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La sentenza della Grande Camera M.E. v Sweden: un’occasione mancata

Nella decisione M.E. v Sweden la Grande Camera ha optato per lo striking out del ricorso, evitando linvito del ricorrente a produrre una sentenza di ampio respiro che chiarisse la possibilità di ancorare al dettato della Convenzione le richieste di asilo presentate da soggetti che fuggono dalle persecuzioni a cui sono esposti nei Paesi dorigine a causa del proprio orientamento sessuale e/o identità di genere. Nello specifico la Corte non esclude che il rimpatrio forzato di soggetti omosessuali in Paesi dove siano in vigore sanzioni criminali contro gay e lesbiche costituisca una violazione della Convenzione né prende posizione contro largomento, avallato dalla quinta sezione della Corte edu, secondo cui laddove il migrante possa evitare le sanzioni previste per atti omosessuali nascondendo e dissimulando la propria identità, le autorità nazionali sono pienamente titolate a negargli/le lo status di rifugiato. Si tratta di posizioni estremamente problematiche che, se da un lato possono essere comprese alla luce delle tensioni politiche che investono la materia migratoria, dallaltro rendono evidente la difficoltà della Corte edu nel difendere, salvaguardare e garantire lenforcement dei diritti fondamentali al di sopra di valutazioni di carattere politico.

The Grand Chamber finally stroke out M.E. v Sweden and avoided the applicants request to display a general judgment on the possibility to anchor and legitimize under the Echr migrantsclaims of asylum grounded on the prosecution experienced in their countries because of their sexual orientation or gender identity. Specifically, the Court did not rule out that the forced repatriation of homosexual subjects to countries in which criminal sanctions prosecute same-sex acts violates the Echr nor it took a stand against the argument, endorsed by the fifth section of the ECtHR, according to which insofar a migrant could avoid sanctions concealing or suppressing her sexual identity, national authorities of Coe States are fully entitled to deny her the status of refugee. I suggest that the Grand Chamber judgment displays extremely problematic standpoints, which if on one hand could be understood in the light of political tensions that insist of migratory policies, on the other clearly show the complication experienced by the ECthHR in defending, safeguarding and enforcing human rights irregardless of political considerations.

di Silvia Falcetta*

Con la decisione finale dell’8 aprile 2015 di striking out il ricorso M.E. v Sweden, n.71398/12, la Grande Camera ha perso un’occasione rilevante per ampliare la protezione assicurata dalla Convezione edu ai soggetti migranti lgbt.

L’aspetto più sconcertante della concisa sentenza offerta dalla Corte riguarda l’assenza di un chiaro pronunciamento su quali diritti discendano dalla Convenzione a tutela di coloro che cercano asilo nei paesi membri del Consiglio d’Europa in ragione del proprio orientamento sessuale e/o della propria identitàdi genere. In passato la Corte si era già confrontata con casi riguardanti migranti omosessuali[1], evitando sempre di giungere ad individuare una linea interpretativa univoca e avallando le scelte delle autorità nazionali.

Le questioni esposte in M.E. v Sweden – come del resto nei casi menzionati su cui la Corte e la Commissione si sono soffermate – impongono ai giudici di ragionare su problematiche che intersecano il fragile equilibro tra la sovranità nazionale riconosciuta in tema di politiche migratorie e l’esigenza di una comune tutela dei diritti fondamentali. A causa del recente incremento dei flussi migratori è ragionevole supporre che situazioni analoghe si ripresenteranno alla Corte edu; ipotizzo, dunque, che in un prossimo futuro la Corte dovrà abbandonare, anche parzialmente, il self-restraint fin ora mostrato.

Allo scopo di comprendere come un ragionamento maggiormente articolato avrebbe potuto chiarire l’approccio della Corte rispetto alle rivendicazioni dei migranti lgbt nella prima parte del commento evidenzierò quelli che ritengo essere gli aspetti problematici sorti dalla sentenza della quinta sezione della Corte e che, dopo il recente pronunciamento della Grande Camera, rimangono ancora aperti.

Il quadro legale e la sentenza della quinta sezione

Nel 2012 M.E., di nazionalità libica, presentò ricorso presso la Corte edu lamentando che la decisione delle autorità svedesi di rimpatriarlo, anche solo per un periodo temporaneo, violava i suoi diritti tutelati dall’art.3 e dall’art.8 della Convenzione edu. Secondo il ricorrente, infatti, in Libia sarebbe stato esposto al rischio concreto di violenze e torture a causa della propria omosessualità e, oltretutto, avrebbe dovuto vivere per un periodo di tempo considerevole distante da N., cittadino maschio regolarmente residente in Svezia con cui il egli aveva contratto matrimonio nel 2011.

