“Tutt’altro che rettilinea”: dal Tribunale di Brescia una serrata critica degli indirizzi della prima sezione sui bambini nati da PMA
7 luglio, 2023 | Filled under genitorialità, italia, OPINIONI |
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di Giulia Barbato
Con un interessante decreto del 17 marzo 2022 – 16 febbraio 2023 il Tribunale di Brescia ha dichiarato illegittimo il rifiuto dell’Ufficiale di Stato Civile bresciano di ricevere la dichiarazione di riconoscimento di due minori resa dalla madre intenzionale, dando atto conseguentemente di tale riconoscimento e ordinando la rettificazione dell’atto di nascita di entrambi i minori mediante l’aggiunta dell’indicazione della donna quale secondo genitore.
La vicenda riguarda due minori nati da un progetto di genitorialità condiviso da due donne unite civilmente, realizzato effettuando all’estero la fecondazione eterologa, nei cui atti di nascita veniva indicata la madre biologica come unico genitore, stante il rifiuto dell’ufficiale dello Stato civile di Brescia di iscrivere la madre intenzionale quale secondo genitore dei bambini.
Avverso tale diniego le due mamme agivano dinnanzi il Tribunale di Brescia, chiedendo il riconoscimento anche della genitrice sociale in virtù dell’art. 8 della legge n. 40 del 2004, secondo cui “i nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’articolo 6”. Invero, a detta delle ricorrenti, per tutelare il superiore interesse dei minori e il loro diritto alla bigenitorialità – garantiti anche a livello sovranazionale all’art. 24 CEDU – è doverosa l’applicazione di questa disposizione in una con tutte le altre presenti nella legge n. 40 del 2004 riguardanti lo status di figlio nato in seguito a PMA.
Si costituiva in giudizio il Ministero degli Interni, domandando il rigetto del ricorso sostenendo l’inapplicabilità dell’art. 8 ai figli di coppie omogenitoriali femminili in ragione del divieto di accesso alla PMA alle coppie dello stesso sesso fissato all’art. 5 della legge n. 40 del 2004; l’illegittimità – asserita dalla Corte Costituzionale – delle domande aventi ad oggetto la trascrivibilità del genitore d’intenzione; la tassatività degli atti dell’ufficiale di Stato Civile, i quali “non prevedono due madri, ma una madre e un padre”(così, p. 2); la doverosità di tale soluzione per evitare la conferma di situazioni di fatto non consentite e la neutralizzazione dei divieti imposti dalla legge n. 40 del 2004; l’assenza, infine, della violazione del best interest dei minori, avendo questi riconosciuto lo status di figli della madre biologica e non risultando leso alcun loro interesse mediante la mancata menzione della co-madre nei loro atti di nascita.
Il Tribunale, in primis, evidenzia che l’inadattabilità dei provvedimenti amministrativi esistenti alla fattispecie in esame non può giustificare la loro insindacabilità da parte del giudice ordinario, ove gli stessi pregiudichino diritti della persona, quali l’identità personale e il rapporto genitore/figlio. Viene sottolineato, infatti, come questi diritti fondamentali, altrimenti, “sarebbero condizionati ad attività amministrativa e alla modifica, molto formale, della indicazione o meno del genere del genitore nel modulo” (così. p. 3).
Il giudice di prime cure perimetra poi la questione oggetto della decisione, individuandola nella prevalenza o meno dell’interesse statale alla repressione in certe ipotesi della PMA “illecita” rispetto all’interesse alla bigenitorialità del minore, comunque nato.
