di Francesco Deana*
1.
Lo scorso 27 aprile, con sentenza non ancora depositata ma anticipata dal Comunicato di pari data, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionali le norme che nel nostro ordinamento regolano l’attribuzione del cognome ai figli, siano essi nati nel matrimonio, fuori dal matrimonio o adottivi, incaricando poi il Legislatore di regolare tutti gli aspetti connessi alla decisione in questione.
L’oggetto della decisione è stato definito in virtù delle ordinanze di rimessione emesse dal Tribunale di Bolzano e dalla Corte di appello di Potenza, nonché dell’ordinanza di autorimessione con cui la stessa Consulta ha ampliato l’oggetto del suo giudizio ad una questione preliminare a quella sollevata dal Tribunale altoatesino. In particolare, la pronuncia riguarda due norme diverse, il cui contenuto non era dettato esplicitamente da alcuna specifica disposizione di legge, ma era desumibile dalla lettura sistematica delle norme sulla filiazione contenute in parte nel codice civile (artt. 237, 262 e 299) ed in parte nel d.P.R. n. 396 del 2000 in materia di ordinamento dello stato civile (artt. 33 e 34). La prima norma vieta, pur in presenza di accordo tra i genitori, l’attribuzione ai figli del solo cognome materno; la seconda impone automaticamente, in mancanza di accordo in senso diverso, l’attribuzione del solo cognome paterno.
La Corte è stata chiamata ad esaminare dette norme nella loro compatibilità a) con gli artt. 2 e 3 Cost., in quanto espressione del diritto all’identità personale e al riconoscimento dell’uguaglianza tra la donna e l’uomo; b) gli art. 11 e 117, comma 1, Cost., quali tramite tra l’ordinamento italiano e gli articoli 8 e 14 CEDU, rispettivamente espressione del diritto alla vita privata e familiare e del divieto di discriminazione); c) gli art. 11 e 117, comma 1, Cost., quali tramite tra l’ordinamento italiano e gli artt. 7 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), anch’essi intesi quali espressione, rispettivamente, del diritto alla vita privata e familiare e del divieto di discriminazione.
In esito alla pronuncia qui brevemente esaminata, i figli assumeranno di regola – e quindi automaticamente – il cognome di entrambi i genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, salvo che questi ultimi non optino per l’attribuzione esclusiva del cognome materno o di quello paterno.
2.
L’ordinamento italiano si allinea, così, a quanto già previsto in molti Paesi membri dell’Unione europea e completa un percorso di progressiva “liberalizzazione” di una disciplina inizialmente fondata su un rigido criterio di attribuzione automatica del solo cognome paterno.
Dopo due vani tentativi esperiti nel 1988, quando, con le ordinanze n. 176 e 586, la Corte dichiarò inammissibili le questioni relative alle modalità di attribuzione del cognome ai figli nati nel matrimonio, la sentenza n. 61 del 2006 rappresentò la prima occasione in cui i giudici costituzionali riconobbero espressamente l’incompatibilità della prevalenza del patronimico con il fondamentale principio di uguaglianza, definendo tale regola un «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia […] e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento». Nonostante l’accertata illegittimità, tuttavia, i giudici si astennero dal pronunziare l’incostituzionalità della disciplina, rinviando la questione alla discrezionalità del Legislatore; decidendo diversamente, infatti, si riteneva di esporre l’ordinamento ad un vuoto normativo in cui una pluralità rilevante di sistemi alternativi di attribuzione del cognome avrebbe potuto reclamare applicazione.
Dieci anni più tardi, con sentenza n. 286 del 2016, la Corte ebbe invece modo di mutare radicalmente convincimento – pur senza evidenziarne le ragioni giustificatrici – e dichiarare per la prima volta l’illegittimità costituzionale delle norme in materia, sebbene con limitato riferimento alla parte in cui esse non consentivano «ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche (ma non solo, NdA) il cognome materno». La pronuncia si limitava, dunque, ad introdurre un’opzione alternativa, l’attribuzione volontaria e congiunta di patronimico e matronimico fin dalla nascita, estendendola (in virtù dell’intervenuta riforma dello status filiationis operata con la legge n. 219 del 2012) ai figli nati fuori dal matrimonio e riconosciuti contemporaneamente da entrambi i genitori, nonché ai figli adottivi.
