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Corte europea dei diritti dell’uomo e cambiamento di sesso: il caso Hämäläinen c. Finlandia

Ad appena cinque settimane dalla sentenza n.170 dell’11 giugno 2014 della Corte costituzionale italiana sul cd “divorzio imposto”, la Grande Camera della Corte di Strasburgo decide l’analogo caso finlandese, Hämäläinen c. Finlandia, confermando la decisione del novembre 2012, appellata dalle ricorrenti. Il prof. Pustorino ripercorre la decisione traendo spunto per una critica alle modalità di utilizzo del “consenso europeo” , più volte richiamato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, inteso quale parametro di legittimità della legislazione nazionale rispetto alla Convenzione europea.

di Pietro Pustorino *

1. Con sentenza 16 luglio 2014 (ricorso n. 37359/09) la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ha escluso la violazione, da parte della Finlandia, della Convenzione europea, con riferimento all’obbligo previsto dalla legislazione finlandese di convertire il matrimonio fra persone di sesso diverso in unione civile registrata fra persone dello stesso sesso, quale condizione per il riconoscimento nell’ordinamento nazionale della nuova identità sessuale acquisita da uno dei membri della coppia.

2. Il ricorrente, cittadino finlandese, aveva contratto matrimonio nel 1996 e nel 2002 la coppia aveva avuto una figlia. Nel 2009 il Sig. Hämäläinen si era sottoposto a un intervento chirurgico per cambiamento del sesso. Tuttavia, la nuova identità di genere femminile non era stata riconosciuta dalle autorità finlandesi, con l’effetto che non era possibile per il ricorrente ottenere i documenti attestanti il mutamento di sesso, ciò in quanto il diritto finlandese, in queste circostanze, pone gli individui di fronte a una difficile alternativa: convertire, con il consenso dell’altro coniuge, il matrimonio in unione civile registrata, oppure ottenere il divorzio. La coppia decise di non utilizzare alcuna di queste soluzioni, in quanto la rottura del matrimonio, elemento comune a entrambe queste possibilità, contravveniva con le proprie convinzioni religiose. Esauriti i ricorsi interni, ad Hämäläinen non restava che rivolgersi alla Corte di Strasburgo.

3. Una prima decisione della Corte europea, del 13 novembre 2012, escludeva la violazione sia dell’art. 8, sul diritto alla vita privata e familiare, considerato autonomamente o in connessione con l’art. 14 sul divieto di discriminazione, sia dell’art. 12, sul diritto al matrimonio. In sintesi, il ragionamento di questa prima pronuncia risiedeva nel fatto che la legislazione finlandese assicura un corretto bilanciamento fra il diritto dell’individuo a ottenere una nuova identità sessuale, diritto inquadrabile nell’art. 8 della Convenzione, e il diritto dello Stato di preservare l’istituto tradizionale del matrimonio fra persone di sesso diverso. La successiva pronuncia della Grande Camera conferma la conformità della legislazione finlandese rispetto alle anzidette norme della Convenzione europea, soffermandosi maggiormente su alcune questioni problematiche. Due, a nostro avviso, i punti essenziali della sentenza. In primo luogo, la Corte parte dall’ormai tradizionale presupposto che, nella fattispecie in esame, occorre riconoscere un ampio margine di apprezzamento agli Stati parti della Convenzione europea (paragrafi 71 e 75), rilevando che in tempi recenti non sono segnalabili sviluppi normativi rilevanti e che la maggior parte degli Stati contraenti risulta priva di una legislazione specifica in tema di cambiamento di genere (par. 74). Di conseguenza, non è possibile per la Corte desumere alcun “European consensus” utilizzabile quale parametro giuridico di riferimento che limiti in modo più netto la condotta degli Stati parte. Non resta, quindi, che garantire ad essi un ampio margine di manovra.
In secondo luogo, la Corte adotta un approccio “sostanzialistico”, verificando se la regolamentazione nazionale in esame, qualora fosse stata applicata al caso di specie, avesse potuto produrre conseguenze significative sui diritti dei componenti la coppia, con particolare riguardo ai diritti di natura familiare, ivi compresi i diritti nei confronti della figlia, e ai diritti di natura economica, con riferimento ai diritti pensionistici. La risposta della Corte è negativa, nel senso che la nuova situazione giuridica indotta dalla legislazione nazionale, in particolare la conversione del matrimonio in unione civile registrata, non avrebbe avuto rilevanti implicazioni sulla vita privata e familiare del ricorrente (paragrafi 83-86).