Viene ricordato come riguardo a fattispecie analoghe attinenti all’iscrizione della madre intenzionale il medesimo Tribunale si sia già espresso per l’illegittimità del rifiuto di tale iscrizione da parte dell’Ufficiale dello stato civile, ritenendo tali fattispecie riconducibili all’art. 8 della legge n. 40 del 2004. Il giudice di primo grado giunge a tale approdo ermeneutico partendo dalla lettura di questa disposizione in una con gli artt. 9 e 12 della legge n. 40 del 2004 anche “(…) alla luce della esigenza, costituzionalmente garantita, di tutelare la condizione giuridica del nato, conferendogli, da principio, certezza e stabilità” (così, p. 3). Muovendo da ciò, ha asserito come rispetto ai nati a seguito di PMA il conseguimento dello status filitionis della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere a tale tecnica ex art. 8 sia slegato dalla sussistenza da parte della medesima coppia dei requisiti oggettivi e soggettivi di cui agli artt. 1, 4 e 5 della legge n. 40 del 2004, come attestato dall’art. 12 della stessa legge, il quale si limita a prevedere l’irrogazione di sanzioni amministrative nei confronti di chi ricorre alla PMA non rispettando tali requisiti, “senza mai menzionare, intaccandola, l’istaurazione del rapporto di filiazione con il genitore intenzionale”(così, p. 4). Dunque, secondo tale lettura, la legge n. 40/2004 costituisce un esempio di quella che il diritto romano definisce “lex minus quam perfecta”: “gli atti compiuti in difformità dalla fattispecie legale (i.e., i casi di PMA praticati al fuori delle condizioni di accesso) sono eventualmente passibili di sanzione amministrativa, ma producono comunque l’effetto della costituzione del rapporto giuridico di filiazione tra il nato ed entrambi i membri della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche di procreazione assistita”(così p.4). Del resto, a detta del Tribunale, il principio della tutela del concepito permea tutte le disposizioni della legge n. 40 e deve fungere da criterio chiave per la risoluzione dei dubbi ermeneutici riguardanti queste norme. Conseguentemente, in linea anche con la giurisprudenza sovranazionale e costituzionale, è necessario considerare prevalente il diritto del nato mediante PMA ad essere riconosciuto quale figlio dei due membri della coppia che ne hanno voluto la nascita, dovendosi applicare l’art. 8 “anche nel caso, come quello in esame, in cui due mamme abbiano avuto in Italia un figlio da procreazione assistita effettuata all’estero” (così, p. 5), risultando in quest’ipotesi il riconoscimento della madre intenzionale “un atto giuridico volto a completare la fattispecie di cui all’art. 8 e determinare la costituzione del rapporto di filiazione” (così, p. 5) con il nato.
Nella pronuncia viene poi ricordata la posizione contraria assunta dalla Corte d’Appello di Brescia secondo cui lo scopo perseguito dalla legge n. 40 del 2004 è esclusivamente rimediare a problemi di sterilità/infertilità, non anche permettere alla componente della coppia omosessuale di ricorrere alla PMA né, tantomeno, ammettere la formazione di un legame filiale tra il nascituro e l’altro componente della coppia stessa, costituendo questo un divieto “implicito ma inequivocabile” (così, p. 6).
Tale interpretazione viene criticata nella decisione in esame, in quanto si evidenzia come si nega la tutela dell’art. 8 legge n. 40 del 2004 al minore sulla base di un divieto implicito, fatto discendere dal diverso divieto di ricorrere alla PMA per le coppie dello stesso sesso, risultando in sostanza ricostruita l’esistenza di una norma da parte della Corte, una volta accertata la sua assenza.
Al contrario il Tribunale de quo asserisce come “la procreazione è un fatto talmente complesso […] che non appare giusto far prevalere in ogni caso le ragioni della biologia su quelle della biografia” (così, p. 6), risultando “necessario spostare il fuoco del diritto sul nuovo individuo, che non è mai illecito” (così, p 6), anche ove lo sia stato il suo concepimento in base alla legge n. 40 del 2004.
Per quanto concerne, invece, la giurisprudenza della Cassazione, viene messo in luce come essa “appare tutt’altro che rettilinea” sul punto (così, p. 7).
Invero nella pronuncia si sottolinea come la ricostruzione elaborata dalla Corte d’Appello bresciana sia messa in crisi dal giudice di legittimità nel caso di fecondazione omologa avvenuta con seme di genitore morto, avendo la Suprema Corte, in questa occasione, riconosciuto a favore del nato l’applicazione dell’art. 8 in una delle ipotesi vietate dalla legge n. 40 del 2004, non essendo più vivente uno dei due componenti della coppia al momento del concepimento. Tuttavia viene evidenziato come si registrano altre decisioni della stessa Corte di Cassazione in cui viene negata l’iscrizione della seconda madre intenzionale in base a tre ordini di motivi: la sussistenza di un principio nel nostro ordinamento per cui la posizione di madre ha un fondamento oggettivo-genetico, che non permette che possano esistere due madri, risultando fissato ex lege il limite invalicabile della diversità di sesso per l’accesso alla PMA; la necessità di bilanciare la libertà e la volontarietà di divenire genitori con altri valori protetti dalla Costituzione; l’impossibilità di realizzare forme di genitorialità svincolate da un rapporto biologico oltre i casi ammessi dalla legge.
