romanzo, il rischio è quello che il nudo nome delle UC corrisponda molto poco, o almeno molto meno del dovuto (nella realtà più profonda, ed al di là delle tante concessioni) ad un modello primigenio, quello matrimoniale, irriducibilmente distante.

La nuova disciplina, certo, ha destato enorme attenzione nei media, di riflesso nella opinione pubblica, specie nella convulsa fase finale della approvazione al Senato, e in questa immediatamente successiva che stiamo vivendo.

Non mancano critiche radicali, su posizioni opposte, da un lato da parte di chi – nell’ottica di una conservazione assoluta quanto stagnante dell’esistente- non esita a ricorrere a stereotipi, preconcetti, esorcismi e maledizioni che si pensava appartenere ad altri tempi, ma anche da parte di chi denuncia – con toni anche ingenerosi, se non dannunziani, una vittoria mutilata, o addirittura lamenta una vera e propria sconfitta (nella prospettiva, astratta, del tutto e subito).

La legge quindi si muove tra lo Scilla di chi la ritiene troppo simile al matrimonio e il Cariddi di chi, al contrario, ancora troppo distante.

Tutto ciò accompagnato, sovente – anche sui media (tradizionali o informatici) più autorevoli dalla disinformazione più desolante, da errori grossolani, da strumentalizzazioni indegne di un Paese civile, che ripugnano soprattutto (qualsiasi ne sia l’orientamento personale)  a chiunque abbia anche almeno una infarinatura giuridica.

La parola passa ora, appunto, ai giuristi (non che, prima, abbiano taciuto: ma le loro indicazioni sono passate spesso in silenzio, quando non mortificate, sacrificate sull’altare delle convenienze politiche).

In questa sede intendo appunto procedere ad un primo esame  tecnico – che non vuol dire asettico – del testo normativo; lascio quindi le polemiche politiche, o anche solo la ricostruzione dell’iter di elaborazione ed approvazione della legge, ai cronisti politici e, in prospettiva, agli storici dell’età contemporanea (ma confesso che mi piacerebbe sapere se davvero si è aperta, nel nostro Paese, una nuova stagione della tutela dei diritti o se si è trattato solo di una finestra temporale favorevole, pur con tante difficoltà, e subito richiusa,  per un periodo di imprevedibile durata).

In caso di ulteriori modifiche (non voglio neanche ipotizzare una clamorosa bocciatura) mi riservo, eventualmente, di predisporre delle Postille al nome della rosa.

 

2.Una legge sui diritti di tutti, laica e (forse) storica, ma Giustiniano e Napoleone non abitano qui

Ancora alcune precisazioni, di carattere generale e di sistema.

Quella ora approvata non è una legge in favore delle  coppie omosessuali, o almeno non lo è – in una miope ottica corporativa – nel senso che ne tutela diritti ed interessi (nella loro dimensione di coppia) restando però in qualche modo avulsa dall’ordinamento generale dello Stato.

Si tratta di qualcosa di molto più importante:

– è una l. sui diritti civili (in primo luogo), che riconosce diritti (e doveri) a chi prima non ne aveva; come tale, è una legge per tutti, qualunque ne sia l’orientamento sessuale, che tutela tutti, in quanto i diritti civili (di rilevanza, oltretutto, costituzionale e sovranazionale) sono di tutti,  non solo di chi – in concreto – se ne avvale.

– è poi una l. laica (si è detto, sui media, che segna una nuova breccia di Porta Pia), e Dio sa se il nostro Paese ne ha bisogno; per una volta, l’interprete non dovrà fare ricorso al Catechismo della chiesa cattolica (strumento fondamentale, invece, per la lettura, ad es. della orrenda legge 40\2004, nel suo testo originario, quella contro la procreazione medicalmente assistita, e si pensi ai disegni di legge sulle scelte di fine vita).

Scrivo questo in senso consapevolmente polemico (anche perché, poi, il testo finale ha risentito, e come, di scelte confessionali), in una ottica non necessariamente anticlericale, ma di riaffermazione del principio (tante volte disatteso, specie con riferimento ai diritti della persona e della famiglia) della separazione tra sfera civile e sfera religiosa, la prima necessariamente comune a tutti, la seconda irriducibilmente soggettiva (e che quindi non può pretendere di imporsi, con la forza della legge statuale, a chi non la condivide).

-è quindi una l. europea ed occidentale che, finalmente, aggancia il nostro Paese a quelli, ormai numerosi in Europa, Americhe ed Oceania, che riconoscono forme di tutela e di riconoscimento giuridico alle coppie omosessuali; è posto quindi termine ad un isolamento ormai inaccettabile, anche perché ci “apparentava” a Paesi di  dubbia (la Russia, la Turchia) o comunque di nuova democrazia (i Paesi dell’ex blocco sovietico), per non dire al mondo islamico, o all’Africa nera, o all’Oriente (aree dove, in non pochi Stati, la condizione omosessuale è addirittura repressa penalmente, talora con pene gravissime).

Potrebbe quindi dirsi che è una l. storica, paragonabile solo – quanto ad importanza – alla n. 898\1970 che, quasi mezzo secolo fa (incontrando ostacoli furibondi, molto maggiori di quelli che hanno contrastato la disciplina qui in esame), introducendo il divorzio, cambiò per sempre il diritto di famiglia e tutta la società italiana.

Esito però ad usare l’aggettivo storico, sia perché – semmai – assegnarlo spetta ai posteri, mai ai contemporanei (la nostra visione è inevitabilmente parziale e contingente) , sia perché , purtroppo, si tratta di una disciplina che arriva tardi, forse troppo tardi, e perché in larga misura è imposta, come si dirà, dall’Europa.

Oltretutto l’impressione è che si tratta solo di un punto di partenza, non di arrivo, verso l’introduzione di altre, e più radicali, forme di tutela per le coppie di persone dello stesso sesso; si dirà infra delle lacune  e delle contraddizioni che inficiano, gravemente, il testo normativo.

Soprattutto è una l. nata male, sia perché si è assistito, via via, al depotenziamento dei disegni originali (ma, certo, la politica è l’arte del possibile), sia perché  vi è un peccato originale forse irreparabile: l’approvazione a mezzo del voto di fiducia, che ha strozzato il dibattito parlamentare.

Quest’ultimo, certo, almeno con riferimento alla discussione generale in aula, è stato di bassissimo, spesso infimo livello, non senza indecorosi scadimenti indegni del Parlamento (e spero che nessun operatore giuridico osi richiamare, per l’interpretazione della l., i lavori parlamentari, come invece avvenne – con esito infausto – nella primissima fase di vigenza della l. 40\2004 cit., cfr. Trib. Catania 3 maggio 2004, Foro it., 2004, I, 3498, con mie osservazioni).

Resta però che è manifestazione di pericoloso autoritarismo (quali che ne siano le ragioni contingenti), oltre che un grave precedente, giungere nel modo che si è detto alla approvazione di una legge – e che legge – sui diritti civili, oltretutto neppure di iniziativa governativa; oltretutto, fin quasi alla vigilia del voto, le forze politiche avevano configurato al riguardo il “voto di coscienza” per almeno alcune dei profili di maggiore spessore.

L’effetto perverso –e allo stato irrimediabile (non mi pare ci sia una delega per il riordino del testo)- di tale meccanismo di approvazione è che il testo originario del c.d. disegno Cirinnà (o ex Cirinnà, come ormai sarebbe più corretto dire), il d.d.l. n. 2081 (d’ora in avanti: d.l.) è confluito, con le modifiche di cui si dirà,  nel maxiemendamento, composto da un unico articolo (regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), suddiviso in ben 69 commi, di difficile e macchinosa lettura (è venuta meno, in altri termini, la suddivisione in titoli ed in articoli, ciascuno con la sua rubrica) .

Va bene che non si è voluto far entrare UC e convivenze di fatto (curioso ossimoro: ormai sono normate, quindi non più di fatto) nel salotto buono del Codice Civile; però mi sembra davvero troppo  utilizzare – per disposizioni di tale rilievo – la  tecnica, si fa per dire, delle leggi di stabilità (o come altro si chiamano), caratterizzate da centinaia e centinaia di commi eterogenei.

Quando si dice la buona legislazione.

Bizantinismi e autoritarismo , evidentemente, hanno indotto i “vincitori” ad assumere il ruolo del Giustiniano o del Napoleone di turno; ma qui sono mancati i Triboniano, i Pothier: il risultato finale è di mediocrissima qualità legislativa (le modifiche imposte dalle ragioni politiche hanno poi molto peggiorato il d.l. originario, già sfilacciato e mal scritto).

3. Metodo e rinvio

L’esame del testo normativo si presenta, pertanto, come particolarmente complesso, e sicuramente – per una effettiva messa a fuoco – sarà indispensabile attendere i primi orientamenti giurisprudenziali.

In questa sede terrò in primo luogo conto, inevitabilmente, del raffronto con il d.l., (in Articolo29).

A tal fine – anche per non dilungarmi – farò ampiamente riferimento al mio lavoro  Il Sillabo delle Unioni Civili: giudici, etica di stato, obblighi internazionali dell’Italia, in Articolo29, 2015 (d’ora in avanti: Sillabo) cui rinvierò senz’altro per le parti che ritengo sostanzialmente immodificate nel testo definitivo.

Mi permetto di richiamare, inoltre, le note e i commenti che ho predisposto per il corpus di provvedimenti in materia di coppie omosessuali (anche con riferimento alla filiazione) adottati, nel corso del 2015, da autorità giudiziarie interne, internazionali , straniere (più di preciso: Cass. 9 febbraio 2015, n. 2400, App. Milano, decr. 9 novembre 2015, App. Napoli, decr. 8 luglio 2015, App. Milano, decr. 27 marzo 2015, Trib. Grosseto, decr. 26 febbraio 2015, Foro It. 2016 I, 296;  App. Milano, decr. 10 dicembre 2015, Trib. min. Roma 22 ottobre 2015, ibid. I, 338; Cons. Stato, sez. III, 26 ottobre 2015, n. 4899, Tar Lazio, sez. I ter, 9 marzo 2015, n. 3907, ibid., III, 6; Corte eur. diritti dell’uomo 21 luglio 2015, O. , ibid., IV, 1; Corte suprema Stati uniti d’America 26 giugno 2015, ibid. IV, 59).

4.Una legge costituzionalmente necessaria…

All’indomani della approvazione della l. (e, per la verità, anche prima) esponenti del fronte che può definirsi, per comodità (e senza specifici riferimenti partitici: d’altronde è trasversale), conservatore\clericale hanno prospettato, per non dire minacciato, la promozione di un referendum abrogativo (della legge nel suo complesso o di sue singole disposizioni, non è ben chiaro), o incidenti di costituzionalità (non si comprende come provocati).

I media, d’altronde, stanno facendo circolare sondaggi (non so fino a che punto corretti) sul gradimento della opinione pubblica circa questo o quel punto della nuova legge.

Alla base delle (per ora ipotetiche) richieste referendarie, indubbiamente, vi è una non nuova concezione autoritaria della democrazia, vista come una sorta di dittatura di chi ha più numeri (in molti sensi); la storia mostra, del resto, che a dittatori, tiranni, signorotti o, semplicemente, politici autoritari è sempre piaciuto il plebiscito popolare (agevolmente controllabile, oggi con i media) a sanzione formale delle loro (in realtà insindacabili) decisioni.

 La democrazia, invece,  non è solo governo della maggioranza, ma rispetto delle minoranze e- soprattutto – dei diritti di tutti,  quei diritti che la nostra Costituzione, all’art. 2, definisce inviolabili.