Con l’ultima e recentissima sentenza, invece, la Consulta si è spinta oltre e ha inteso tutelare i diritti costituzionali interessati non semplicemente affiancando alla regola del patronimico un ventaglio di opzioni alternative selezionabili su base volontaristica – cosa che sarebbe stata sufficiente ad ottener il risultato invocato dai ricorrenti nel procedimento a quo –, ma sancendo direttamente il definitivo superamento della regola vigente. La (nuova) regola diventa, quindi, l’attribuzione del doppio cognome, salvo diverso accordo tra i genitori.
3.
L’evoluzione giurisprudenziale culminata con la sentenza del 27 aprile abbraccia progressivamente i principi elaborati davanti alle giurisdizioni europee, in particolare la Corte EDU (già ampiamente citata nella sentenza del 2016 e solo in parte in quella del 2006), a dimostrazione di come il diritto europeo di famiglia si proponga sempre più quale catalizzatore di processi di riforma epocali nell’ambito dell’ordinamento italiano (si pensi al “peso” della sentenza Oliari e a. c. Italia rispetto all’approvazione della Legge n. 76/2016 sulle unioni civili).
La Corte di Strasburgo ha infatti da tempo pacificamente stabilito che, in quanto mezzo di identificazione personale e di collegamento con una famiglia, il cognome di una persona riguarda la sua vita privata e familiare protetta dall’articolo 8 della CEDU (casi Mentzen c. Lettonia (dec.); Henry Kismoun c. Francia). Sulla base di questa premessa e del principio di non discriminazione sancito all’art. 14 CEDU, la Corte ha sviluppato un consolidato orientamento giurisprudenziale (sentenze Unal Tekeli c. Turchia; Stjerna c. Finlandia; Burghartz c. Svizzera) fondato su due principi essenziali: a) l’eliminazione di ogni discriminazione fondata sul sesso nella scelta del cognome; b) l’impossibilità di fondare discriminazioni nei confronti delle donne che fossero giustificabili sulla tradizione di manifestare l’unità della famiglia attraverso l’attribuzione a tutti i suoi membri del cognome del marito. Gli stessi principi, elaborati in casi relativi al cognome della moglie rispetto a quello del marito, sono stati applicati, analogamente, all’attribuzione del cognome ai figli, giungendo alla conclusione per cui se attribuire il cognome del padre/marito ai figli legittimi può rivelarsi una scelta non necessariamente in contrasto con la CEDU, «l’impossibilità di derogarvi al momento dell’iscrizione dei neonati nei registri di stato civile è eccessivamente rigida e discriminatoria nei confronti delle donne» (sentenza Cusan e Fazzo c. Italia, par. 67), quindi lesiva dell’art. 14 CEDU in combinato con l’art. 8 della medesima Convenzione.
L’orientamento consolidatosi presso la Corte EDU perseguiva essenzialmente l’eliminazione di ogni discriminazione tra genitori di sesso diverso nella scelta del cognome, in virtù di un principio di uguaglianza di genere (v. in ultimo il caso León Madrid c. Spagna, deciso con sentenza del 26.10.2021, in cui la norma interna che sanciva l’imposizione automatica dell’ordine dei cognomi, prima paterno poi materno, in caso di disaccordo tra i genitori, è stata considerata discriminatoria nei confronti della madre). Trascurava invece di affrontare la questione dal punto di vista dell’identità personale dei figli, in quanto però questi non figuravano tra i ricorrenti. Ecco perché, ad esempio, in Cusan e Fazzo (par. 56), la Corte di Strasburgo affermò che «la scelta del nome del figlio da parte dei genitori rientra nella sfera privata di questi ultimi», anziché in quella del figlio stesso.
