Omogenitorialità: la Corte di Palermo manda gli atti alla Consulta
16 settembre, 2015 | Filled under discriminazione, genitorialità, italia, NEWS, orientamento sessuale |
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Anche la Corte d’Appello di Palermo, dopo il tribunale per i minorenni di Bologna, ha rimesso alla Corte costituzionale una questione di legittimità costituzionale in materia di tutela dell’interesse superiore del minore in ipotesi di omogenitorialità. In questo caso i giudici dubitano della legittimità dell’art. 337 ter c.c. nella parte in cui non consentirebbe al giudice di valutare se risponda all’interesse del minore mantenere rapporti con il proprio genitore “sociale”. Contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di primo grado, i giudici d’appello non hanno ritenuto possibile una interpretazione evolutiva e costituzionalmente orientata della norma. Si impone, tuttavia, una riflessione sulle fonti della genitorialità nel nostro ordinamento: se, come noto, la genitorialità consegue, anche, ad una consapevole assunzione di responsabilità genitoriale, cosa impone di escludere il riconoscimento della responsabilità del genitore omosessuale?
di Marco Gattuso
Con ordinanza depositata il 31 agosto 2015, la Corte d’Appello di Palermo ha rimesso alla Corte costituzionale questione di legittimità costituzionale dell’art. 337 ter c.c. nella parte in cui non consentirebbe al giudice di valutare se risponda all’interesse del minore mantenere rapporti con il proprio genitore “sociale” (nella specie la ex partner, dello stesso sesso, del genitore cd. “biologico”).
La Consulta viene così investita, per la seconda volta nel giro di pochi mesi, d’una nuova questione di incostituzionalità in materia di tutela dell’interesse superiore del minore in ipotesi di omogenitorialità (cfr. Tribunale per i minorenni di Bologna ordinanza del 10 novembre 2014 pubblicata in ARTICOLO29 con nota GATTUSO Adozione negli U.S.A. da parte della co-madre: il tribunale minori di Bologna invia gli atti alla Corte costituzionale).
La vicenda processuale ha preso le mosse dalla richiesta di una co-mamma che, a seguito della separazione dalla partner dello stesso sesso, aveva chiesto al Tribunale di mantenere rapporti con i figli nati nell’ambito del progetto genitoriale di entrambe le donne. Nel procedimento di primo grado era intervenuto il P.M. e all’esito di una C.T.U. che aveva rilevato l’esistenza di un profondo legame affettivo tra i minori e la co-mamma, genitore sociale, il Tribunale di Palermo con decreto del 13 aprile 2015 (pubblicata da ARTICOLO29) aveva riconosciuto il diritto dei due minori di mantenere un rapporto stabile e significativo con la mamma sociale, priva cioè di legami biologici con gli stessi, prevedendo in caso di separazione dei genitori dello stesso sesso un calendario preciso che consenta a quest’ultima di tenere con sé i figli per alcuni giorni alla settimana.
Elemento critico nel provvedimento di primo grado, da subito evidenziato in questo sito (vedi Palermo, piena tutela dei diritti dei bambini dopo la separazione delle co-mamme), appare il mancato riconoscimento della legittimazione attiva del genitore sociale, in ragione della circostanza che la co-madre sociale non è «né genitore biologico né genitore adottivo», assumendo per conseguenza la necessità di una domanda nell’interesse dei minori formulata dal Pubblico Ministero (che nella sua qualità di intervenuto necessario aveva, nella specie, fatto proprie le conclusioni della ricorrente). Secondo il tribunale di Palermo, la condivisione nella scelta di avere figli, la partecipazione alla loro cura ed alla loro crescita sin dalla nascita, l’indubbio legame affettivo e filiale dei bambini, non erano elementi sufficienti per assicurare legittimazione attiva alla co-madre ma costituivano soltanto elementi in astratto valutabili dal P.M. per l’apertura di un procedimento o per l’adesione, come nella specie, alla domanda della ricorrente (per una nota critica alla decisione di primo grado vedi Geremia CASABURI, che Luci ed ombre di un recente provvedimento del Tribunale di Palermo in ARTICOLO29, 2015).
L’impugnazione del provvedimento da parte della madre biologica ha indotto i giudici di secondo grado a sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 337 ter c.c., nella parte in cui non considera l’interesse del minore a mantenere rapporti con un adulto di riferimento, rapporti consolidatisi fra il genitore ed i figli nell’ambito di una famiglia fondata dalle due partner dello stesso sesso, ritenendo il contrasto con gli artt. 2, 3, 30, 31 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione alla Convenzione sui diritti del fanciullo adottata a New York il 20 novembre 1989, alla Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli adottata il 25 gennaio 1996 ed alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, oltre che all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani, come costantemente interpretata dalla Corte di Strasburgo.
I giudici siciliani hanno escluso, innanzitutto, la legittimazione attiva del Pubblico Ministero (da cui la rilevanza della questione) poiché nei casi in cui è previsto l’intervento obbligatorio del P.M., quest’ultimo non può a sua volta proporre autonomamente i relativi giudizi (per analoghe considerazioni critiche v. ancora CASABURI, cit. in ARTICOLO29, 2015).