In un’ottica più ampia Corte suprema USA 26 giugno 2015 cit. ha ammonito:

«gli individui non devono aspettare l’azione del legislatore prima di far valere un diritto fondamentale,,, Un individuo può invocare la protezione costituzionale di un diritto quando è leso, anche se il più vasto pubblico è contrario e anche se il Parlamento rifiuta di agire» in quanto occorre «sottrarre certe materie dalle vicissitudini della lotta politica, per porle oltre la portata delle maggioranze e dei funzionari, per costituirle come principi giuridici che dovessero essere applicati dalle corti… Questa è la ragione per cui i diritti fondamentali non possono essere sottoposti a un voto; non dipendono dal risultato di alcuna elezione. Non ha importanza se i difensori del matrimonio tra persone dello stesso sesso ora godano o manchino di influsso nel processo democratico» (traduzione di DE FELICE, in Articolo29, 2015)

Si tratta di una affermazione di altissimo valore etico, culturale e – per quel che qui interessa – giuridico, sicuramente operante anche nel nostro ordinamento, in generale e con riferimento, ora, ai diritti delle coppie di persone dello stesso sesso che trovano riconoscimento e tutela nella nuova legge.

Questa, pertanto, nel suo complesso e negli snodi qualificanti (la tutela non potrebbe mai ridursi a mera lustra, cfr. infra)  non potrà mai essere oggetto di referendum abrogativi (quale che sia – in ipotesi – l’orientamento dell’elettorato).

La Corte Costituzionale ha elaborato al riguardo, da tempo, la categoria delle leggi costituzionalmente necessarie, cui senza dubbio alcuno (incidendo sulla identità delle persone come singoli e nella dimensione di coppia) la legge in esame è riconducibile, e come d’altronde agevolmente desumibile dalle sentenze della Consulta medesima che hanno sollecitato l’introduzione della disciplina delle UC.

Alle disposizioni costituzionali interne di riferimento (in primis art. 2, 3, ma direi anche 29, 30), va aggiunto, a mezzo della interposizione prevista dall’art. 117 Cost.,  almeno l’art. 8 Conv. europea dei diritti dell’uomo, quale interpretata dalla Corte di Strasburgo, che del resto si è già pronunciata, inequivocabilmente, sulla lacuna normativa del nostro Paese,  cfr. Sillabo cit. § Non c’è fretta, non c’è necessità? (nonché osservazioni a Corte eur. 21 luglio 2015 cit.), ma cfr. infra per delle precisazioni al riguardo.

Il ritorno, in tutto o in parte, al vuoto di tutela antecedente alla l. in esame, in forza dell’esito positivo di un referendum abrogativo, evidentemente comporterebbe il riprodursi di situazioni di    incostituzionalità che, invece, devono ritenersi cessate per sempre.

5.  ..ma non (sempre) conforme alla Costituzione

Profili di incostituzionalità possono sì configurarsi, ma in senso esattamente speculari a quanto prospettato dal fronte conservatore\clericale, in quanto la l., nel suo complesso e – soprattutto – in specifici punti (ed omissioni) può essere più fondatamente criticata per aver conservato, e non rimosso, residue discriminazioni a danno delle coppie omosessuali.

Si tratta di un profilo estremamente delicato, dove il dato politico\culturale e quello tecnico giuridico rischiano non virtuose sovrapposizioni ed interazioni, e per il quale rinvio ampiamente a Sillabo, cit., passim ma soprattutto § Ancora sugli effetti delle unioni civili, e sulla matrimonializzazione strisciante dell’istituto.

In estrema sintesi, il legislatore italiano non era sicuramente tenuto, anche ai sensi delle carte sovranazionali (Cedu, Nizza) ad introdurre il matrimonio egualitario, pur se avrebbe potuto farlo con legge ordinaria, non ostando a ciò l’art. 29 Cost., almeno ove si  legga tale disposizione  in modo non angusto, ma evolutivo, e alla luce dei più generali e fondamentali principi degli artt. 2 e 3 (cfr, per riferimenti dottrinali,  osservazioni a Cass. 2400\2015 cit.); il matrimonio, quale istituto di diritto civile (come ho ampiamente dedotto nei miei lavori) è del resto ormai un istituto ampiamente neutro, .sicchè l’eventuale estensione alle coppie omosessuali non creerebbe alcuna “crisi di rigetto”.

Il legislatore era sicuramente tenuto (glielo avevano imposto, in termini stringenti, Consulta e Corte di Strasburgo) ad introdurre una disciplina delle unioni civili, vale a dire a giuridicizzare le coppie omosessuali che ne avessero fatto richiesta.

La disciplina da adottare non doveva, non necessariamente, corrispondere in tutto e per tutto a quella del matrimonio (che, si ricordi, allo stato è l’unico modello di famiglia disciplinata organicamente dalla legge).

In tal caso, d’altronde, la differenza sarebbe davvero solo nominalistica, di etichetta (matrimonio\unione civile), nell’ottica – possibile (pur se evocante una qualche forma di apartheid)-  del “separati, ma uguali”.

In un’ottica costituzionalmente orientata, il principio di eguaglianza, ex art. 3 Cost., opera qui semmai come canone di razionalità, quale limite alla discrezionalità del legislatore (come pure ampiamente argomentato nei lavori sopra richiamati).

Ne segue che le disparità di trattamento normativo tra matrimonio ed UC potranno ritenersi costituzionalmente legittime solo se giustificate sotto il profilo della razionalità, ovvero in quanto corrispondano ad un equilibrato bilanciamento degli interessi in gioco;  si tratta di un giudizio da condurre con estremo rigore, tenuto  conto che  è stato lo stesso legislatore a costruire quasi completamente (anche nel testo finale) l’UC sul modello del matrimonio, facendo così una scelta di sistema; cfr. Sillabo, § Differenze di regime, principio di eguaglianza e “matrimonio oggi” nonché Il canone di razionalità come rimedio antierrore; cfr anche SEGNI, Unioni civili: non tiriamo in ballo la costituzione, Nuova giur. civ. comm., 2015, 707.

Una eccessiva distanza tra matrimonio ed UC può d’altronde comportare un ulteriore effetto perverso, solo in apparenza paradossale, rendere le UC appetibili anche alle coppie eterosessuali, che potrebbero voler accedere ad una disciplina intermedia tra la tutela massima del matrimonio e quella minima delle convivenze di fatto; da qui una “nuova” discriminazione (questa volta a danno delle coppie eterosessuali) che, a quanto consta, è già emersa in altri ordinamenti giuridici.

Oltretutto il regime delle UC, quale delineato dalla l., oltre che più elastico, sotto molti aspetti, di quello del  matrimonio (si pensi allo scioglimento, cfr. infra) è sovente anche più moderno; un es. per tutti, l’egualitario sistema di attribuzione del cognome di famiglia (cfr. 10° c.), sicuramente preferibile  a quello, patriarcale (e di fatto desueto), ancora previsto per il matrimonio, ex art. 143 c.c.

Infine vorrei essere chiaro su un punto.

Ritengo non solo costituzionalmente necessario (anche sotto il profilo delle Carte sovranazionali vincolanti l’Italia, cfr. infra), ma anche costituzionalmente doveroso, che le UC siano costruite, per quanto possibile ed il più possibile, sul modello del matrimonio (lo ricordo ancora: l’unica forma di famiglia allo stato disciplinata dalla legge); tanto a differenza delle convivenze di fatto (che pure, comunque, al modello matrimoniale guardano), che si fondano su una scelta libera di una coppia che , per sempre o provvisoriamente, non vuole (o non può, se ancora vincolata da precedente legame) accedere al matrimonio ed alla UC.

Quest’ultima, invece, si fonda proprio sulla stabilità, e la tendenziale definitività del legame, come nel matrimonio (beninteso, fondato sul perdurare del consenso reciproco, ancora come nel matrimonio).

Alla stregua della giurisprudenza costituzionale, e ormai del 1° c. della l., certo, le UC trovano fondamento nell’art. 2 Cost., mentre il matrimonio si radica sull’art. 29.

Questo però non può giustificare differenze di regime irragionevoli, quindi discriminatorie: matrimonio e UC sono infatti species di un genus comune, la famiglia e, ritengo, l’evoluzione degli studi e della giurisprudenza porterà a ricondurre anche le UC nel più sicuro alveo dell’art. 29 Cost. (alla stregua di una possibile e anzi necessaria interpretazione evolutiva della disposizione).

La matrimonializzazione delle UC, su cui tornerò più volte, allora è indispensabile ai fini della costituzionalità del nuovo testo.

Ritengo che, nel complesso, la nuova l. si sia mossa in tal senso pur se, inevitabilmente, con lacune e contraddizioni.

Il testo normativo, infatti, schizofrenicamente, da un lato –  e nei profili sostanziali –  è nel senso della equiparazione tra matrimonio e UC; dall’altro lato però il medesimo testo si muove nella spasmodica (talora risibile) elisione di tutti quegli elementi, essenzialmente – ma non solo-  formali e simbolici (che però, nella materia, sono di grande rilievo, come accennato) che potessero anche solo evocare  un equiparazione con il matrimonio.

Da qui – anche per evitare più gravi guasti, e letture tendenziose delle disposizioni di maggior peso – il ruolo dell’interprete.

È d’altronde la stessa l., che esordisce con un riferimento all’art. 3 Cost., e quindi al principio di ragionevolezza, ad offrire la migliore chiave di lettura del suo testo.

6. Il convitato di pietra: la Corte di Strasburgo

La nuova l., come accennato, si spiega anche in ragione della condanna del nostro Paese, espressa da Corte eur. dei diritti dell’uomo 21 luglio 2015 cit.: «Il mancato riconoscimento, nell’ordinamento giuridico italiano, delle unioni civili costituite da persone dello stesso sesso vìola il diritto di queste ultime al rispetto della loro vita familiare e si pone in contrasto con l’art. 8 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali».

Il cuore della motivazione (per quanto questa sia di ampiezza inusitata) si risolve, in realtà, in poche battute: l’art. 8 della convenzione è stato violato perché lo Stato italiano, sordo ad ogni pressione anche delle sue più alte istanze giurisdizionali e a quelle provenienti dalla stessa società civile, ha testardamente rifiutato qualunque tutela, se non sporadica ed episodica, ai legami omosessuali.

La sentenza, in apparenza, non indica il contenuto minimo di tutela che lo Stato italiano è obbligato ad accordare: ma è evidente che questa non può essere apparente, o irrisoria e, di contro, deve riguardare (complessivamente) tutti i diritti ed i doveri connessi alla vita di coppia, nonché quelli che alla coppia, in quanto tale, competono dalle istituzioni (ad es. in ambito previdenziale).

Non può poi trascurarsi che la Corte di Strasburgo ha avuto più volte occasione di pronunciarsi in materia di tutela delle coppie omosessuali e di UC (cfr. le mie osservazioni a Corte eur. 21 luglio 2015 cit.), censurando specifiche discriminazioni, a danno delle coppie omosessuali, in diversi ambiti civilistici.

Particolarmente istruttivo è il caso tedesco (anche perché la l. italiana è stata costruita, almeno nelle intenzioni, su quel modello): la l. sulle UC del 2001, che ancora conservava significative differenze di disciplina rispetto al matrimonio, è stata novellata nel 2005, in termini sostanzialmente egualitari, sulla spinta sia della Corte europea che della Corte costituzionale (con decisioni reperibili in articolo29.it), cfr. PATTI, Le unioni civili in Germania, Famiglia e dir. 2015, 958.

Tornando all’Italia, è del tutto probabile che, in un futuro molto prossimo la  situazione italiana, con riferimento alle disparità di trattamento ancora esistenti, tornerà all’esame della Corte di Strasburgo (la quale ha già  chiarito, con la sentenza 21 luglio 2015 cit., che non occorre attendere l’esaurimento dei ricorsi interni).

A questo punto occorre un chiarimento.

Non sono, personalmente, un euroentusiasta, e non ho alcuna simpatia per quegli orientamenti dottrinali (ma non senza qualche emersione giurisprudenziale) che, specie in materia di diritti fondamentali, vedono sempre e comunque la salvezza nell’Europa, rectius, nella Corte di Strasburgo (ma, beninteso, anche il diverso diritto dell’Unione europea gioca la sua parte); si tratta di un gioco pericoloso, portato avanti spesso da “professionisti” (interessati) dell’europeismo ad ogni costo, che davvero può ledere (ancorché la sovranità nazionale) i principi fondamentali dell’ordinamento, anche perché – in genere – la Costituzione italiana è più avanzata della Cedu.