È tuttavia evidente che la questione attiene anche il diritto all’identità personale dei figli, che trova il primo ed immediato riscontro proprio nel cognome quale strumento di identificazione delle origini di una persona. Detto diritto gode della tutela offerta – seppur in contesti diversi – dall’art. 7 CDFUE e dall’art. 8 CEDU, in quanto espressione peculiare del diritto fondamentale al rispetto della vita privata e familiare. Da ciò discenderebbe il diritto fondamentale di ogni figlio ad essere identificato attraverso il cognome (paterno, materno o entrambi) che meglio corrisponde alla propria identità personale, a prescindere da un criterio inderogabile di attribuzione automatica.
Un approccio “circoscritto” al principio di non discriminazione tra genitori, simile a quello emergente dalla giurisprudenza CEDU, emerge però anche nelle prime pronunce della Corte Costituzionale italiana sul tema, in particolare nella citata sentenza n. 61, dove i giudici si limitarono a liquidare brevemente la questione dal punto di vista della tutela dell’identità del figlio, affermando che «la previsione dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno sacrifica il diritto all’identità del minore», senza poi sviluppare – come sarebbe invece stato doveroso – l’assunto.
Tale scelta argomentativa è assai limitata e, fortunatamente, oramai abbandonata dalla Corte Costituzionale italiana, come confermano sia la sentenza n. 286 del 2016, sia la sentenza dello scorso 27 aprile 2022.
4.
In entrambe le occasioni, la Consulta ha infatti riconosciuto che il modo in cui un ordinamento regola l’attribuzione del cognome ai figli è una questione legata sia alla posizione dei genitori, sia a quella dei figli stessi. I due profili sono indissolubilmente correlati e il richiamo ai principi e diritti fondamentali sottesi ad entrambi rafforza senz’altro l’argomentazione a favore della riforma della disciplina, nel pieno rispetto delle prerogative di ambedue i centri di interesse.
A ben vedere, si può persino affermare che la posizione giuridica dei figli sia prioritaria rispetto a quella dei genitori e che dunque l’aspetto della tutela dell’identità personale dei figli preceda, nell’affrontare la questione oggetto della sentenza esaminata, eventuali profili discriminatori che penalizzino un genitore rispetto all’altro. Questo poiché laddove siano in discussione le modalità di attribuzione del cognome ad un minore – e quindi, in ultimo, la definizione di elementi costitutivi la sua identità personale e familiare – ogni questione dev’essere trattata nel pieno e prioritario rispetto del suo superiore interesse, secondo quando disposto, ex multis, dall’art. 3 della Convenzione di New York del 1989 e dall’art. 24 CDFUE.
Se l’interesse del minore è prioritario, allora la questione di cui ci stiamo occupando andrà necessariamente trattata anche e prima di tutto dal punto di vista della sfera giuridica soggettiva dei figli. Così, ad esempio, fece già tempo addietro la Corte di giustizia dell’Ue, pur senza citare espressamente il principio del “best interests of the child”, nei casi Garcia-Avello e Grunkin-Paul, in cui la Corte interpretò in via estensiva il principio di non discriminazione (oggi previsto all’art. 18 TFUE) e i diritti di circolazione e soggiorno (artt. 20 e 21 TFUE) per garantire il diritto del minore a ricevere il cognome di entrambi i genitori e così evitare ai suoi danni una discriminazione in base alla cittadinanza ovvero una restrizione all’esercizio del diritto alla libera circolazione.
5.
In conclusione (e in attesa di leggerne il testo), la sentenza del 27 aprile 2022, si pone a baluardo della piena ed effettiva realizzazione del diritto all’identità personale dei figli e, al contempo, della pari dignità reciproca dei genitori nel processo di costruzione di tale identità. Lo fa eliminando dal nostro ordinamento la previsione dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno e invocando l’intervento – si spera il più sollecito possibile – del Legislatore, affinché la materia possa finalmente trovare una disciplina positiva organica e, soprattutto, allineata con gli standard inter- e sovranazionali in tema di diritti fondamentali.
* Professore a contratto di Diritto dell’Unione europea e docente di European Family Law, Università degli Studi di Udine.