La vicenda soggettiva di M.E. è effettivamente complessa e qui cercherò di ripercorrerne i tratti salienti. Il ricorrente entrò irregolarmente in Svezia nel 2010 e durante la prima intervista con il Migration Board non fece menzione alcuna della propria omosessualità, chiedendo asilo per ragioni politiche: per almeno un anno e mezzo egli aveva, infatti, contrabbandato armi per alcuni clan libici e, una volta scoperto, era stato detenuto e torturato dalle autorità locali al fine di estorcergli i nominativi dei componenti dei suddetti clan. Dato che a fronte delle violenze subite egli aveva effettivamente fornito i nomi delle famiglie per cui lavorava, se fosse ritornato in patria il rischio di ritorsioni contro la sua persona sarebbe stato elevato (M.E. v Sweden, 26/06/2014, §12).

Nel febbraio 2011 il ricorrente si ripresentò al Migration Board e chiese di aggiungere alle ragioni per cui richiedeva asilo in Svezia il proprio orientamento omosessuale; M.E. “stated that he had been normalbefore and that it was N. he had become interested in[2]”(Ibi, §16) e pochi mesi dopo tale ammissione sposò N.

Nell’eventualità di un eventuale rimpatrio M.E. lamentava il rischio non solo di incorrere in una possibile condanna derivante dall’applicazione delle norme penali vigenti in Libia contro i comportamenti omosessuali ma anche di essere ucciso dai propri parenti che lo avevano minacciato in quanto il suo comportamento disonorava la famiglia (Ibi, §26). Le autorità svedesi, tuttavia, respinsero in toto le argomentazioni del ricorrente: “Thus, the Board concluded that the applicants story, both in relation to events in Libya and his relationship with N., lacked credibility and was not sufficient to justify granting him a residence permit in Sweden. [] As concerned the applicants relationship to N., the Board referred to the main rule in the Aliens Act that an alien, who seeks a residence permit in Sweden on account of family ties or a serious relationship, must have applied for and been granted such a permit before entering the country. Whilst noting that an exemption from this rule can be made if the alien has strong ties to a person who is resident in Sweden and it cannot reasonably be required that he or she travel to another country to submit an application there, the Board considered that it would not be unreasonable to require the applicant to file such an application from Libya in accordance with the main rule. As there were no other grounds on which to grant the applicant leave to remain in Sweden, his application was rejected[3]”(Ibi, §18-19).

Anche i successivi ricorsi si tradussero nel sostanziale rigetto delle istanze presentate da M.E., che si appellò infine alla Corte edu.

Il 24 giugno 2014 la quinta sezione cassò tutte le richieste del ricorrente, offrendo un ragionamento estremamente problematico.

In primo luogo la Corte non considerò di particolare importanza la possibilità che, a prescindere dall’effettiva applicazione delle sanzioni penali previste per gli atti omosessuali, una cultura fortemente omofoba pervadesse le pratiche informali locali e rendesse fondati i timori di M.E.

Nonostante la presenza di norme criminalizzanti l’omosessualità e la conferma di almeno due episodi di violenze collettive contro gli uomini gay (Ibi, §45), a causa dell’assenza di chiarezza sulle condizioni degli omosessuali dopo la caduta di Gheddafi[4] la maggioranza ritenne che non si potesse desumere un pericolo concreto per il ricorrente: while having regard to the fact that homosexuality is a taboo subject and seen as an immoral activity against Islam in Libya, the Court does not have sufficient foundation to conclude that the Libyan authorities actively persecute homosexuals[5]”(Ibi, §87).  Sul punto vorrei sottolineare come sia sconcertante che la maggioranza nel dubbio sull’effettiva intensità delle persecuzioni contro le persone omosessuali non abbia applicato il principio di precauzione a favore del ricorrente; si sarebbe infatti trattato, a mio giudizio, di una misura necessaria a ribadire la centralitàdella dignitàe della sicurezza individuale nel ragionamento della Corte.

Il ricorrente ricordò, inoltre, che tutte le ambasciate svedesi in Libia erano state chiuse ma la maggioranza giudicò che la necessità di recarsi in uno Stato vicino per espletare le pratiche burocratiche non comportasse rischi rilevanti per l’integrità fisica del ricorrente (Ibi, §89).