Non è un caso, del resto, che la Corte Costituzionale, quando si è trattato di pronunciarsi su diritti fondamentali, rispetto ai quali, per l’interposizione dell’art. 117 Cost., erano state invocate disposizioni convenzionali, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, ha sempre preferito ragionare in termini di diritto costituzionale interno (particolarmente clamorosa la vicenda della procreazione medicalmente assistita eterologa, cfr Corte Cost. 5 giugno 2015, n. 96, Foro it., 2015, I, 2250, con mie osservazioni).

Particolare rilievo ha allora Corte Cost. 26 marzo  2015 n. 49  (Giur. cost.., 2015, 391), la quale ha chiarito che alla Corte di Strasburgo non compete determinare il significato della legge nazionale; al contrario, il giudice europeo deve valutare se tale legge «come definita e applicata dalle autorità nazionali, abbia, nel caso sottoposto a giudizio, generato violazioni delle superiori previsioni della CEDU. È pertanto quest’ultima, e non la legge della Repubblica, a vivere nella dimensione ermeneutica che la Corte EDU adotta in modo costante e consolidato».

Il giudice nazionale, certo, deve assegnare alla disposizione interna un significato quanto più aderente a quello individuato dalla Corte europea, ma «a condizione che non si riveli del tutto eccentrico rispetto alla lettera della legge».

Infatti, ed è dato decisivo, la Cedu ha pur sempre carattere sub costituzionale: «il dovere del giudice comune di interpretare il diritto interno in senso conforme alla CEDU, appena ribadito, è, ovviamente, subordinato al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme, poiché tale modo di procedere riflette il predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU …Il più delle volte, l’auspicabile convergenza degli operatori giuridici e delle Corti costituzionali e internazionali verso approcci condivisi, quanto alla tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, offrirà una soluzione del caso concreto capace di conciliare i principi desumibili da entrambe queste fonti. Ma, nelle ipotesi estreme in cui tale via appaia sbarrata, è fuor di dubbio che il giudice debba obbedienza anzitutto alla Carta repubblicana».

Richiamo quest’arresto (forse sottovalutato, nell’imperante clima euroentusiasta di tanti giuristi di casa nostra), su cui tornerò in materia di filiazione, perché la questione delle UC mi sembra, invece, un caso (forse non così comune come afferma la Consulta) di “auspicabile”, ma direi soprattutto felice, convergenza delle Corti supreme, nazionali (la stessa Corte Costituzionale)  e sovranazionali (la Corte di Strasburgo, certo, ma in prospettiva anche quella di Lussemburgo, come dirò infra),  al fine della  rimozione di discriminazioni ingiustificabili  con riferimento sia alla Costituzione, sia alla Cedu, sia alla Carta dei diritti dell’Unione Europea.

7. Quel che è riconosciuto (non si vive di solo pane, ma non può mancare)

L’esame analitico della l. può iniziare da quel che c’è, da quel che è riconosciuto, e quindi, in riferimento al d.l., a quello che è rimasto immutato.

Non è poco, anzi è moltissimo, e costituisce il riscontro definitivo di quanto ho osservato nel Sillabo, circa la matrimonializzazione, almeno tendenziale, delle UC., cfr. Sillabo, Ancora sugli effetti delle unioni civili, e sulla matrimonializzazione strisciante dell’istituto.

Il riferimento, in primo luogo, è ai diritti (e doveri) patrimoniali (ma non solo, ad es. cfr. infra quanto agli ordini di protezione).

Qui l’equiparazione tra matrimonio UC è pressoché piena, conformemente del resto al d.l.; semplicemente, rispetto a quest’ultimo, si è limitato al massimo  il rinvio tout court alle disposizioni del codice civile (per il vano scopo, su cui tornerò, di evitare l’equiparazione in parola).

Così, in materia di regime patrimoniale, il confusissimo 13° c. prende il posto dell’art. 3, 3° c. del d.l., sostanzialmente riproducendone il contenuto (limitatamente, appunto, ai profili patrimoniali).

Semplicemente (e comicamente, viene da aggiungere), il rinvio all’art. 159 c.c., disposizione generale di apertura sul regime patrimoniale della famiglia   è stato sostituito, in apertura del comma, con la riproduzione pressoché integrale della stessa disposizione (emendata dalle parole ritenute pericolose e non estendibili alle UC famiglia e legale):

«il regime patrimoniale dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, è costituito dalla comunione dei beni».

Nella stessa ottica , vanamente censoria, il rinvio all’altra disposizione generale in materia di rapporti patrimoniali tra i coniugi , l’art. 160 c.c., sull’inderogabilità dei diritti e dei doveri nascenti dal matrimonio, è sostituito dalla riproduzione della stessa disposizione (sostituendo, non si sa mai, la parola sposi con il più asettico parti dell’unione civile,  e – ovviamente – il riferimento al matrimonio con quello all’UC)

Resta invece invariato (con l’aggiunta, superflua, del riferimento a «forma, modifica, simulazione e capacità per la stipula delle convenzioni matrimoniali» il rinvio agli artt. 162, 163, 164, 166 c.c. (sparisce invece il rinvio all’art. 166 bis sul divieto di costituzione di dote, che però discende comunque dai principi generali in materia di convenzioni patrimoniali), resta anche il rinvio alle sezioni II, III, IV, V e VI del capo VI del titolo VI del libro I Cod. Civ.

Resta poi fermo- cfr. 19° c. – il regime degli alimenti (con il  rinvio al titolo XIII, I libro Cod. Civ.) e agli artt. 2647 (costituzione del fondo patrimoniale), 2653, primo comma, numero 4) (atti soggetti a trascrizione) c.c.

Il pudibondo legislatore, evidentemente, ha ritenuto che si trattava di norme troppo tecniche, o troppo numerose, sicché non ne valeva la pena la trascrizione letterale, o quasi, nella nuova l.

Restano ancora fermi i diritti successori, gli stessi nascenti dal matrimonio: in tal senso l’importantissimo 21° c., che riproduce, senza variazioni, l’art. 4 del d.l.;

Di contro- chissà perché- sono espressamente riprodotte, ed estese quindi alle UC, le disposizioni in materia di:

  • Ordini di protezione, cfr. 14° c. (art. 342 bis e ter c.c.)
  • Scelta dell’amministratore di sostegno e azione per l’interdizione o l’inabilitazione ovvero revoca delle stesse, cfr. 15° c. (art. 408, 410, 417, 426, 429 c.c.)
  • annullamento del contratto per violenza, cfr. 16° c. (art. 1436 c.c.)
  • indennità in caso di morte del prestatore di lavoro, cfr. 17° c. (art. 2122 c.c.)
  • sospensione della prescrizione, cfr. 18° c. (art. 2941, n.1) c.c.)

Il d.l., più opportunamente, si era limitato a rinviare alle corrispondenti (e sopra richiamate) disposizioni del c.c.

Infine, in caso di scioglimento della UC (il cui regime, pure, è stato profondamente modificato rispetto al d.l.), la l. tutela la parte economicamente più debole, riconoscendole pienamente i diritti   previsti dalla l. 898\1970 sul divorzio, cfr 25° c. (che   infatti rinvia, pur con la clausola di compatibilità, e per quanto qui interessa, ai seguenti articoli della l. cit.: . 5,  6° c. ss., sull’assegno divorzile; 8, sulle garanzie a tutela di tale assegno, 9 bis, sul procedimento di revisione delle condizioni di divorzio e sul riparto della pensione di reversibilità; 9 bis sull’assegno a carico dell’eredità ; 12 bis , sul diritto del coniuge divorziato ad una quota del TFR dell’altro).

La tutela, anche sotto questo punto di vista, è piena.

8. Segue, la clausola di salvaguardia del 20° c. e l’eterogenesi dei fini

La l., soprattutto – con il 20° c.-  riproducendo la disposizione di chiusura contenuta nell’art. 3, 4° c. d.l.  enuncia:

«Al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge».

E’ la clausola di salvaguardia ovvero di equivalenza, non solo terminologica che- svolgendo una funzione palesemente antidiscriminatoria – assicura, almeno tendenzialmente, l’equiparazione nei più svariati ambiti (tra cui quello previdenziale) tra matrimonio e UC.

SCHILLACI, Un buco nel cuore. L’adozione coparentale dopo il voto del Senato, in  Articolo29, 2016, ha correttamente osservato che «si tratta di una disposizione rivolta al giudice e alla pubblica amministrazione, ed in particolare di una regola sull’interpretazione e sull’applicazione di altre disposizioni normative», da intendere, appunto, in termini non discriminatori.

Tale equiparazione non è significativamente incisa neppure dalla singolare esclusione (già nel d.l., e manifestazione dell’inutile timore di ricalcare “troppo” il matrimonio) delle norme del codice civile non richiamate: non ne potrebbe comunque essere preclusa, ove necessario, l’applicazione analogica.

La trasposizione del testo dal d.l. alla l. presenta però una   aggiunta iniziale (dirò infra del regime delle adozioni)  palesemente limitativa, appunto l’inciso «al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi» derivanti dall’UC.

Si tratta di una previsione frutto del convulso compromesso politico che ha portato all’approvazione del testo definitivo, ed è una palese concessione a quanti quella equiparazione (per non dire tout court una disciplina delle UC) non volevano affatto.

Qui però ha prevalso, fortunatamente, l’insipienza giuridica; infatti, quale sia stato il proposito dell’incauto legislatore, dall’animo tanto diviso, a me sembra che tale limitazione non limiti nulla, nel senso che non attenua, in alcun modo, la portata radicale della clausola di salvaguardia, quella sì di chiarissima e sicura efficacia giuridica.

Nel diritto civile- ed in tale ambito la disposizione opera – il riferimento all’esercizio dei diritti, e all’adempimento dei doveri, è assorbente, e non limitativo: in altri termini quelle ora introdotte sono  mere sintesi verbali, in quanto non vi è nulla di giuridicamente rilevante oltre  i diritti ed i doveri (inutilmente) richiamati in termini tanto generali.

A ben vedere, anzi, e tenuto poi conto del richiamo all’art. 3 Cost. di cui al 1° c., a me sembra che la nuova previsione, in una singolare eterogenesi dei fini, rafforzi, e non attenui, la portata egualitaria della disposizione in esame.

9. Ulteriori disposizioni e deleghe legislative, ed una rafforzata ipoteca di costituzionalità

La l. ancora prevede, non discostandosi dal d.l.:

-la disciplina delle conseguenze della rettificazione anagrafica di sesso, cfr. 26° e 27° c. (art. 6 in fine e 7 d.l.), cfr Sillabo, § Rettifica di attribuzione di sesso, matrimonio, unione civile, divorzio

– la delega al Governo per il riordino e l’adeguamento della legislazione vigente, cfr. 28°. 29°, 30° e 31° c. (art. 8 d.l.).

Va però notato che (come già il d.l.) è prevista, nell’ambito della delega (ma mi chiedo perché il legislatore non vi abbia provveduto direttamente) «l’applicazione della disciplina dell’unione civile tra persone dello stesso sesso regolata dalle leggi italiane alle coppie formate da persone dello stesso sesso che abbiano contratto all’estero matrimonio, unione civile o altro istituto analogo», 28° c., b).

In tal modo si intende palesemente risolvere una questione affrontata reiteratamente dalla giurisprudenza, che – fino ad ora – ha quasi sempre   affermato  che

«Non sussiste, nel caso di due persone dello stesso sesso le quali abbiano contratto matrimonio all’estero (nella specie, in Portogallo), il diritto alla trascrizione del relativo atto nel corrispondente registro dello stato civile italiano, atteso che un tale matrimonio non può produrre effetti nell’ordinamento giuridico italiano», così in ultimo App. Milano 9 novembre 2015  cit. (cfr. le mie osservazioni per ulteriori riferimenti).

Mi chiedo però se la conversione del matrimonio estero in unione civile sia davvero una soluzione giuridicamente corretta, se non accettata dalle parti, specie tenuto conto che- nell’ordinamento italiano – rimangono significative differenze di regime tra i due istituti, pur per altro verso tanto vicini.