Ciò nondimeno, secondo i giudici d’appello, il termine “genitore” utilizzato dal Legislatore nell’art. 337 ter c.c. impedirebbe il riconoscimento del rapporto genitoriale di fatto, o sociale, instaurato fra i minori e la persona che ha condiviso sin dal concepimento il progetto genitoriale. Non sarebbe possibile una interpretazione evolutiva e costituzionalmente orientata in ragione del «carattere rigido» della norma, attesa la «univocità del dato testuale».
Ai giudici siciliani d’appello appare tuttavia sospetto di illegittimità costituzionale che tale soggetto, riduttivamente identificato come «ex partner del genitore biologico» non possa curare gli interessi ed i diritti dei bambini agendo in giudizio, nonostante abbia assunto di fatto un accertato (mediante c.t.u.) ruolo genitoriale, riconosciuto dalla stessa Corte.
Dunque due diverse posizioni: un Collegio, quello di primo grado, che ha ritenuto possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma (pur escludendo, contraddittoriamente, la legittimazione attiva della madre sociale) ed un altro Collegio, di secondo grado, che ha ritenuto di sollevare questione di legittimità costituzionale della disposizione.
Pare tuttavia restare sullo sfondo una considerazione che appare, forse, rilevante: se il progetto genitoriale fosse sorto nell’ambito di una coppia eterosessuale, la responsabilità genitoriale del genitore che qui chiamiamo sociale sarebbe stata non solo riconosciuta ma, addirittura, imposta a norma della Legge n. 40 del 2004. La filiazione -e, dunque, la genitorialità- non sarebbe ancorata al dato cd. “biologico” ma all’assunzione volontaria della responsabilità genitoriale.
La genitorialità nel nostro ordinamento giuridico non è solo “biologica” (questo termine denota, peraltro, due criteri distinti per gli uomini e le donne, valendo per i primi la discendenza genetica e per le seconde la gestazione ed il parto, con ciò rilevando che si tratta pur sempre di criteri selettivi eminentemente giuridici, e non “naturali”) oppure “adottiva”, ma consegue nel nostro diritto positivo anche da quella che potremmo chiamare la “assunzione volontaria della genitorialità”.
Tale ipotesi è espressamente prevista ai sensi dell’art. 9 della Legge 40 del 2004 (per cui «qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3, il coniuge o il convivente il cui consenso è ricavabile da atti concludenti non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità», corsivo aggiunto). Tale disposizione è stata inserita nella per tanti versi assai restrittiva disciplina della legge 40 in ragione di un principio di autoresponsabilità e di concreta tutela del superiore interesse del fanciullo, riconosciuto dalla giurisprudenza italiana già ben prima della stessa Legge 40 (cfr. Corte Costituzionale 26 settembre 1998, n. 347; Corte di cassazione n. 2315/1999). Tale principio, inoltre, è oramai costantemente riaffermato da numerose sentenze di merito, anche in ipotesi diverse dalla fecondazione eterologa (nel contempo divenuta legittima per le coppie eterosessuali), come nel caso in cui un soggetto si dichiari padre alla nascita pur nella consapevolezza di non avere alcun rapporto “biologico” col nascituro e successivamente agisca per il disconoscimento (cfr., fra tutte, la nota sentenza del Tribunale di Civitavecchia del 19 dicembre 2008, che ripercorre puntualmente l’evoluzione del quadro normativo e del dibattito dottrinario e giurisprudenziale in materia). Cogliamo peraltro l’occasione per pubblicare in questa sede anche una recentissima decisione del Tribunale di Firenze, ordinanza del 30 Luglio 2015, inedita (est. Breggia, che si ringrazia per la segnalazione), che riafferma, in una ipotesi particolare, analoghi principi.
Seguendo la tesi della irrilevanza della assunzione di responsabilità genitoriale in caso di genitori dello stesso sesso, l’identità di sesso dei genitori comporta, invece, una evidente degradazione dei diritti fondamentali dei bambini, poiché – nella sola ipotesi di coppie dello stesso sesso – il genitore “sociale” od “intenzionale” può tranquillamente evitare ogni responsabilità nei confronti del minore, con grave nocumento per il medesimo. Oppure, può accadere, come nel caso palermitano, che uno dei due genitori venga escluso dall’altro genitore (quello cd. “biologico”) nonostante sia stato accertato che il consenso del convivente «è ricavabile da atti concludenti» e nonostante sia addirittura accertato, mediante c.t.u., un danno conseguente per i bambini (come accaduto in un caso analogo avanti al Tribunale per i minorenni di Milano, cfr. Tribunale per i minorenni di Milano, decreto del 20 ottobre 2009 e decreto del 2 novembre 2007).
Siamo, allora, innanzi ad una tipica fattispecie di discriminazione basata sull’orientamento sessuale, la cui peculiarità è che la vittima della norma discriminatoria non è la persona omosessuale ma soggetti terzi, nella specie due bambini.
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