4. Appare evidente come il nucleo centrale della decisione della Grande Camera consista nell’assenza di quel consenso europeo, più volte richiamato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, inteso quale parametro di legittimità della legislazione nazionale rispetto alla Convenzione europea. In proposito, è possibile svolgere qualche prima, breve, considerazione. Anzitutto, è opportuno che la Corte definisca in modo più chiaro la natura, il contenuto e la rilevanza di questo strumento interpretativo, che appare spesso decisivo nella risoluzione di fattispecie, sempre più frequenti, che non trovano fondamento diretto nelle norme della Convenzione e dei protocolli addizionali. La Corte non ha fatto definitivamente luce sulla circostanza se tale metodo interpretativo sia espressione dei metodi interpretativi tradizionali del diritto dei trattati, contenuti nella Convenzione di Vienna del 1969 (articoli 31-33), in particolare del metodo dell’interpretazione evolutiva, oppure se esso costituisca un criterio ermeneutico “autonomo” non assimilabile, almeno in parte, a quelli applicabili ad altri trattati internazionali. Questo chiarimento appare tanto più urgente in quanto la Corte, da un lato, non lesina ampi riferimenti al diritto internazionale “esterno” al sistema della Convenzione, ad esempio proprio in tema di diritto dei trattati o in materia di responsabilità internazionale (da ultimo v. Grande Camera, sent. 12 maggio 2014, Cipro c. Russia, ricorso n. 25781/94), ma, d’altro lato, pone in evidenza, in alcuni casi, la specialità del sistema convenzionale di cui essa garantisce il controllo giurisdizionale. Inoltre, occorrerebbe chiarire quali siano tanto il metodo di ricostruzione del suddetto consenso europeo (e di conseguenza gli obiettivi di tale ricostruzione) quanto i limiti di applicazione dello strumento interpretativo in esame. Sul primo punto, non è adeguatamente chiaro se l’opera di ricognizione del giudice europeo sia di carattere quantitativo, concernente il numero delle legislazioni nazionali da cui derivare il consenso europeo, oppure anche di carattere qualitativo, concernente il contenuto specifico delle varie discipline interne (per una critica dell’operato della Corte sulla ricostruzione del consenso europeo nel caso di specie, v. l’opinione dissenziente dei giudici Sajó, Keller e Lemmens: par. 5). Non sempre è infatti agevole, nelle affermazioni della Corte, individuare come essa sia pervenuta a individuare o escludere l’esistenza di quel minimo comune denominatore che costituisce il parametro decisivo di giudizio. Poco chiaro è, di conseguenza, se la ricerca di un consenso europeo sia il “sottoprodotto” della ricerca di un principio generale di diritto europeo, oppure se, come sembrerebbe potersi desumere dalla giurisprudenza della Corte, rappresenti uno strumento più agile, ma, allo stesso tempo, assai più discrezionale. Ancora meno netti sono i limiti applicativi del consenso europeo. Fino a che punto è lecito ricorrere a uno strumento interpretativo del genere per forzare, in un senso o nell’altro, il testo della Convenzione europea?
In definitiva, se è da accogliere lo sforzo della Corte di adeguare il testo della Convenzione e dei protocolli addizionali a situazioni giuridiche nuove e impensabili al momento della redazione di alcune norme pattizie, occorre fare chiarezza su determinati metodi interpretativi utilizzati dalla Corte al fine di evitare che, nei casi simili a quello qui commentato, si continui ad avanzare “case by case”, smarrendo quella necessaria coerenza della giurisprudenza della Corte europea, così importante sia per garantire il rispetto del principio della certezza del diritto, sia per mantenere l’autorevolezza di cui ancora gode la Corte di Strasburgo.

* professore associato di diritto internazionale, Università di Siena

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