Vi è qui, in altri termini, una contraddizione insanabile, che proprio la nuova l., riconoscendo rilevanza giuridica al legame stabile tra coppie dello stesso sesso, è destinata ad accrescere: sarà davvero difficile, infatti, alla stregua delle disposizioni di diritto internazionale privato, ritenere che il matrimonio omosessuale straniero possa essere davvero privo di effetti nel nostro Paese (neppure considero, ovviamente, le considerazioni agiuridiche di Cons. Stato 26 ottobre 2015, n. 4899 cit.).

La situazione è tanto più grave con riferimento a matrimoni contratti in Paesi dell’Unione europea (importa poco se da italiani o altri cittadini dell’Unione), cfr. già App. Napoli 8 luglio 2015 cit., che ha senz’altro disposto la trascrizione di un matrimonio contratto in Francia da due cittadine francesi (una anche cittadina italiana).

Si pone infatti la questione della   violazione di diritti fondamentali riconosciuti ai cittadini dell’Unione europea, in particolare quello a non subire discriminazioni in ragione della propria nazionalità e a quello di circolare e soggiornare nel territorio degli Stati membri (rispettivamente art. 18 e 21 Tfue, violazione cui non può porre rimedio la conversione (oltretutto automatica) del matrimonio straniero in UC.  La dottrina, al riguardo, ha configurato il diritto alla «libera portabilità degli status», cfr. SCALISI, «Famiglia» e «famiglie» in Europa, in Riv. dir. civ., 2013, 21.

In definitiva, quindi, prima ancora che un dubbio di costituzionalità, si pone (rectius, sta per porsi) un rilevante dubbio di conformità all’ordinamento comunitario, che dovrà essere del tutto verosimilmente risolto, a mezzo di rinvio pregiudiziale, dalla Corte del Lussemburgo.

10. La costituzione dell’UC

La l., come già il d.l., opportunamente non definisce le UC, istituite in forza del 1° c., che si limita a qualificarle come «specifica formazione sociale ai sensi degli artt. 2 e 3 Cost.».

Si tratta, ovviamente, di un istituto assolutamente nuovo per il nostro ordinamento, che attinge sia al diritto pubblico che a quello privato, e che forse (ma lo stesso può dirsi , ormai, per il matrimonio, che ha quasi del tutto perso il suo connotato pubblicistico) può definirsi tout court di diritto di famiglia.

Il riferimento alle formazioni sociali riproduce, evidentemente, l’art. 2 Cost., come suggerito da Corte Cost., 15 aprile 2010, n. 138 (Foro it., 2010, I, 1361 e 1701), al fine di distinguere UC da matrimonio.

L’espresso (e superfluo) riferimento all’art. 2 Cost., omesso dal d.l., vuole evidentemente rimarcare quella differenziazione.

Curioso, a dir poco, è il riferimento, pure frutto della elaborazione finale, all’art.3 Cost., invero sotteso ad ogni legge della Repubblica.

Non c’è dubbio che, con esso, l’incauto legislatore volesse ulteriormente rafforzare (non so come) quella presa di distanza tra matrimonio e UC; anche qui però l’effetto può ricondursi all’eterogenesi dei fini, perché il riferimento – se gli si vuole riconoscere senso giuridico – non è certo all’eguaglianza tra le parti dell’UC, ma  al  richiamato canone di razionalità, nel senso che è imposta, agli interpreti,  come già accennato, una lettura delle nuove disposizioni volta a superare ogni possibile ed ingiustificabile discriminazione tra UC e, appunto, matrimonio.

Cfr. infra sull’esatta portata giuridica dell’UC nonché Sillabo, § Le Unioni civili come formazioni sociali: bande musicali, associazioni filateliche o famiglie?.

La l. riproduce poi fedelmente il d.l. con riferimento alla costituzione del vincolo (2° , 3° c., corrispondenti all’art. 2, 1° e 2° c. d.l.) ; si tratta di una disciplina deplorevolmente lacunosa, in quanto –allo scopo di ridurre al minimo ogni accostamento ai profili più simbolici del matrimonio (quelli attinenti al rito) si è preferito evitare il rinvio, o anche solo il ricalco, più o meno fedele, delle disposizioni di cui agli artt. 106-113; la conseguenza è che la celebrazione (ma si potrà usare questo termine?) potrebbe non essere pubblica (cfr. art. 106 c.c.), nulla è precisato circa il contenuto delle reciproche (?) dichiarazioni delle parti e circa lo stesso ruolo dell’ufficiale di stato civile (ho già osservato che, paradossalmente, la formazione del vincolo sembra ispirata al modello del matrimonio canonico).

Resta poi fermo il regime degli impedimenti, cfr. il 4° c. ( corrispondente all’art. 2, 3° c. d.l.), nonché il 32° c. (corrispondente all’art. 9 d.l.), di novellazione dell’art. 86 c.c., sulla libertà di stato ; ne segue che non può contrarre matrimonio chi è vincolato da un precedente matrimonio o UC , come d’altronde – 4° c., a), non può costituire UC chi è vincolato da precedente matrimonio o UC) , ai profili attinenti ai registri di stato civile  (9° c., corrispondente all’art. 2, 5° c. d.l.).

Anche siffatte disposizioni sono costruite sul modello di quelle, corrispondenti, relative al matrimonio.

Resta fermo, anche nel testo finale, che le UC sono riservate ai maggiorenni, non essendo richiamata la previsione dell’art 84 c.c. sulla possibilità di autorizzazione al matrimonio degli ultrasedicenni; la mia impressione, peraltro, è che qui la nuova legge è più evoluta del c.c., in quanto il matrimonio dei minorenni dovrebbe ritenersi un inutile e pericoloso relitto storico.

Più complicato il regime delle nullità, ma sempre in ragione dei pudibondi, sterili quanto (pateticamente) inefficaci tentativi del legislatore di mascherare, limitando la tecnica del rinvio, il riferimento, invece inevitabile e mantenuto, al matrimonio.

Così l’art. 2, 4° c. d.l., enunciava, brevemente e chiaramente, che

«La sussistenza di una delle cause impeditive di cui al presente articolo comporta la nullità dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. All’unione civile tra persone dello stesso sesso si applicano gli articoli 65 e 68 nonché le disposizioni della sezione VI del capo III del titolo VI del libro primo del codice civile».

La legge si dilunga, invece, con ben quattro farraginosi commi, giungendo poi alle stesse conclusioni normative.

In particolare il comma 5° corrisponde a quello sopra riportato ma, al rinvio (in blocco) alle disposizioni «della sezione VI del capo III del titolo VI del libro primo del codice civile», sostituisce l’analitico rinvio agli artt. 119 , 120, 123, 125, 126, 127, 128, 129, 129 bis c.c., che sono contenute proprio in quella sezione VI.

 Le importanti disposizioni omesse dal rinvio (e credo che sia umanamente impossibile capire perché proprio quelle) sono però state trasposte, con degli adattamenti, nel testo definitivo.

Così il 6° c., in materia di legittimazione all’azione di nullità, corrisponde sostanzialmente all’art. 117 c.c..

Il 7° c., sull’impugnazione dell’UC per vizi del consenso, è modellato sull’art. 122 c.c.

Anzi, in materia di essenzialità dell’errore sulle qualità personali, mentre è ricalcata la fattispecie di cui all’art 122, 3° c., 1) c.c. (esistenza di una malattia o di una anomalia fisiopsichica tale da impedire lo svolgimento della vita comune, espressione quest’ultima, ritenuta meno impegnativa e pudica dell’originario riferimento alla vita coniugale ), vi è espresso rinvio alle fattispecie sub 2), 3), 4) art. cit.

Si noti che l’art. 122, 3° c., 1) cit., richiama- quale fonte di errore essenziale – anche l’esistenza di una deviazione sessuale; secondo alcuni (non giuristi) l’applicazione di tale disposizione avrebbe comportato l’impugnabilità, quasi per definizione,  anche delle UC.

Spero che l’omessa riproduzione di tale previsione non sia dipesa da tale “rischio”.

Si tratta, infatti, di affermazione intrinsecamente calunniosa (in quanto riferita all’omosessualità) e senza riscontro giuridico, cfr Cass. 12 febbraio 2013, n. 3407, Foro it., 2013, I, 1145, con mie osservazioni.

Il 33° c. novella l’art. 124 c.c., sicché ciascun coniuge può sempre impugnare il matrimonio ovvero l’UC dell’altro; speculare è la disposizione introdotta (ex novo) dall’8 c., sulla facoltà di ciascuna parte dell’UC di impugnare in qualunque tempo matrimonio o UC dell’altra (se si oppone la nullità della prima UC , tale questione deve essere preventivamente giudicata).

Per ulteriori riferimenti cfr. Sillabo, § I requisiti per la costituzione delle unioni civili, la nullità e lo scioglimento del vincolo; La formazione dell’unione civile: alla ricerca del rito perduto; La dubbia collocazione degli atti di unione civile negli archivi di stato civile.

Vi è spazio solo per una precisazione; la deprecabile, mancanza di disciplina dell’atto di costituzione dell’unione civile porterà, specie considerata l’attuale gestione del ministero dell’interno (la memoria della circolare Alfano è ancora fresca) a verosimili difficoltà operative e a discriminazioni; non si possono neppure escludere condotte ostruzionistiche di qualche ufficiale di stato civile , che potrebbe invocare un inesistente obiezione di coscienza (ma potrà richiamarsi, mutatis mutandis , quanto già affermato in Francia  da Conseil constitutionnel , 18 ottobre 2013,Quaderni dir. e politica ecclesiastica, 2013, 941, secondo cui «il sindaco è un funzionario pubblico che agisce per conto dello stato per l’adempimento di una missione di servizio pubblico che consiste nell’assicurare il rispetto e l’applicazione della legge sullo stato civile; il principio di neutralità del servizio pubblico preclude al sindaco di astenersi, per ragioni filosofiche o religiose, dal compiere un atto che gli viene richiesto dalla legge; il compito dell’ufficiale di stato civile si sostanzia nel raccogliere il consenso liberamente e pubblicamente espresso da ciascuno dei nubendi pertanto risulta a tal fine irrilevante il carattere omosessuale o eterosessuale del matrimonio; non può infine sostenersi che le norme che disciplinano il matrimonio in senso gender-neutral influiscano sul diritto degli ufficiali di stato civile di libera manifestazione delle proprie opinioni»).

 

11 . Il contenuto delle UC : diritti e doveri: la scomparsa del dovere di fedeltà

Il riferimento è, in primo luogo, ai commi 11° e 12° della l.:

«11. Con la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni.

12. Le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato».

Si tratta, in sostanza, dell’art.  3, 1° e 2° c. d.l., per i quali cfr. Sillabo, Unioni civili e matrimonio: gli effetti fondamentali.

L’11° c., tuttavia, omette il richiamo al dovere di fedeltà, invece contenuto nell’art. 3, 1° c. d.l.

Non c’è il minimo dubbio che si tratta di una omissione priva di ogni giustificazione tecnico-giuridica, la cui unica spiegazione sta nella volontà di distanziare quanto più è possibile UC da matrimonio (ma anche di ridimensionare, anche sotto un profilo simbolico, il nuovo istituto).

Tanto –peraltro- da parte di chi- votando la l. – ha accettato la pressoché totale equiparazione al matrimonio per tutti i profili, patrimoniali e non solo, sopra evidenziati.

Infatti sotteso al dato giuridico vi è la considerazione delle UC come una realtà (pregiuridica, in primo luogo, ma anche normativa) deteriore rispetto al matrimonio, nel senso che le coppie che vi accedono che non possono ontologicamente presentare (e pretendere dalla l.) la stabilità, per non dire la serietà, che invece competerebbe alle sole coppie eterosessuali cui, infatti, è dato accesso al matrimonio.

Sotto tale profilo la scelta legislativa è culturalmente (si fa per dire) retriva, umanamente spregevole, ed anzi calunniosa, e getta un’ombra indelebile su chi l’ha voluta e, anche, su chi l’ha accettata.