La quinta sezione rafforzò, infine, lo stereotipo del modello del ‘closet’, reiterando che anche laddove M.E. avesse dovuto dissimulare la propria sessualità in attesa dell’approvazione delle pratiche per la riunificazione famigliare, “it would not require him to conceal or supress an important part of his identity permanently[6]”(§88).  Certamente la ricostruzione, intricata e a tratti contraddittoria, fornita dal ricorrente al Migration Board getta diverse ombre sul suo passato ma vorrei sottolineare sia come tutto ciò non possa rappresentare un argomento pregnante per dubitare della veridicità delle affermazioni di M.E. sul proprio orientamento sessuale sia come le azioni passate del ricorrente non superino per rilevanza giuridica il matrimonio civile contratto in Svezia. Un solo giudice dissenziente, Powder Force, argomentò tenacemente contro il ragionamento offerto dalla maggioranza, evidenziando quantomeno come la prospettiva adottata dal collegio nei confronti delle rivendicazioni del ricorrente non potesse essere considerata neutrale: “The majority in this case has concluded that even if the applicant has to be discreetabout his private lifefor some time following his expulsion to Libya, this would not involve a permanent or protracted suppression or concealment of an important part of his identity and thus would not reach the threshold necessary to violate Article 3 of the Convention. I disagree with the majoritys approach and conclusion. The fact that the applicant could avoid the risk of persecution in Libya by exercising greater restraint and reserve than a heterosexual in expressing his sexual orientation is not a factor that ought to be taken into accounte ancora Had it been applied to Anne Frank, it would have meant, hypothetically, that she could have been returned to Nazi-occupied Holland as long as denying her religion and hiding in an attic were a reasonably tolerablemeans of avoiding detection []. There is an assumption, at least, an implicit one, that sexual identity is, primarily, a matter of sexual conduct which if not publicly displayed or discussed by the applicant would eliminate any risk of harm being visited upon him. Sexual orientation is, of course, something far more fundamental than sexual conduct and involves a most intimate aspect of private life(Norris v. Ireland, 26 October 1988, §46, Series A no. 142). [] The practical consequences for this applicant of the requirement that he be discreetwhen returned to Libya are nowhere considered in the judgment.[]. He would have to be cautious about the friendships he formed, the circle of friends in which he moved, the places where he socialised[7]. (Dissenting opinion of Judge Powder-Force).

La Corte rigettò tutte le richieste del ricorrente ma, al tempo stesso, invitò il governo svedese a non eseguire immediatamente l’ordine di rimpatrio: “[the Court] indicate[s] to the Government under Rule 39 of the Rules of Court that it is desirable in the interests of the proper conduct of the proceedings not to expel the applicant until such time as the present judgment becomes final or until further order[8]”( M.E. v Sweden, 26/06/2014, §104)

Il trattamento da riservare alle persone che chiedono asilo in ragione del loro orientamento sessuale venne insomma demandato completamente alla discrezione delle autoritànazionali.

Alla notizia che la Grande Camera si sarebbe pronunciata su questo caso molti giuristi, attivisti e cittadini sperarono che i diciassette giudici avrebbero formulato una sentenza caratterizzata da un ragionamento maggiormente articolato e approfondito.

La sentenza della Grande Camera

La sentenza della Grande Camera, al contrario, appare piuttosto scialba.

Successivamente alla sentenza della quinta sezione, nel novembre 2014 il Migration Board svedese stilò un Report sulla situazione attuale in Libia; in questo documento le autorità riconobbero il carattere estremamente violento, instabile e pericoloso venutosi a creare a seguito della sconfitta di Gheddafi (M.E. v Sweden [GC], 8/04/15, §24).

Oltretutto “in the light of the information in the Legal Comment concerning the situation in Libya, and noting that the Court had referred the applicants case to the Grand Chamber, the Migration Board decided to examine the applicants case again[9]”(Ibi, §26); sulla base di queste nuove valutazioni il Migration Board concesse al ricorrente un permesso di soggiorno permanente, senza tuttavia valutare retrospettivamente la correttezza delle decisioni adottate in precedenza dal Migration Board (Ibi, §27).