All’opposto, a parere del giudice lombardo, la legge n. 40 del 2004 persegue il fine di “regolare una procreazione che prescinde dalla biologia, non solo dal naturale rapporto sessuale, se è vero, come è vero, che il genitore intenzionale non può disconoscere il figlio nato, quandanche per qualsiasi evenienza non si trattasse dei suoi gameti, restando così dimostrata la prevalenza dell’intenzione sulla biologia. Inoltre l’art. 9 della medesima legge 40 per il caso di fecondazione eterologa nega al donatore dei gameti qualsiasi relazione parentale e qualsiasi diritto od obbligo verso il nuovo nato, negando così le ragioni della biologia affermate in quella giurisprudenza” (così, p. 8).
Del resto nel decreto de qua viene rimarcato come sia la giurisprudenza costituzionale sia la Corte EDU hanno più volte ribadito che, nonostante spetti al legislatore regolare la materia in esame, il giudice ordinario, diversamente dal giudice delle leggi – che interviene in modo generale e astratto -, “è obbligato a pronunciarsi sul regolamento concreto, nel caso di specie se la madre intenzionale sia riconosciuta come genitore nella procreazione medicalmente assistita “illecita” (così, p. 8), dovendo a tal fine interpretare la normativa in senso minorecentrico, secondo quanto indicato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 32 del 2021, in cui tra l’altro viene stigmatizzata la creazione della categoria di figli non riconoscibili, l’insufficienza della soluzione dell’adozione in casi particolari e l’impossibilità di considerarla equipollente all’iscrizione della madre intenzionale.
Viene in aggiunta ricordato che l’insufficienza della adozione alla piena tutela dello status di figlio, oltre ad essere sostenuta dalla Corte EDU, è stata confermata dalla Cassazione nella sentenza n. 38162 del 2022, resa a Sezioni Unite, quando viene rilevato che “il minore non può rivendicare la costituzione del rapporto genitoriale per il tramite dell’adozione” (così, p. 10).
Quindi al fine di garantire il diritto alla bigenitorialità del minore, a parere del Tribunale bresciano, l’adozione in casi particolari non è in grado di sostituire in maniera soddisfacente l’instaurazione del rapporto di filiazione fin dal momento della nascita.
A questo punto il giudice di primo grado sottolinea come la tutela della bigenitorialità debba essere garantita anche quando i genitori sono dello stesso sesso, non potendo “esistere figli non riconoscibili per la omosessualità dei genitori” (così, p. 12), essendo ormai scientificamente provato che il benessere dei bambini cresciuti nelle famiglie omogenitoriali è uguale a quelli cresciuti nelle famiglie “tradizionali”.
“Per altro verso”, a parere dell’organo giudicante, “stride la differenza fra la situazione del bimbo concepito mediante PMA con madre intenzionale a seconda che sia nato in Italia, per la Cassazione da non iscriversi, o all’estero, per la Cassazione da trascriversi: situazioni analoghe, sotto il profilo della filiazione e soprattutto del minore, cui viene destinato un trattamento opposto” (così, p. 14).
Dunque, secondo il Tribunale lombardo, è necessaria “una lettura ampia dell’art. 8 l. 40/04, tale da ricomprendervi tutti i nati da PMA, anche nei casi “illeciti”, per bimbi nati in Italia o all’estero, perché non ricada sui figli la colpa dei padri, o delle madri nel caso, sempre ammesso che di colpa possa parlarsi” (così, p. 13), non potendosi tralasciare il dato essenziale che tra le intenzioni della legge rientra proprio la tutela del nato, cui è dedicato il capo terzo della stessa legge.
Nella pronuncia viene ricordato, altresì, che la legge n. 40 del 2004 è una legge di compromesso, che non scioglie i punti più delicati, per districare i quali è indispensabile fare ricorso ai principi generali.
In definitiva il Tribunale di Brescia ritiene di confermare l’orientamento espresso nelle precedenti pronunce: lex minus quam perfecta. Conseguentemente dichiara illegittimo il rifiuto dell’Ufficiale di Stato Civile bresciano di ricevere la dichiarazione di riconoscimento di due minori dalla madre intenzionale e per l’effetto dà atto di tale riconoscimento, ordinando la rettificazione dell’atto di nascita di entrambi i minori mediante l’aggiunta dell’indicazione della donna quale secondo genitore.