Si è però verificato un fenomeno singolare, forse di interesse più sociologico e culturale che giuridico.

Non pochi commentatori, anche autorevoli, novelli Casanova, stanno tessendo- certo in termini diversi – l’elogio dell’adulterio,  configurando il  dovere di fedeltà  come un retaggio maschilista  di altri tempi, da sopprimere anche con riferimento al matrimonio.

Si è pronunciato, in tal senso, anche qualche operatore giuridico, specie con riferimento ad una iniziativa legislativa in tal senso presentata al Parlamento pressoché contemporaneamente all’eliminazione del dovere in parola per le UC (e perché, allora,  in un’ottica di legalizzazione della infedeltà, non introdurre direttamente poligamia e, ovviamente, poliandria?).

A mio avviso si tratta di un gravissimo errore, sotto molti punti di vista.

In primo luogo – e lo scrivo con riferimento a chi, giustamente, ha fortemente voluto la nuova legge- è una trappola, abilmente intessuta da chi non voleva né questa, né qualunque altra disciplina delle UC.

Se davvero, infatti, il dovere di fedeltà dovesse cadere anche con riferimento al matrimonio (ciò in seguito alla sua esclusione per le UC), dovrebbe allora convenirsi con chi paventa che qualunque disciplina delle coppie dello stesso sesso (UC o, a maggior ragione, matrimonio egualitario), finisce per svilire anche il matrimonio, privandolo dei suoi elementi essenziali (tra cui, come si dirà, la fedeltà), nonché dei suoi significati simbolici (che, per un istituto antichissimo e fondamentale quale il matrimonio, sono sostanza).

Eppure Corte Suprema Usa 26 giugno 2015 cit. ha osservato, con parole nobilissime, e valide per ogni ordinamento, che le coppie omosessuali che vogliono accedere al matrimonio non intendono mancare di rispetto ad un istituto tanto prestigioso, ma anzi onorarlo.

Il dovere di fedeltà, d’altronde, è ben conosciuto anche in altri ordinamenti, cfr. ad es., per la Francia, l’art. 212 Code civil (che, ovviamente, concerne il matrimonio anche tra persone dello stesso sesso).

Ogni gara al ribasso, va allora aggiunto, fa solo il gioco di chi, su posizioni retrive, vuole la conservazione dell’esistente, anzi ormai- con l’approvazione della l. – il ritorno al passato.

12. Il contenuto del dovere di fedeltà nel matrimonio

Deve ricordarsi che l’11° c. l. (come del resto, e più fedelmente, l’art. 3, 1° c. d.l.) è modellato sull’art. 143 c.c., diritti e doveri reciproci dei coniugi (il 12° c., a sua volta, riproduce sostanzialmente l’art. 144 c.c., indirizzo della vita familiare e residenza della famiglia).

L’art. 143 cpv cit.,  richiama in primo luogo proprio il dovere reciproco di fedeltà.

Il testo è quello introdotto dalla novella del 1975, improntata alla perfetta eguaglianza tra i coniugi, sicché il riferimento ai retaggi maschilisti sono del tutto fuori luogo;  era semmai il testo originario del 1942 (ma già caduto alla fine degli anni sessanta per effetto di pronunce della Consulta) a  discriminare tra i sessi, considerando più gravemente l’adulterio della moglie (sanzionato anche penalmente), anche al fine di evitare la c.d. turbatio sanguinis.

Si tratta, comunque, di profili che appartengono ormai alla storia del diritto.

La violazione del dovere di fedeltà è sanzionato con la pronuncia dell’addebito della separazione, ai sensi dell’art. 151 cpv c.c., sempre che l’adulterio si ponga come causa efficiente della intollerabilità della convivenza (ma la giurisprudenza reputa che l’adulterio, per la sua gravità, fa di norma presumere che la prosecuzione della convivenza sia divenuta intollerabile; l’onere della prova gravante sul coniuge richiedente la pronuncia ne risulta così alleggerito, dovendo essere l’altro, quello responsabile, a dimostrare che l’adulterio non sia stato la causa della crisi familiare, essendo questa già irrimediabilmente in atto, sicché la convivenza coniugale era ormai meramente formale), cfr. Cass. 14 febbraio 2012, n. 2059, Foro It.., 2012, I, 2434.

Si noti che i sostenitori dell’abrogazione, anche per il matrimonio, del dovere di fedeltà, non hanno riflettuto sulla circostanza che invece, più correttamente e seriamente, avrebbe dovuto proporsi l’abrogazione dell’addebito, come del resto da molti prospettato; da qui, oltretutto, anche la piena equiparazione con le UC, per le quali – non essendo prevista la separazione (cfr infra) neanche si configura più la pronuncia di addebito (in generale, non solo per il dovere di fedeltà).

Tanto, oltretutto, non inciderebbe sulla giuridicità del dovere di fedeltà, che (sul piano sistematico) ben potrebbe restare senza sanzione (l’addebito, del resto, ha conseguenze molto ridotte), ovvero trovarla, come si dirà, altrimenti.

Vi è di più, perché la giurisprudenza ha anche tracciato il contenuto del dovere di fedeltà, in termini tali che difficilmente potrebbe essere escluso, sul piano giuridico, senza che ne segua una radicale trasformazione (al ribasso) dell’istituto matrimoniale.

La fedeltà, infatti, non deve essere intesa solo come fedeltà sessuale, l’antico ius in corpus (l’adulterio rilevante ai fin dell’addebito, del resto,   non è integrato da sporadiche trasgressioni, nè si identifica tout court nei rapporti sessuali con persona diversa dal partner).

Essa, piuttosto, va intesa in un senso più ampio, come impegno globale di devozione, comprensivo anche (ma non solo) della fedeltà sessuale.

Il dovere di fedeltà, più precisamente, ha un contenuto negativo (come dovere di astensione da rapporti sessuali, ma anche affettivi, con altre persone), ma è anche diritto\dovere reciproco alla fiducia – spirituale e fisica – di  ciascuno nell’altro.

Sotto tale profilo la fedeltà è essenzialmente lealtà reciproca, finendo per confinare con il dovere di assistenza morale, che è appunto dovere di sostegno reciproco in ambito affettivo, psicologico, spirituale.

Cfr., in termini, Cass. 1 giugno 2012, n. 8862, Foro it., 2012, I, 2037:

«L’obbligo di fedeltà costituisce un impegno globale di devozione che presuppone una comunione spirituale tra i coniugi ed è volto a garantire e consolidare l’armonia interna tra di loro».

Di rilievo è anche Cass. 11 agosto 2011, n. 17193, Famiglia e dir., 2013, 777, secondo cui il dovere di fedeltà non va più inteso, come in passato, relativo alla sola fedeltà sessuale (l’adulterio presupponeva il congiungimento carnale); a seguito della riforma del 1975, il dovere di fedeltà è visto piuttosto come «impegno globale di devozione, che presuppone una comunione spirituale e materiale (e di essa la fedeltà sessuale è evidentemente soltanto un aspetto) … oggi si ritiene che l’obbligo di fedeltà sia volto a garantire e consolidare la comunione di vita tra i coniugi, l’armonia interna, l’affectio tra i coniugi. Si è parlato, a tale proposito, di violazione di tale dovere, come rottura del rapporto di fiducia tra i coniugi, come deterioramento dell’accordo e della stima reciproci»; in termini Cass. 14 febbraio 2012, n. 2059, Foro it., 2012, I, 2434, con mie osservazioni.

Se è così, allora, i doveri nascenti dal matrimonio, e di cui all’art. 143 c.c. cit., sono semplici articolazioni di un più ampio e generale dovere di solidarietà reciproca, spirituale\affettiva, fisica, materiale, che costituisce poi il contenuto più profondo del matrimonio.

Cfr. le mie osservazioni a Cass. 9 aprile 2015, n. 7132, Foro it., 2015, I, 1520 e, in dottrina (nello stesso senso della giurisprudenza cit.), VERONESI, Commento all’art. 143 c.c., in BASINI – BONILINI – CONFORTINI (a cura di), Codice di famiglia, minori e soggetti deboli, Torino, 2014, tomo I, 495 ss., nonché BONAMINI, I rapporti personali tra coniugi (specie § I  e II) in BONILINI, Trattato di diritto di famiglia, vol. I, Torino,2015, 865 ss; SESTA, Manuale di diritto di famiglia, Padova, 2015, 67.

Si tratta di doveri, nel loro nucleo essenziale, non solo inderogabili, ma anche inseparabili, nel senso che non è configurabile la soppressione di uno di essi, singolarmente considerato, senza che venga alterato il sistema matrimoniale nel suo complesso.

Di rilievo, al riguardo, Cass. 24 dicembre 2013, n. 28655, Foro it., 2014, I, 480, che ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato l’accezione di  riconciliazione  tra  i coniugi separati (ostativa , ai sensi dell’art. 154 c.c., del successivo divorzio) proposta dalla moglie , la quale si era  però limitata a dedurre la mera restaurazione di un regime di vita ancora caratterizzato da elementi in realtà disgreganti dell’unione coniugale, quali i perduranti adulteri del marito, pur se tollerati dall’istante, nonché l’esclusione della convivenza; il giudice di merito, in particolare, aveva osservato (con argomentazioni confermati dalla S.C.) che «il modello di vita familiare ‘ripristinato’, e che l’appellante invoca a sostegno del suo assunto, circa l’intervenuta riconciliazione, non è riconoscibile, tout court, come famiglia, non è riconducibile allo schema di rapporto coniugale, nell’accezione che la legge vigente, e viene da aggiungere la società, riconoscono a tale istituto. … addirittura l’appellante — non consapevole del carattere paradossale del suo assunto — giunge ad invocare la «continuità» (tra «il prima» e «il dopo» della separazione consensuale) degli adulteri del marito, da lei tollerati… il ‘modello’ di vita che, secondo l’appellante, i coniugi ora seguirebbero (o avrebbero ripreso a seguire: ma si è detto che è profilo irrilevante), caratterizzato da stabili residenze separate e dalla sicura deroga al dovere di fedeltà, non è sussumibile nell’ambito del matrimonio».

Il dovere di fedeltà, ovviamente, è violato – e se ne ricorrono i presupposti sanzionato con l’addebito- anche in caso di relazione omosessuale di uno dei coniugi.

Appare così contra legem, e discriminatorio all’incontrario, l’orientamento espresso da Trib. Milano 19 marzo 2014 ,  Foro it., 2014, I, 3334, che ha escluso  l’addebito nei confronti della moglie che, pur intrattenendo (in forma riservata) una relazione omosessuale, causa della rottura del matrimonio, non aveva coscienza e volontà di violare i doveri coniugali (il tribunale ha fondato la propria decisione su una c.t.u. psicologica, da cui era emerso che la crisi coniugale era legata a irrisolte dinamiche intrapsichiche di ciascun coniuge, con particolare riguardo alla «slatentizzazione», da parte della moglie, di una omosessualità di cui prima non aveva coscienza, sicché tale «nuovo» orientamento sessuale la rendeva inadeguata alla continuazione dell’originario rapporto di coppia).

13. Ancora sull’effettivo contenuto delle UC, sulla loro perdurante matrimonializzazione (tendenziale), con conclusivo  possibile “ ritorno” del dovere di fedeltà

Pietro Calamandrei ha scritto che le forze conservatrici, per compensare quelle progressiste di una rivoluzione mancata, non si opposero all’inserimento nella Costituzione di una rivoluzione promessa.

La lettura del testo definitivo della l. mi ha fatto appunto tornare in mente questa celebre, amara affermazione del grande giurista che, però, con riferimento alle UC, sembra quasi potersi rovesciare (e fermo che, oggi, destra e sinistra si atteggiano in modo completamente diverso rispetto all’epoca di Calamandrei): lo schieramento progressista, in cambio di una rivoluzione compiuta, la stessa introduzione delle UC, non si è opposta (non ha potuto o non ha voluto opporsi) all’inserimento, e soprattutto all’omissione, di previsioni che sembrano   ridimensionare, e notevolmente , la portata del nuovo istituto.