M.E. decise quindi di non ritirare il proprio ricorso poiché“the matter before the Court had not been resolved[10]”(Ibi, §29); il ricorrente premeva infatti affinché la Grande Camera si pronunciasse su problematiche che, a suo giudizio, non potevano essere considerate superate dalla decisione finale delle autorità svedesi, per quanto positiva per la sua situazione specifica.

In particolare M.E. auspicava che la Grande Camera

  • valutasse “whether the previous decisions by the Swedish authorities had been in breach of Article 3 since, at the time when they had taken their decisions, they knew or ought to have known that his removal to Libya would expose him to a real risk of inhuman or degrading treatment[11]”(Ibi, §30).
  • riconoscesse che dal ricorso “raised serious issues of fundamental importance relating to homosexualsrights and how to asses those rights in asylum cases all over Europe[12]”(Ibi, §30).

M.E. mirava, insomma, a favorire il raggiungimento di una sorta di giudizio pilota a cui fare riferimento in futuri casi analoghi.

I giudici, tuttavia, non hanno messo in discussione la valutazione dei rischi effettuata dalle autorità nazionali e avallata dalla quinta sessione, né hanno preso in considerazione la necessità di predisporre un quadro interpretativo applicabile ai richiedenti asilo per ragioni connesse al proprio orientamento sessuale e/o identità di genere.

La Grande Camera si è limitata a evidenziare come il Migration Board svedese abbia riconosciuto al ricorrente il permesso di soggiorno in virtù della propria omosessualità(Ibi, §37), concludendo di conseguenza che “the Court does not need to enquire retrospectively into whether a real risk engaging the respondent States responsibility under Article 3 of the Convention existed when the Swedish immigration authorities refused his asylum requests or when the Chamber adopted its judgment[1]”(Ibi, §36).

La Corte ha, infine, evitato qualunque commento sulla possibilità che imporre ai migranti lgbt di nascondere la propria sessualità in modo da non incorrere nelle sanzioni penali previste nei loro Paesi di origine rappresenti una violazione dell’art.3 della Convenzione, lasciando la questione drammaticamente insoluta.

In conclusione la Grande Camera non ha sciolto il nodo di come conciliare l’autonomia nazionale nel definire i requisiti sostanziali e procedurali in materia di asilo con l’esigenza di rispettare i diritti fondamentali, preferendo un approccio cauto, agli antipodi dalla sentenza miliare della Corte di giustizia dell’Unione Europea che nel 2013 ha stabilito: when assessing an application for refugee status, the competent authorities cannot reasonably expect, in order to avoid the risk of persecution, the applicant for asylum to conceal his homosexuality in his country of origin or to exercise reserve in the expression of his sexuality[2]”( C-199/12, C-200/12 and C-201/12, Minister voor Immigratie en Asiel v. X, Y and Z, §79) .

Lascia quantomeno perplessi il fatto che mentre la Corte di giustizia dell’Ue argomenta fermamente a favore dei migranti lgbt la Corte edu, istituita precisamente per tutelare, salvaguardare e favorire la crescita progressiva dei diritti fondamentali istituiti dalla Convenzione edu, preferisca un mero approccio procedurale, insoddisfacente sotto ogni profilo.

La scelta della Grande Camera potrebbe essere imputata a due ragioni: come ribadito in precedenza le politiche di sicurezza nazionale e controllo dei flussi migratori rappresentano tradizionalmente uno degli elementi centrali della sovranità domestica e un approccio maggiormente attivista avrebbe potuto originare critiche di policy-making da parte dei Paesi membri del Coe; per di più, come si può evincere dall’opinione separata del giudice De Gaetano nel giudizio della quinta sezione, una porzione non trascurabile dell’opinione pubblica sospetta che se la Corte imponesse agli Stati l’onere di garantire lo status di rifugiato ai migranti lgbt provenienti da Paesi in cui l’omosessualità è formalmente o informalmente perseguita, un gran numero di eterosessuali si dichiarerebbero omosessuali e stipulerebbero dei matrimoni di convenienza, riuscendo cosìad aggirare le rigide procedure previste in materia.

D’altro canto le recenti elezioni politiche, nazionali e regionali, dimostrano come una parte non trascurabile dell’opinione pubblica europea sia preoccupata dal continuo ingresso di extracomunitari nei propri territori e supporti politiche severe in materia di immigrazione.

In un simile contesto il ricorso al margine strutturale di apprezzamento[3] ha sicuramente protetto la Corte da un’erosione della propria legittimazione, a discapito tuttavia di un’interpretazione coraggiosa che estendesse l’applicabilità dei diritti contenuti nella Convenzione.