La “liberalizzazione” della disciplina italiana sull’attribuzione del cognome ai figli: una riforma in chiave europea
di Francesco Deana*
1.
Lo scorso 27 aprile, con sentenza non ancora depositata ma anticipata dal Comunicato di pari data, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionali le norme che nel nostro ordinamento regolano l’attribuzione del cognome ai figli, siano essi nati nel matrimonio, fuori dal matrimonio o adottivi, incaricando poi il Legislatore di regolare tutti gli aspetti connessi alla decisione in questione.
L’oggetto della decisione è stato definito in virtù delle ordinanze di rimessione emesse dal Tribunale di Bolzano e dalla Corte di appello di Potenza, nonché dell’ordinanza di autorimessione con cui la stessa Consulta ha ampliato l’oggetto del suo giudizio ad una questione preliminare a quella sollevata dal Tribunale altoatesino. In particolare, la pronuncia riguarda due norme diverse, il cui contenuto non era dettato esplicitamente da alcuna specifica disposizione di legge, ma era desumibile dalla lettura sistematica delle norme sulla filiazione contenute in parte nel codice civile (artt. 237, 262 e 299) ed in parte nel d.P.R. n. 396 del 2000 in materia di ordinamento dello stato civile (artt. 33 e 34). La prima norma vieta, pur in presenza di accordo tra i genitori, l’attribuzione ai figli del solo cognome materno; la seconda impone automaticamente, in mancanza di accordo in senso diverso, l’attribuzione del solo cognome paterno.
La Corte è stata chiamata ad esaminare dette norme nella loro compatibilità a) con gli artt. 2 e 3 Cost., in quanto espressione del diritto all’identità personale e al riconoscimento dell’uguaglianza tra la donna e l’uomo; b) gli art. 11 e 117, comma 1, Cost., quali tramite tra l’ordinamento italiano e gli articoli 8 e 14 CEDU, rispettivamente espressione del diritto alla vita privata e familiare e del divieto di discriminazione); c) gli art. 11 e 117, comma 1, Cost., quali tramite tra l’ordinamento italiano e gli artt. 7 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), anch’essi intesi quali espressione, rispettivamente, del diritto alla vita privata e familiare e del divieto di discriminazione.
In esito alla pronuncia qui brevemente esaminata, i figli assumeranno di regola – e quindi automaticamente – il cognome di entrambi i genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, salvo che questi ultimi non optino per l’attribuzione esclusiva del cognome materno o di quello paterno.
2.
L’ordinamento italiano si allinea, così, a quanto già previsto in molti Paesi membri dell’Unione europea e completa un percorso di progressiva “liberalizzazione” di una disciplina inizialmente fondata su un rigido criterio di attribuzione automatica del solo cognome paterno.
Dopo due vani tentativi esperiti nel 1988, quando, con le ordinanze n. 176 e 586, la Corte dichiarò inammissibili le questioni relative alle modalità di attribuzione del cognome ai figli nati nel matrimonio, la sentenza n. 61 del 2006 rappresentò la prima occasione in cui i giudici costituzionali riconobbero espressamente l’incompatibilità della prevalenza del patronimico con il fondamentale principio di uguaglianza, definendo tale regola un «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia […] e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento». Nonostante l’accertata illegittimità, tuttavia, i giudici si astennero dal pronunziare l’incostituzionalità della disciplina, rinviando la questione alla discrezionalità del Legislatore; decidendo diversamente, infatti, si riteneva di esporre l’ordinamento ad un vuoto normativo in cui una pluralità rilevante di sistemi alternativi di attribuzione del cognome avrebbe potuto reclamare applicazione.
Dieci anni più tardi, con sentenza n. 286 del 2016, la Corte ebbe invece modo di mutare radicalmente convincimento – pur senza evidenziarne le ragioni giustificatrici – e dichiarare per la prima volta l’illegittimità costituzionale delle norme in materia, sebbene con limitato riferimento alla parte in cui esse non consentivano «ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche (ma non solo, NdA) il cognome materno». La pronuncia si limitava, dunque, ad introdurre un’opzione alternativa, l’attribuzione volontaria e congiunta di patronimico e matronimico fin dalla nascita, estendendola (in virtù dell’intervenuta riforma dello status filiationis operata con la legge n. 219 del 2012) ai figli nati fuori dal matrimonio e riconosciuti contemporaneamente da entrambi i genitori, nonché ai figli adottivi.