Il legislatore, senza dubbio – in tal senso è decisivo il raffronto che si sta qui conducendo tra testo finale e d.l. – ha cercato, per quanto possibile, di depotenziare l’avvicinamento normativo tra matrimonio e UC (così da non épater le bourgeois), almeno- come più volte osservato- con riferimento ai profili più marcatamente simbolici.

Al riguardo l’elemento più significativo non sta tanto nell’eliminazione del riferimento al dovere di fedeltà, quanto piuttosto nella  radicale modifica dell’art. 6 d.l., Scioglimento dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, che estendeva alle unioni civili, addirittura senza clausola di compatibilità, la disciplina della separazione e del divorzio.

Si tratta di una previsione passata quasi inosservata ma che, a mio parere, costituiva «L’elemento più significativo, ed anzi clamoroso, a conferma della -pur tendenziale – equiparazione delle unioni civili al matrimonio», cfr. Sillabo, I requisiti per la costituzione delle unioni civili, la nullità e lo scioglimento del vincolo.

Sarò presuntuoso, ma ho l’impressione di essere stato letto con molta attenzione (pur se con intenzioni, e finalità, opposte alle mie); fatto sta che  i c. 22- 24 della l travolgono completamente la previsione originaria; viene meno la separazione, e sono richiamate, della l. div. , solo specifiche disposizioni (cfr. infra), per quanto qui interessa, viene meno allora  il riferimento alla intollerabilità della convivenza (come presupposto della separazione), di cui all’art. 151 c.c., e alla comunione materiale e spirituale dei coniugi, di cui all’art. 1 l. div.

Nonostante ciò, resto convinto, e lo ribadisco, che le UC siano ancora,  e largamente , non solo un istituto di diritto di famiglia (rectius, che le UC siano una forma di famiglia, nell’ottica pluralistica che l’art. 29 Cost. consente, cfr. ante § 5) , ed anzi una famiglia di tipo matrimoniale, sul cui modello il nuovo istituto è necessariamente conformato, apparendo francamente di poco momento il riferimento all’una o all’altra disposizione costituzionale (con le conseguenze, in termini di valutazione di costituzionalità sulle differenze di disciplina, che ho sopra evidenziato).

Tanto si desume del resto sia (implicitamente) da Corte cost. 11 giugno 2014, n. 170, Foro it., 2014, I, 2674 che (esplicitamente) da Cass.  21 aprile  2015, n. 8097, id., 2015, I, 2385 (relative, come è noto, ad una stessa, singolare vicenda di rettifica di sesso).

Non sono sicuro che il legislatore, schizofrenicamente, intendesse davvero “depotenziare” le UC, nel senso indicato; se così, comunque, tale proposito è fallito, prevalendo pienamente (pur con omissioni e contraddizioni, come detto)  lo schema familiare e matrimoniale.

Va infatti ancora ricordato  (in parte riassumendo quanto sopra già osservato) che:

  • le UC sono unioni tra «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolati da rapporti di parentela, affinità, o adozione», come enuncia il 36° c., con riferimento, certo, ai conviventi di fatto , che possono anche essere dello stesso sesso, con previsione però di carattere minimale (sotto il profilo contenutistico) e sicuramente valida anche per le UC (e invero per il matrimonio), caratterizzate da una stabilità qualitativamente e quantitativamente maggiore
  • tale stabilità si manifesta, ad es., nell’applicazione dell’art. 146 c.c., in tema di allontanamento dalla residenza familiare (19° c.), e dall’esclusione della risoluzione ad nutum del vincolo,   essendo prevista la disciplina del divorzio (potendo senz’altro utilizzarsi questo termine, in ragione dell’ancora ampio rinvio alla l. 898\1970)
  • tale stabilità si manifesta ancora nel 10° c. cit., circa la possibilità dell’adozione di un cognome comune (art. 2, 6° c. d.l.), tipica espressione di unità familiare (viene meno invece la possibilità di conservazione del cognome comune dopo il divorzio, non essendo più applicabile – ma sarebbero francamente sorte serie difficoltà – l’art. 5, 3° c. l. div.)
  • tali unioni sono tutelate ai sensi dell’art. 2 Cost., ma sono sicuramente rapportabili al concetto di famiglia (quale species di un più ampio genus) di cui all’art. 29 Cost.; sicuramente poi godono della tutela della vita familiare garantita dall’art. 8 Cedu
  • i diritti e i doveri reciproci che ne discendono sono ampiamente coincidenti con quelli del matrimonio, cfr. l’11° e il 12° c. cit. (quest’ultimo conserva anzi, chissà come mai è sfuggito all’epurazione, il riferimento alla vita familiare); in particolare, sul piano patrimoniale (anche post mortem e post scioglimento dell’unione) l’equiparazione è pressoché piena (se miagola è un gatto, ha osservato – a ragione- un politico, oppositore della nuova disciplina)

A ben vedere, la stessa omissione del dovere di fedeltà – in una ottica costituzionalmente orientata – può ritenersi solo apparente, perché si tratta di un dovere inderogabile connaturato all’essenza stessa dell’unione civile, come sopra configurato (esattamente come lo è del matrimonio: e qui ogni discriminazione è irragionevole ed ingiustificabile), e comunque riconducibile al dovere di assistenza morale, invece normativamente previsto (alla stregua dell’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato).

Depone in tal senso anche l’obbligo di convivenza, ed il dovere delle parti di concordare tra loro l’indirizzo della  vita familiare (esattamente come nel matrimonio); la facoltà di tradimento , connaturata all’esclusione del dovere di fedeltà, travolgerebbe in radice il complesso, ed unitario, schema  legislativo dei diritti e dei doveri che discendono dall’UC.

Milita in tal senso un ulteriore elemento.

La violazione del dovere di fedeltà matrimoniale può infatti  dare luogo a responsabilità civile, ai sensi dell’art. 2059 c.c.,  il c.d. illecito endofamiliare, cfr. Cass. 8862\2012, nonché 15 settembre 2011, n. 18853, Foro It.,  2012, I, 2038; 8 settembre 2014, n. 18870, id., Rep. 2014, voce   Competenza civile,  n. 68 (sempre che ricorrano le rigorose condizioni di cui già a Cass. 10 maggio 2005, n. 9801, Famiglia e dir., 2005, 365, che qui non interessa approfondire); non è neppure mancato un (per fortuna isolato) orientamento giurisprudenziale che, nell’ottica del maggiore disvalore della relazione extraconiugale omosessuale  di un coniuge, ha riconosciuto all’altro un cospicuo risarcimento, cfr. Trib. Brescia  14 ottobre 2006, Famiglia e dir., 2007, 57.

In ogni caso, anche sotto il profilo del danno endofamiliare, l’esclusione del dovere di fedeltà dalle UC – se reale –  si risolve in una ingiustificabile disparità di trattamento (sotto il profilo del richiamato canone di ragionevolezza)  rispetto al matrimonio.

Ne segue che, a fronte della parte di una UC che agisca per i danni nei confronti dell’altro , che ha violato il dovere di fedeltà, il giudice adito (dovendo altrimenti rigettare la domanda, per giuridica inesistenza dell’obbligo) si troverà di fronte ad una alternativa (e si ricordi che, in mancanza di addebito, l’emersione giuridica del dovere di fedeltà può verificarsi solo nell’ambito dell’azione risarcitoria):

  • o ritenere, appunto alla stregua di una interpretazione costituzionalmente orientata dei c. 1 (che richiama l’art. 3 Cost., si ricordi) e 11 l., che siffatto dovere si configura implicitamente, per le ragioni sopra evidenziate
  • o adire, necessariamente, la Corte Costituzionale, con riferimento agli artt. 2, 3, 24 Cost. (ed incombe sempre la prospettiva della violazione dell’art. 8 Cedu).

14. Lo scioglimento delle UC

Il regime dello scioglimento delle UC, come accennato, è stato radicalmente riformato rispetto a quanto previsto dall’art. 6 d.l.

Viene del tutto meno, nel testo definitivo, il rinvio al capo V del titolo VI del libro primo del codice civile, su scioglimento del matrimonio e separazione dei coniugi.

Il 22° c., nondimeno, riproduce parzialmente l’art. 149 c.c. (scioglimento per morte di una  delle parti , cui è equiparata  la dichiarazione di morte presunta, con sostanziale ampliamento della sfera di applicazione dell’art. 65 c.c., rimasto invariato).

Quel che più rileva è però che  il regime di scioglimento delle UC- rectius, come accennato, di divorzio-  è  sicuramente semplificato rispetto al d.l., in quanto viene meno, evidentemente, la fattispecie di gran lunga più comune per il matrimonio, ai sensi dell’art. 3, 1° c., n. 2, b) (decorso di un previo periodo di separazione legale, giudiziale o consensuale che sia).

Il legislatore, per le ragioni sopra enunciate, non ha richiamato l’art. 1 l. div., ma nondimeno ha indicato le fattispecie ricorrendo le quali può chiedersi il divorzio.

Qui però la cattiva tecnica legislativa (unita al proposito di prendere le distanze dal matrimonio) ha determinato un singolare infortunio.

Sono configurate, infatti, due distinte macrofattispecie di divorzio, la prima di carattere obiettivo, la seconda soggettivo.

La prima ricomprende i «casi previsti dall’art. 3 n. 1) e n. 2) lettera a), c), d) ed e)» della l. div., si tratta delle fattispecie, connesse a pronunce penali (ma anche di divorzio conseguito all’estero), e di rara verificazione, di “divorzio immediato”,   senza  cioè il decorso del periodo di separazione legale, di cui all’art. 3, 1° c., n. 2 b) l . cit., come detto non applicabile alle UC (fattispecie, come detto, non applicabile alle UC, sia perché non richiamata, sia soprattutto perché per queste non è prevista la separazione legale).

Senonché il legislatore ha introdotto anche un’altra fattispecie di divorzio, questa volta soggettiva:

recita infatti il 24° c. che «l’UC si scioglie, inoltre, quando le parti hanno manifestato anche disgiuntamente la volontà di scioglimento dinanzi all’ufficiale di stato civile. In tal caso la domanda di scioglimento dell’UC è proposta decorsi tre mesi dalla data di manifestazione di volontà di scioglimento dell’unione».

La dichiarazione rilevante ai fini dello scioglimento, quindi, può essere sia congiunta che unilaterale (quindi di carattere potestativo) .

Non è prevista, al riguardo, alcuna motivazione, per l’una e per l’altra ipotesi; non va dedotta, in particolare, la intollerabilità della convivenza, o il venir meno della comunione spirituale o materiale tra le parti , e d’altronde non è previsto al riguardo alcun controllo giudiziale (tale non essendo il tentativo di conciliazione condotto dal presidente del tribunale ai sensi dell’art. 4, 7° c. l. div., applicabile – sempre se ritenuto compatibile – ai sensi del rinvio operato dal 25° c. della  l. ).

Mi chiedo allora che senso abbia   il 23° c.; la previsione di fattispecie specifiche di scioglimento di carattere obiettivo  mi sembra del tutto  inutile, quando comunque si può conseguire lo stesso effetto anche con una immotivata dichiarazione unilaterale.

L’unica, modestissima differenza, sta solo nel fatto che per le fattispecie di cui al 23° c. si può ricorrere immediatamente in giudizio, senza la previa manifestazione di volontà all’ufficiale di stato civile, mentre per quella del 24° c. tale manifestazione (e il decorso di un trimestre) è necessaria (ma cfr. infra).

Il regime semplificato del divorzio per l’UC, rispetto a quanto previsto per il matrimonio, è sicuramente indice di quella deteriore considerazione per le UC (quanto alla loro stabilità, ma anche all’interesse dell’ordinamento per la loro conservazione) che , lo si è detto più volte, impronta – e negativamente – il testo della l.