Il prezzo più pesante, direi inaccettabile, della scelta dei giudici ricade proprio su coloro che migrano in quanto perseguitati per il proprio orientamento sessuale, a dimostrazione di come la Corte edu riesca a tutelare i soggetti lgbt in modo estremamente problematico e, suggerisco, dipendente dalla sensibilità dei paesi membri del Coe rispetto alle tematiche affrontate. Nell’ipotesi in cui le politiche in materia di immigrazione non costituissero un problema di scottante attualità è ragionevole supporre, infatti, che anche la Grande Camera avrebbe prodotto una sentenza differente. Per quanto comprensibile in un’ottica di realpolitik, lasciare che la garanzia effettiva dei diritti fondamentali dipenda dal contesto socio-politico in cui i giudici operano incrina fortemente i presupposti filosofici universalisti su cui il paradigma dei diritti fondamentali si impernia.

 

* Dottoranda in Sociologia del diritto, Università degli Studi di Milano

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[1] Si vedano M.K.N. v Sweden, no. 72413/10, sentenza 27/6/2013; Sobhani v Sweden, no. 32999/96; F. v UK, no 17341/03, sentenza 22/06/14; I.N.N. v the Netherlands, no. 2035/04, decisione 09/12/04. Anche la Commissione edu nel tempo ha considerato una pluralità di casi riguardanti migranti che adducevano il proprio orientamento sessuale come fattore rilevante per ottenere un permesso di soggiorno nei Paesi membri del Coe, giudicandoli tuttavia sempre inammissibili. Si vedano X and Y v UK, no 9369/81, decisione 03/05/1983; W.J. and D.P. v UK, no.12513/86, decisione 13707/1987; C and L.M. v UK, no. 14753/89, decisione 09/10/1989; Z.B. v UK, no. 16106/90, decisione 10/02/1990

[2] dichiarò che prima era normale e che dopo aver conosciuto N. aveva provato interesse per lui” [trad.mia]

[3]“Dunque, il Consiglio concluse che la storia del ricorrente mancava di credibilità, sia per quanto concerneva gli eventi in Libia sia per quanto riguardava la sua relazione con N., e non rappresentava una base sufficiente per garantirgli un permesso di soggiorno in Svezia. […] Per quanto riguarda la relazione del ricorrente con N. il Consiglio fece riferimento alla regola principale prevista dall’Alien Act, in base a cui uno straniero che richiede un permesso di soggiorno per ragioni famigliari o in virtù di un legame affettivo particolarmente serio deve presentare richiesta e ottenere parere positivo prima di entrare nel Paese. Seppur notando che un’eccezione alla regola può essere prevista nel caso in cui la persona straniera ha forti legami con una persona residente in Svezia e sia irragionevole chiederle di tornare in un altro Paese per presentare la domanda formale, il Consiglio considerò che non sarebbe irragionevole richiedere al ricorrente di presentare tale domanda dalla Libia, seguendo dunque la regola principale. Se infatti non ci fossero altri motivi su cui fondare la domanda di asilo, la sua richiesta sarebbe infatti rigettata”. [trad.mia]

[4]“Moreover, having regard to the country information on Libya, the Court notes that, since the overthrow of Gadhafi in 2011, the situation in Libya has been, and continues to be, insecure and unclear as to the direction the country is taking. Consequently, there is also only little and varying information about the situation for homosexuals in Libya, making it difficult for the Court to make an evaluation of this matter”. (Ibi §87). “Oltretutto in relazione alle informazioni concernenti la situazione in Libia la Corte osserva che dopo la sconfitta di Gheddafi, nel 2011, sia lo stato degli eventi sia le prospettive di sviluppi futuri sono e permangono insicuri e poco chiari. Di conseguenza le informazioni riguardo il trattamento riservato agli omosessuali sono scarse ed eterogenee, ostacolando la Corte nell’effettuare eventuali considerazioni sul punto”. [trad.mia]

[5]“Pur tenendo in considerazione che in Libia l’omosessualità è considerata taboo e giudicata quale pratica immorale contro l’Islam, la Corte ritiene di non avere sufficienti prove per concludere che le autorità libiche perseguono effettivamente e attivamente gli omosessuali”. [trad.mia]

[6]“ciò non implicherebbe il rinnegamento o la soppressione di un parte importante della sua identità in modo permanente”. [trad.mia]