Con l’ultima e recentissima sentenza, invece, la Consulta si è spinta oltre e ha inteso tutelare i diritti costituzionali interessati non semplicemente affiancando alla regola del patronimico un ventaglio di opzioni alternative selezionabili su base volontaristica – cosa che sarebbe stata sufficiente ad ottener il risultato invocato dai ricorrenti nel procedimento a quo –, ma sancendo direttamente il definitivo superamento della regola vigente. La (nuova) regola diventa, quindi, l’attribuzione del doppio cognome, salvo diverso accordo tra i genitori.
3.
L’evoluzione giurisprudenziale culminata con la sentenza del 27 aprile abbraccia progressivamente i principi elaborati davanti alle giurisdizioni europee, in particolare la Corte EDU (già ampiamente citata nella sentenza del 2016 e solo in parte in quella del 2006), a dimostrazione di come il diritto europeo di famiglia si proponga sempre più quale catalizzatore di processi di riforma epocali nell’ambito dell’ordinamento italiano (si pensi al “peso” della sentenza Oliari e a. c. Italia rispetto all’approvazione della Legge n. 76/2016 sulle unioni civili).
La Corte di Strasburgo ha infatti da tempo pacificamente stabilito che, in quanto mezzo di identificazione personale e di collegamento con una famiglia, il cognome di una persona riguarda la sua vita privata e familiare protetta dall’articolo 8 della CEDU (casi Mentzen c. Lettonia (dec.); Henry Kismoun c. Francia). Sulla base di questa premessa e del principio di non discriminazione sancito all’art. 14 CEDU, la Corte ha sviluppato un consolidato orientamento giurisprudenziale (sentenze Unal Tekeli c. Turchia; Stjerna c. Finlandia; Burghartz c. Svizzera) fondato su due principi essenziali: a) l’eliminazione di ogni discriminazione fondata sul sesso nella scelta del cognome; b) l’impossibilità di fondare discriminazioni nei confronti delle donne che fossero giustificabili sulla tradizione di manifestare l’unità della famiglia attraverso l’attribuzione a tutti i suoi membri del cognome del marito. Gli stessi principi, elaborati in casi relativi al cognome della moglie rispetto a quello del marito, sono stati applicati, analogamente, all’attribuzione del cognome ai figli, giungendo alla conclusione per cui se attribuire il cognome del padre/marito ai figli legittimi può rivelarsi una scelta non necessariamente in contrasto con la CEDU, «l’impossibilità di derogarvi al momento dell’iscrizione dei neonati nei registri di stato civile è eccessivamente rigida e discriminatoria nei confronti delle donne» (sentenza Cusan e Fazzo c. Italia, par. 67), quindi lesiva dell’art. 14 CEDU in combinato con l’art. 8 della medesima Convenzione.
L’orientamento consolidatosi presso la Corte EDU perseguiva essenzialmente l’eliminazione di ogni discriminazione tra genitori di sesso diverso nella scelta del cognome, in virtù di un principio di uguaglianza di genere (v. in ultimo il caso León Madrid c. Spagna, deciso con sentenza del 26.10.2021, in cui la norma interna che sanciva l’imposizione automatica dell’ordine dei cognomi, prima paterno poi materno, in caso di disaccordo tra i genitori, è stata considerata discriminatoria nei confronti della madre). Trascurava invece di affrontare la questione dal punto di vista dell’identità personale dei figli, in quanto però questi non figuravano tra i ricorrenti. Ecco perché, ad esempio, in Cusan e Fazzo (par. 56), la Corte di Strasburgo affermò che «la scelta del nome del figlio da parte dei genitori rientra nella sfera privata di questi ultimi», anziché in quella del figlio stesso.