Anche qui, però, mi sembra si sia realizzata una eterogenesi dei fini; in definitiva, infatti, il regime previsto per le UC è  sicuramente più spedito e semplificato rispetto a quanto ancora previsto per il matrimonio, dove permane, nella maggioranza dei casi, la necessità del giudizio di separazione quale presupposto per quello di divorzio, non modificato anche dalla recente l. 55\15, su cui cfr. il mio Un utile passo avanti del legislatore: la l. 55/15 sul «divorzio breve» (nota a Cass.  11885\2015), Foro it., 2015, I, 2304.

In definitiva, il modello da imitare – e da raggiungere – anche per il matrimonio, è qui rappresentato dalla l. sulle UC (che si inserisce appieno, quindi, nella “rincorsa” tra novellazioni della separazione e del divorzio, istituti diversi ma influenzati reciprocamente,  che si manifesta da quasi mezzo secolo).

Vi è poi di più.

A ben vedere, anche per il matrimonio è ormai venuto meno, sostanzialmente, ogni forma di controllo giudiziario sulla intollerabilità della convivenza (nella separazione) ovvero sul permanere della comunione spirituale e materiale (nel divorzio),  concetti molto vicini ed espressione di una superata concezione pubblicistica del matrimonio, e che faceva del giudice una sorta di defensor vinculi.

La giurisprudenza, infatti, ormai configura con chiarezza il matrimonio, in una prospettiva laica ed europea, essenzialmente come rapporto (con svalutazione sostanziale dell’atto costitutivo), fondato sul permanere del consenso di entrambi i coniugi, al di là di ogni prospettiva di sanzione pubblicistica e di ogni favor per la conservazione di unioni ormai esaurite.

Un’ulteriore ricaduta è che separazione e — soprattutto — divorzio hanno assunto il connotato di vero e proprio diritto di ciascuno dei coniugi, anche di quello responsabile del fallimento dell’unione, cfr. Cass. 21 gennaio 2014, n. 1164, Foro it., 2014, I, 463,  con mie osservazioni e già  9 ottobre 2007, n. 21099, e 14 febbraio 2007, n. 3356, id., 2008, I, 128, con mie osservazioni.

Il rigetto della domanda di separazione per mancanza del presupposto della intollerabilità della convivenza è sempre stato, d’altronde, rarissimo, e in forza di motivazioni ideologicamente aberranti, cfr. il mio Sillabo dei principali errori sulla separazione giudiziale dei coniugi. Ovvero giudici, etica di Stato, intollerabilità della convivenza, Corr. del merito, 2005, 12, 1245.

La conclusione, quindi, è che   la disparità di disciplina tra matrimonio e UC , anche sotto questo profilo, è solo apparente, a tutto vantaggio, comunque, della nuova l.

15. Il procedimento di divorzio delle UC

Quanto al procedimento,   il 25° c. cit., richiama, certo con la clausola di compatibilità,  gli artt. 4 e 5, 1° c.  della legge   898\1970 cit. , che dettano appunto le disposizioni procedurali del divorzio.

Non è quindi introdotto un nuovo, autonomo procedimento divorzile (il che pure depone nel senso della matrimonializzazione dell’istituto, come accennato).

Non reputo poi che la previa dichiarazione all’ufficiale di stato civile, congiunta o unilaterale, e il decorso di un trimestre per la preposizione dell’azione (il deposito del ricorso, anche congiunto) costituisca una condizione di proponibilità o di procedibilità della domanda.

Tanto non si desume in alcun modo dalla norma, in quanto la manifestazione di volontà in oggetto si risolve in una mera comunicazione (che potrebbe formularsi, credo, anche a mezzo di posta elettronica certificata, ove non voglia intendersi alla lettera l’espressione “innanzi all’ufficiale di stato civile”).

L’omissione di tale adempimento (ovvero la proposizione dell’azione prima del decorso del triennio) non dovrebbe comportare (al di là delle intenzioni del legislatore) alcuna conseguenza processuale (non vi è poi dubbio che in materia non opera la mediazione obbligatoria di cui al d.lgs 28\2010) , con ulteriore conferma della inutilità della distinzione delle fattispecie di cui al 23° e 24° c. della l.

Trovano infine opportuna applicazione i procedimenti semplificati (anzi, non giurisdizionali) di cui agli artt. 6 e 12 del d.l. 132\2014, conv. in l. 162\2014, convenzione di negoziazione  assistita per le soluzioni consensuali di divorzio,  e c.d. “divorzio municipale”, innanzi al sindaco, (cfr al riguardo le osservazioni rispettivamente di POLISENO e mie, in Foro It., 2015, V, 34 e 44) , per espresso rinvio operato dal 25° c. della l. in esame, in fine.

16. L’omesso riferimento all’adozione speciale

Il punto più controverso della nuova disciplina, che ha rischiato di affossarne del tutto l’approvazione, concerne il delicatissimo tema della filiazione.

Sono stato facile profeta, in Sillabo, § Unioni civili e filiazione. Ovvero dei cavalieri dell’apocalisse e Conclusioni ad esprimere serie perplessità circa l’effettiva introduzione di una qualunque disciplina in materia, anche minimale, come quella prevista dal d.l. (richiamo però specificamente anche il mio Omosessuali, unioni civili e filiazione: una questione aperta, Foro It., 2016, I, 359, che sviluppa il lavoro precedente); cfr. anche SCHILLACI, cit.

Certo, il d.l., all’art. 3, 4° c., in fine, escludeva dall’applicazione della clausola di salvaguardia proprio le disposizioni della l. adozioni, 184\1983, titolo II (quelle in tema di adozione legittimante  o plenaria).

Nel contempo però l’art. 5 estendeva a ciascuna parte dell’UC la possibilità di adottare il figlio dell’altro, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera b), l. adozioni cit.,  una fattispecie di adozione speciale (dei minori  da parte del coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge) .

Si sarebbe trattata di una tutela minimale (per i figli, non per la coppia genitoriale) , che oltretutto trova preciso fondamento in Corte eur. diritti dell’uomo 19 febbraio 2013, X c. Austria (Nuova giur. civ., 2013, I, 519, con osservazioni di FATTA e WINKLER), secondo cui, ove uno Stato contraente contempli l’istituto dell’adozione del figlio del partner a favore delle coppie conviventi di sesso opposto, il principio di non discriminazione fondata sull’orientamento sessuale impone la sua estensione alle coppie formate da persone dello stesso sesso.

L’art. 5 cit. è però del tutto scomparso dal testo definitivo, e neppure sono state recepite le soluzioni, pur parziali e compromissorie, che pure erano state prospettate, come ad es. l’introduzione di una forma di affidamento rafforzato del figlio del partner.

Resta, ovviamente l’esclusione dell’applicazione della clausola di salvaguardia alla l. 184\1983 (di tutta la l., e non solo del titolo II , come invece nel d.l.).

In sede parlamentare, a quanto consta, sono state presentate proposte di legge per una generale revisione della disciplina delle adozioni, con conseguente reintroduzione dell’adozione speciale per le UC, ma credo possa del tutto prescindersene in questa sede.

A rigore, la mancata previsione di una disciplina della filiazione , con riferimento alle coppie unite in UC, non costituisce una lacuna né si risolve in una ingiustificabile discriminazione.

Va infatti ricordato che la disciplina della filiazione prescinde ormai dallo status dei genitori, coniugati o meno, in forza delle novellazioni del 2012-2013, non a caso gli artt. 147 e 148 c.c., fanno sostanzialmente rinvio, quanto ai doveri dei genitori verso i figli, alla disciplina generale, di cui agli artt. 315 ss c.c.

Quanto sopra, però, corrisponde ad una visione solo formalistica di un problema reale e lasciato irrisolto, a danno proprio dei soggetti più deboli, i minori.

Infatti, e semplicemente, già all’attualità vi sono bambini cresciuti nell’ambito di coppie omosessuali, figli biologici di uno dei due,  e quindi componenti di famiglie che, però, nei loro confronti non esistono, almeno non giuridicamente.

Le famiglie arcobaleno presentano, poi, ma solo in parte, problemi comuni con quelle, eterosessuali cd ricomposte (cfr ampiamente i miei lavori sopra richiamati),  legislativamente rimasti  irrisolti.

Può richiamarsi l’inascoltato appello dei giuristi, «Unioni gay: i bambini, innanzitutto», promosso da Articolo29, sottoscritto anche da me, che avevano sollecitato l’approvazione dell’art. 5 d.l. sul presupposto che, tale previsione  dà veste giuridica

«ad una situazione familiare già esistente di fatto, rappresenta la garanzia minima per i bambini che vivono oggi con genitori dello stesso sesso.

Il riconoscimento giuridico della relazione anche nei confronti del genitore sociale assicura difatti al bambino i diritti di cura, di mantenimento, ereditari ed evita conseguenze drammatiche in caso di separazione o intervenuta incapacità o morte del genitore biologico, salvaguardando la continuità della responsabilità genitoriale nell’esclusivo interesse del minore. Queste bambine e questi bambini esistono».

Il silenzio del legislatore su un punto tanto delicato non è però isolato, nel tessuto della l.; infatti  è passata inosservata un’altra rilevante omissione, che pure si risolve in una minorata tutela per i figli.

 Il riferimento è quelli figli di genitori non coniugati; la novellazione del 2012-2013, pur avendo effettivamente unificato lo status di filiazione (cfr. il nuovo art. 315 c.c.) non ha però fatto venire meno ogni discriminazione; una delle più significative concerne le stesse modalità di attribuzione dello stato.

Mentre infatti per i figli nati nel matrimonio (già legittimi) il titolo di stato si forma d’ufficio, de iure, con la denunzia di nascita, e quindi con la formazione dell’atto di nascita (salva la facoltà tradizionale della madre di non essere nominata, cfr. art. 30 d.p.r. 396/00; cfr. però la recente Corte cost. 22 novembre 2013, n. 278, Foro It., 2014, I, 4, in questo fascicolo, con nota di richiami), rilevando in ogni caso il possesso di stato, per i figli nati fuori dal matrimonio (già naturali) occorre di volta in volta — dopo la nascita — un atto volontario, il riconoscimento o un accertamento giudiziario (la cui iniziativa è comunque rimessa ad una scelta di parte).

Né l l. 219\2012, né il d.lgs 154\2013 hanno superato questa disparità di trattamento (pur se non sono mancate proposte in tal senso), ritenuta insuperabile perché – all’epoca – la famiglia di fatto era priva di qualunque previsione e tutela (né   emergeva formalmente, al di là delle mere dichiarazioni anagrafiche). In altri termini, il solo matrimonio è caratterizzato sia dalla ufficialità che dall’obbligo di fedeltà, mentre per le coppie di fatto manca una posizione giuridicamente certa, cui riconnettere la presunzione di paternità, di cui all’art. 231 c.c., senza necessità di una indagine di fatto.

Tale assetto poteva essere modificato proprio dalla l. in esame. Si ricordi che i commi 37-67 (l’originario titolo II del d.l.) sono dedicati ai conviventi di fatto, cui sono riconosciuti ampi diritti (ovviamente meno intensi di quelli derivanti dal matrimonio) ,  e per i quali è prevista anche la possibilità di stipula del nuovo contratto di convivenza.

La l. prevede anche modalità di accertamento della stabile convivenza, cfr il 37° c. cui, evidentemente, avrebbe potuto riconnettersi la presunzione di paternità.

Di ciò, però, non vi è traccia: ulteriore conferma che al legislatore del 2016 interessa molto poco la sorte dei minori; cfr il mio Il completamento della riforma della filiazione (d.leg. 28 dicembre 2013 n. 154), Foro it., 2014, V, 1

17. L’adozione speciale per via giurisprudenziale: l’ipocrita soluzione del legislatore

Torniamo alle UC e al problema della adozione (non prevista).

In realtà il legislatore non ha omesso del tutto ogni riferimento alla filiazione adottiva.

Infatti, il 20° c. cit. contiene, in  fine,  un riferimento “misterioso”: «Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti», tanto più incomprensibile ove si consideri che segue alla richiamata esclusione dell’applicabilità, alla l. 184\1983, della clausola di equivalenza posta dalla stessa disposizione.