[7] “La maggioranza ha concluso in questo caso che anche se al ricorrente viene richiesto di essere ‘discreto’ in merito alla sua vita privata per il periodo di tempo successivo al suo rimpatrio in Libia, ciò non determina una soppressione permanente o protratta di una parte essenziale della sua identità e di conseguenza ciò non raggiunge la gravità necessaria per ritenere tale scelta in violazione dell’articolo 3 della Convenzione. Non sono d’accordo né con l’approccio né con le conclusioni della maggioranza. Il fatto che il ricorrente possa evitare il rischio di persecuzioni in Libia adottando una cautela e un riserbo maggiore rispetto a quelli richiesti ad un soggetto eterosessuale nell’esprimere il proprio orientamento sessuale è un elemento che non dovrebbe essere preso in considerazione” “Se tale ragionamento fosse stato applicato ad Anne Frank, ciò avrebbe comportato, ipoteticamente, che lei avrebbe potuto essere rimpatriata nell’Olanda occupata dai nazisti dato che rinnegare la propria religione e nascondersi in una soffitta sarebbero strumenti ‘ragionevolmente tollerabili’ per evitare la detenzione […]. Vi è l’assunto, per lo meno implicito, che l’identità sessuale è, in primis, una questione di condotta sessuale che, se non manifestata o divulgata apertamente dal ricorrente, eliminerebbe qualunque rischio di incorrere in danni. L’orientamento sessuale è, ovviamente, qualcosa di ancora più fondamentale rispetto alla condotta sessuale e comprende ‘un aspetto tra i più intimi della vita privata’ (Norris v Ireland, § 26). […] Le conseguenze pratiche derivanti dalla richiesta di discrezione una volta rientrato in Libia non sono prese in considerazione in nessuna parte della sentenza. Il ricorrente dovrebbe essere molto cauto nella scelta delle persone da frequentare, del circolo di amici e relazioni interpersonali in cui muoversi e nei posti in cui esercitare la propria socialità”. [trad.mia]

[8]“[ la Corte ] indica al Governo che secondo la Regola 39 delle Regole della Corte è desiderabile che, nell’interesse del corretto svolgimento dei procedimenti, il ricorrente non venga espulso fintanto che tale sentenza diventerà finale o fino a successivo ordine”. [trad.mia]

[9]“Alla luce delle informazioni della relazione giuridica relativa alla situazione giuridica in Libia e considerando che la Corte aveva deciso di riferire il caso alla Grande Camera, il Consiglio relativo alle questioni migratorie decise di esaminare nuovamente il caso del ricorrente”. [trad.mia]

[10]“il nocciolo della questione presentato alla Corte non era stato risolto”. [trad.mia]

[11]“ qualora le precedenti decisioni delle autorità svedesi avessero violato l’art. 3 dato che al momento in cui presero le suddette decisioni, essi sapevano o avrebbero dovuto sapere che il rimpatrio in Libia avrebbe esposto il ricorrente ad un rischio concreto di subire trattamenti inumani e degradanti”. [trad.mia]

[12]“sollevava questioni serie, di fondamentale importanza, connesse ai diritti dei soggetti omosessuali e alle modalità mediante cui assicurare tali diritti nei casi di richiedenti asilo nel contesto europeo”. [trad.mia]

[13]“La Corte non evidenzia la necessità di valutare se retrospettivamente esistesse un rischio reale tale da ritenere lo Stato convenuto vincolato all’articolo 3 della Convenzione nel momento in cui le autorità svedesi rifiutarono asilo al ricorrente o nel momento in cui la Camera emise la sentenza”. [trad.mia]

[14] “Nel valutare la richiesta per lo status di rifugiato le autorità competenti non possono ragionevolmente aspettarsi che, allo scopo di evitare le persecuzioni, il richiedente asilo nel proprio paese d’origine nasconda la propria omosessualità o risulti particolarmente discreto nell’esprimere la propria sessualità”. [trad.mia]

[15] faccio qui riferimento alla nozione di margine di apprezzamento strutturale elaborata da Letsas e definito come l’applicazione del principio di sussidiarietà rivolto “to the limits or intensity of the review of the European Court of Human Rights in view of its status as an international tribunal. It amounts to the claim that the European Court should often defer to the judgment of national authorities on the basis that the ECHR is an international convention, not a national bill of rights.”G. Letsas, 2006, “Two Concepts of Margin of Appreciation”, Oxford Journal of Legal Studies, 26(4), 706.