È tuttavia evidente che la questione attiene anche il diritto all’identità personale dei figli, che trova il primo ed immediato riscontro proprio nel cognome quale strumento di identificazione delle origini di una persona. Detto diritto gode della tutela offerta – seppur in contesti diversi – dall’art. 7 CDFUE e dall’art. 8 CEDU, in quanto espressione peculiare del diritto fondamentale al rispetto della vita privata e familiare. Da ciò discenderebbe il diritto fondamentale di ogni figlio ad essere identificato attraverso il cognome (paterno, materno o entrambi) che meglio corrisponde alla propria identità personale, a prescindere da un criterio inderogabile di attribuzione automatica.
Un approccio “circoscritto” al principio di non discriminazione tra genitori, simile a quello emergente dalla giurisprudenza CEDU, emerge però anche nelle prime pronunce della Corte Costituzionale italiana sul tema, in particolare nella citata sentenza n. 61, dove i giudici si limitarono a liquidare brevemente la questione dal punto di vista della tutela dell’identità del figlio, affermando che «la previsione dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno sacrifica il diritto all’identità del minore», senza poi sviluppare – come sarebbe invece stato doveroso – l’assunto.
Tale scelta argomentativa è assai limitata e, fortunatamente, oramai abbandonata dalla Corte Costituzionale italiana, come confermano sia la sentenza n. 286 del 2016, sia la sentenza dello scorso 27 aprile 2022.
4.
In entrambe le occasioni, la Consulta ha infatti riconosciuto che il modo in cui un ordinamento regola l’attribuzione del cognome ai figli è una questione legata sia alla posizione dei genitori, sia a quella dei figli stessi. I due profili sono indissolubilmente correlati e il richiamo ai principi e diritti fondamentali sottesi ad entrambi rafforza senz’altro l’argomentazione a favore della riforma della disciplina, nel pieno rispetto delle prerogative di ambedue i centri di interesse.
A ben vedere, si può persino affermare che la posizione giuridica dei figli sia prioritaria rispetto a quella dei genitori e che dunque l’aspetto della tutela dell’identità personale dei figli preceda, nell’affrontare la questione oggetto della sentenza esaminata, eventuali profili discriminatori che penalizzino un genitore rispetto all’altro. Questo poiché laddove siano in discussione le modalità di attribuzione del cognome ad un minore – e quindi, in ultimo, la definizione di elementi costitutivi la sua identità personale e familiare – ogni questione dev’essere trattata nel pieno e prioritario rispetto del suo superiore interesse, secondo quando disposto, ex multis, dall’art. 3 della Convenzione di New York del 1989 e dall’art. 24 CDFUE.
Se l’interesse del minore è prioritario, allora la questione di cui ci stiamo occupando andrà necessariamente trattata anche e prima di tutto dal punto di vista della sfera giuridica soggettiva dei figli. Così, ad esempio, fece già tempo addietro la Corte di giustizia dell’Ue, pur senza citare espressamente il principio del “best interests of the child”, nei casi Garcia-Avello e Grunkin-Paul, in cui la Corte interpretò in via estensiva il principio di non discriminazione (oggi previsto all’art. 18 TFUE) e i diritti di circolazione e soggiorno (artt. 20 e 21 TFUE) per garantire il diritto del minore a ricevere il cognome di entrambi i genitori e così evitare ai suoi danni una discriminazione in base alla cittadinanza ovvero una restrizione all’esercizio del diritto alla libera circolazione.
5.
In conclusione (e in attesa di leggerne il testo), la sentenza del 27 aprile 2022, si pone a baluardo della piena ed effettiva realizzazione del diritto all’identità personale dei figli e, al contempo, della pari dignità reciproca dei genitori nel processo di costruzione di tale identità. Lo fa eliminando dal nostro ordinamento la previsione dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno e invocando l’intervento – si spera il più sollecito possibile – del Legislatore, affinché la materia possa finalmente trovare una disciplina positiva organica e, soprattutto, allineata con gli standard inter- e sovranazionali in tema di diritti fondamentali.
* Professore a contratto di Diritto dell’Unione europea e docente di European Family Law, Università degli Studi di Udine.