La l. 184\1983, ovviamente, nulla prevede, e nulla consente, con riferimento alle adozioni da parte di coppie dello stesso sesso .

La disposizione si spiega invece molto bene- e del resto è stato espressamente riconosciuto da chi l’ha proposta – come una sorta di clausola di salvezza, volta a consentire, o meglio a non impedire,  il consolidamento di un orientamento giurisprudenziale manifestatosi di recente, alla stregua del quale

«L’adozione in casi particolari, di cui alla l. 184\1983, art. 44, 1° comma, lett. d), a differenza di quella c.d. piena o legittimante: a) è volta a proteggere legami affettivi e relazionali preesistenti, instaurando   vincoli giuridici tra il minore e chi di lui stabilmente già si occupa, tanto a tutela dell’interesse del minore stesso ad una idonea collocazione familiare b) è consentita anche a chi non è coniugato o alla persona singola c) pertanto non presuppone una situazione di abbandono dell’adottando, ma solo l’impossibilità, di fatto o di diritto,  dell’ affidamento preadottivo» (la Corte di appello ha così confermato la decisione di primo grado che aveva disposto tale forma di adozione  nei riguardi di una bambina di circa 6 anni di età da parte della compagna stabilmente convivente della madre, che vi ha consentito, una volta accertata, in concreto, l’idoneità genitoriale dell’adottante, e quindi la corrispondenza all’interesse della minore)», cfr. App. Roma  23 dicembre 2015, Foro it.,  2016, I, 699 (per ulteriori riferimenti cfr. i miei lavori sopra richiamati).

SCHILLACI, cit., richiama anche l’«l’art. 44, comma 3, della legge n. 184/83, il quale prevede che, nel caso della lettera d) (per ciò che qui rileva) dello stesso articolo, “l’adozione è consentita, oltre che ai coniugi, anche a chi non è coniugato”, tra i non coniugati rientrando, all’evidenza, anche chi sia parte di una unione civile tra persone dello stesso sesso: recando una previsione rivolta a coniugati e non coniugati, tale disposizione resta sostanzialmente indifferente all’applicabilità della clausola di equivalenza terminologica, alla luce della sua apertura antidiscriminatoria».

La disposizione in esame del 20° c. in fine, quindi, è espressione di quella normativa ammiccante di cui costituisce massima espressione l’art. 9 l. 40\2004 che –  nella vigenza del divieto di procreazione medicalmente assistita eterologa- di fatto però tutelava pienamente chi vi avesse fatto ricorso all’estero (o comunque occultamente), precludendone, tra l’altro, il disconoscimento all’uomo che vi avesse consentito.

Si trattava, appunto, della legittimazione del turismo procreativo, necessariamente discriminante sotto il profilo censitario.

Parimenti, la disposizione in esame, (ipocritamente) non prende posizione sull’adozione speciale del figlio del partner, nell’ambito di una coppia omosessuale (anche non vincolata da UC, evidentemente), sul presupposto che questa è comunque ammessa dalla giurisprudenza, cui è dato un (appunto ammiccante, e certo non necessario) via libera.

Così da un lato sono stati accontentati quanti si opponevano strenuamente ad ogni forma di riconoscimento della filiazione nell’ambito delle UC, dall’altro restano soddisfatti anche gli appartenenti allo schieramento opposto, che confidano nell’operato della magistratura (l’unica insoddisfatta, perché sovraesposta, e a cui può facilmente, quanto ingiustamente, essere addebitata l’adozione di una giurisprudenza creativa ovvero invasiva delle prerogative del legislatore).

Si tratta però di una soluzione giuridicamente scorretta, e pericolosa, anche perché – oltretutto – non tiene conto del fatto che la giurisprudenza di riferimento è tutt’altro che consolidata (in fondo si sono espressi solo pochi uffici giudiziari, e solo di merito), attese le incertezze, anche dottrinali, sull’esatta portata dell’adozione speciale  ex art. 44, 1° comma, lett. d) l. adozioni (con particolare riferimento al riferimento alla “constatata impossibilità di affidamento preadottivo”, presupposto per l’applicazione della norma), poco rilevando, evidentemente, che tale disposizione non contenga riferimenti al coniuge.

Né va trascurato che di recente la Corte Cost. ha dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità sollevata da Trib. Minorenni Bologna, 10 novembre 2014, Foro it., 2015, , I. 1078, in quanto il giudice remittente «ha erroneamente trattato la decisione straniera come un’ipotesi di adozione da parte di cittadini italiani di un minore straniero (cosiddetta adozione internazionale), mentre si trattava del riconoscimento di una sentenza straniera, pronunciata tra stranieri», così il comunicato stampa della Consulta del 24 febbraio 2016 (la motivazione non è ancora nota).

Da qui, evidentemente, un ulteriore fattore di incertezza, che si risolve solo in una inutile discriminazione a danno di bambini che, evidentemente, vivono nelle famiglie “sbagliate”.

Mi chiedo, allora, se non sia preferibile percorrere la via dell’applicazione proprio di quell’art. 44, comma 1, lettera b), l. adozioni cit espunto dalla legge (la posizione contraria di SCHILLACI, cit., pur fondata sul tenore letterale delle norme, mi sembra troppo rigida).

Certo, come detto la clausola di equivalenza non opera per le disposizioni della l. in esame.

Tuttavia ai fini della fattispecie in esame, pur se riferita all’adozione del figlio del coniuge, rileva pur sempre e soprattutto  (anche se implicitamente) l’esistenza di un rapporto significativo e valido tra il minore e l’adottante.

Ne segue che il giudice minorile (attesa anche la più volte rilevata tendenziale equiparazione dell’UC al matrimonio) potrebbe ben ritenere la parte dell’UC, per via di interpretazione analogica (a rigore non preclusa dalla limitazione di cui al 20° c cit.), legittimata a chiedere e conseguire l’adozione del figlio dell’altro.

18. Errori di prospettiva

La questione della adozione – ed in generale della tutela della filiazione nell’ambito delle coppie dello stesso sesso (siano unite o meno in UC) resta quindi aperta.

Non può tacersi che uno dei principali ostacoli – pur se meramente strumentale – alla introduzione di una disciplina normativa in materia di filiazione, anche quella minimale rappresentata dall’art. 5 cit., sta nel fatto che i figli di cui si tratta non sono sempre nati da precedenti unioni eterosessuali dell’uno o dell’altro componente dell’UC (ed hanno quindi, normalmente, un altro genitore, titolare  dei diritti e dei doveri di cui agli art. 337 bis ss c.c.).

Il riferimento è a quei figli nati da pratiche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, cui si è fato cenno che, evidentemente, non hanno un altro genitore (di norma il padre), essendo anonima la provenienza del materiale genetico maschile.

Evidentemente, in realtà, per questi figli – cresciuti (spesso dalla nascita, nell’ambito di un condiviso progetto di genitorialità) – con il genitore biologico e il suo partner, l’esigenza di tutela è particolarmente pressante (sotto il profilo affettivo e del mantenimento), e sarebbe stata assicurata proprio dall’introduzione dell’adozione speciale.

Il problema però si pone con riferimento a quella peculiare forma di p.m.a. eterologa che è la surrogazione di maternità, e che dà luogo alla c.d. genitorialità sociale, su cui cfr. i miei lavori citati in precedenza (nonché MORASSUTTO, Vagiti e manette. L’emendamento Dalla Zuanna: una proposta tecnicamente irricevibile, in Articolo29, 2016).

In effetti il dibattito , non solo parlamentare, è stato viziato dalla mancata considerazione di alcuni dati obiettivi ed incontrovertibili, in diritto ed in fatto:

  • la maternità surrogata è già vietata dalla l. 40\2004, anche sotto il profilo penale, con disposizioni in alcun modo derogate dalla nuova disciplina
  • l’atteggiamento ambiguo della giurisprudenza, penale come civile e minorile, si spiega in ragione dell’orientamento della Corte eur. diritti dell’uomo, cui già ho fatto cenno che, sia pure a tutela dei minori, ha finito per riconoscere rilevanza giuridica alle pratiche di surrogazione di maternità, anche con riferimento a Paesi dove, come il nostro, è vietata; ne segue che il problema non potrà mai essere risolto solo in termini di diritto interno ( a meno che non si voglia richiamare i principi enunciati da Corte Cost. 49\2015 cit. per escludere – con riferimento agli effetti interni della maternità surrogata – l’applicazione degli insegnamenti della Corte di Strasburgo in materia)
  • il fenomeno concerne, in primo luogo e soprattutto, le coppie eterosessuali, cui si riferisce tutta la giurisprudenza edita; le coppie omosessuali (in genere maschili) vi fanno ricorso in misura molto ridotta, non fosse altro perché vi possono accedere in pochissimi Paesi esteri (essenzialmente in Nord America), a costi elevatissimi.

Di converso, però, non può però neppure negarsi che l’adozione speciale (quale che sia la fattispecie applicabile) ben può, in ipotesi, riguardare anche l’adozione, da parte di un partner di una UC, del figlio anagrafico (biologico o meno) dell’altro.

La questione si pone in termini ancora più insidiosi, si noti, per le coppie eterosessuali; la giurisprudenza ha infatti reiteratamente affrontato la questione della trascrivibilità dell’atto di nascita straniero (del Paese in cui la maternità surrogata è lecita, e dove il bambino è nato) che indica tout court come genitori la coppia committente.

In definitiva, quindi, una questione che concerne solo marginalmente le coppie omosessuali (che, oltretutto, non hanno modo di “nascondere” la pratica avvenuta all’estero, a differenza di quelle eterosessuali) è divenuto un ostacolo insuperabile, allo stato, per il riconoscimento di una tutela  invece indifferibile .

Eppure ha osservato, giustamente, SPADARO, Giudice minorile, famiglia, relazione genitoriale, in Articolo29, 2016: «Una disciplina giuridica della filiazione nell’ambito di una relazione omosessuale non costituirebbe lo stravolgimento di un presupposto naturale o per così dire ontologico della filiazione, ma una scelta che consentirebbe di porre rimedio ad una compressione di un diritto riconducibile alla dignità e all’uguaglianza tra le persone».

Tanto non è avvenuto, sicché la nuova l. si presenta, almeno sotto tale (fondamentale) profilo del tutto lacunosa.

D’altro canto anche la l. 898\1970 sul divorzio, pur rivoluzionaria, nel contesto storico e sociale in cui si inseriva, nel testo originario era quanto mai lacunosa e restrittiva.

L’operato quasi cinquantennale della giurisprudenza, ed alcune novellazioni, ne hanno fatto una legge migliore, più adatta a rispondere alle esigenze della società italiana.

Lo stesso , credo (ma spero in minor tempo) avverrà con la l. in esame.

Concludo con un aforisma di Goethe: l’ingiustizia è preferibile al disordine che, nel nostro caso, va interpretato nel senso che una legge, per quanto lacunosa e – in alcuni punti – discutibile (specie per le omissioni) è preferibile al vuoto precedente; sta poi a chi è chiamata ad applicarla (nei diversi ambiti) operare al fine di  rimuoverne le ingiustizie.

 * Consigliere presso la Corte d’appello di Napoli

One Response to Il nome della rosa (la disciplina italiana delle unioni civili)

  1. […] 5. Si è detto come la legge sulle unioni civili rappresenti una disciplina imposta dall’Europa o meglio una presa di coscienza dell’impossibilità per il nostro ordinamento di rimanere “permeabile” rispetto alle vicende esterne e transfrontaliere (M. Gattuso, Le Unioni civili in mare aperto: ecco il progetto di legge che andrà in Aula in Senato, G. Casaburi, Il Sillabo delle Unioni Civili: giudici, etica di stato, obblighi internazionali dell’Italia). Si è detto pure che l’obiettivo della disciplina sulle unioni civili è di permettere all’Italia di allinearsi agli altri paesi che, oramai numerosi in Europa, Americhe e Oceania, prevedono forme di tutela e riconoscimento giuridico alle coppie omossessuali (G. Casaburi, Il nome della rosa (la disciplina italiana delle unioni civili)). […]