Purché non se ne parli: la difesa dei diritti delle same sex couples nella sentenza Hollingsworth v. Perry
3 settembre, 2013 | Filled under internazionale, matrimonio, OPINIONI, orientamento sessuale |
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di Graziella Romeo
Nel medesimo giorno in cui ha dichiarato incostituzionale il Defense of Marriage Act (Corte Suprema degli Stati uniti d’America, United States c. Windsor decisione del 26 giugno 2013), la Corte suprema ha reso la sentenza sulla cosiddetta Proposition 8 (Corte Suprema degli Stati uniti d’America, Hollingsworth e altri c. Perry e altri, decisione del 26 giugno 2013), ovvero l’emendamento costituzionale, adottato nel 2008 dallo Stato della California con procedura referendaria, che sanciva il carattere eterosessuale del matrimonio. Il referendum era stato preceduto e seguito da un lungo contenzioso, anche di natura costituzionale. Sempre nel 2008, infatti, la Corte suprema californiana aveva definito fondamentale il right to marry aprendo la via al riconoscimento del matrimonio tra persone dello stesso sesso nella pronuncia In Re Marriage Cases (183 P. 3d 384 (CA 2008) decisione del 15 maggio 2008); a stretto giro, la consultazione popolare aveva neutralizzato la conclusione dei giudici supremi inserendo una disposizione costituzionale volta a sancire il requisito della eterosessualità dell’unione coniugale. L’approvazione del referendum aveva poi trasferito il contenzioso presso le corti federali, investite della legittimità, sotto il profilo della violazione delle garanzie federali, della modifica costituzionale.
Il caso Hollingsworth v. Perry (No. 12-144, 570 U.S.__ (2013) giunge così alla Corte suprema in veste di certiorari in seguito alla sentenza del Ninth Circuit. Si tratta di una pronuncia singolare in cui il Collegio si ferma all’esame di un profilo squisitamente procedurale e dichiara inammissibile il ricorso presentato dal comitato promotore del referendum avverso la sentenza della Corte di circuito con cui la Proposition 8 era stata dichiarata incostituzionale.
Con una maggioranza di cinque giudici, la Corte stabilisce che il comitato promotore della consultazione popolare non gode dello standing to sue, non essendo legittimato a rappresentare l’interesse dello Stato nell’ambito del contenzioso federale. In particolare, la legittimazione a stare in giudizio è esclusa non dall’affermazione del principio di diritto per cui il comitato promotore del referendum non possa in nessun caso ricorrere avverso il provvedimento giudiziale che annulla la disposizione emendativa per contrarietà ai principi costituzionali, ma per la più circoscritta motivazione, legata al caso di specie, per cui i petitioners non hanno sofferto un personal and tangible harm per il fatto che il risultato referendario sia stato, nella sostanza, invalidato. La conclusione cui giunge la Corte, coerente rispetto alla propria granitica giurisprudenza, ma frutto di un’interpretazione assai più restrittiva di quella offerta della omologa Corte statale, poggia peraltro soprattutto sulla rinuncia al ricorso da parte dei pubblici ufficiali incaricati dell’applicazione della legge sul matrimonio.
Sul piano sostanziale, la questione sollevata dai ricorrenti verteva sulla conformità dell’emendamento costituzionale che definisce il matrimonio come l’unione tra un uomo e una donna alla clausola dell’equal protection of law. Il Chief Justice Roberts, che redige la sentenza, sviscera il tema della legittimazione a stare in giudizio davanti alle Corti federali, evitando accuratamente di pronunciarsi su uno dei temi più spinosi del diritto costituzionale. Il presidente del Collegio riesce a coagulare una maggioranza di cinque, assolutamente trasversale, nella quale convergono praticamente tutti i giudici di orientamento progressista, con l’eccezione di Justice Sotomayor, che aderisce alla dissenting opinion di Kennedy.
Il disegno seguito dalla Corte potrebbe sembrare tutto sommato coerente: per un verso, chiarisce che la Federazione non può imporre agli Stati di concepire il matrimonio come necessariamente eterosessuale (con la sentenza US v. Windsor, su cui v. il commento di M. Winkler pubblicato qui), per l’altro, decide sostanzialmente di non interferire con le decisioni assunte dal livello decentrato di governo. Eppure, tale conclusione sembra decisamente sbrigativa. Del resto, è sin troppo semplice constatare che la soluzione privilegiata nella sentenza in commento è ancora più invasiva della sovranità statale. L’esclusione della legittimazione a stare in giudizio, infatti, si presenta come l’esito di un’interpretazione tendenzialmente autoreferenziale, che esclude espressamente la rilevanza della disciplina statale, così come ricostruita dalla Supreme Court dello Stato della California (in questa prospettiva v. peraltro la d.o. di Justice Kennedy, p. 3-4). La lettura fornita dalla corte statale riconosce, infatti, lo standing to sue al comitato promotore del referendum, non soltanto nelle fasi precedenti l’indizione della consultazione, ma anche a votazione conclusa. Il Collegio invece rivendica l’autonomia dell’interpretazione della legge statale ai fini dell’applicazione della disciplina federale relativa alla legittimazione a stare in giudizio. Kennedy scrive un’opinione dissenziente dai toni insolitamente polemici nei confronti della maggioranza, che senza mezzi termini accusa di miopia per aver deciso «to misconstrue principles of justiciability to avoid [the] subject».
La Corte suprema, in altri termini, sembra soprattutto preoccupata di evitare una decisione che avrebbe provocato un effetto domino su tutte le Costituzioni statali in cui sono stati introdotti, per via legislativa o referendaria, emendamenti ad hoc per estromettere le persone dello stesso sesso dall’istituto matrimoniale (in dettaglio: Alabama (Am. 774(d)); Alaska (Art. 1, sec. 25); Arizona (Art. XXX); Colorado (Art. II, sec. 31); Florida (Art. I, sec. 27); Georgia (Art. I, sec. IV); Idaho (Art. III, sec. 28); South Carolina (Art. XVII, sec. 15); South Dakota (Art. XXI, sec. 9); Kansas (Art. XV, sec. 16); Kentucky (sec. 233 A); Louisiana (Art. XII, sec. 15); Michigan (Art. I, sec. 25); Mississippi (Art. XIV, sec. 263A); Missouri (Art. I, sec. 33); Montana (Art. XIII, sec. 7); Nebraska (Art. 1, sec. 29); North Carolina (Art. XIV, sec. 6); North Dakota (Art. XI, sec. 28); Ohio (Art. XV, sec. 11); Oklahoma (Art. II, sec. 35); Tennessee (Art. XI, sec. 18); Texas (Art. I, sec. 32); Utah (Art. I, sec. 29); Virginia (Art. I, sec. 5-A)). Tale preoccupazione ha a che fare con la volontà di evitare un tema che si colloca al centro di una fitta dialettica tra corti, legislatori e opinione pubblica, piuttosto che con le tentazioni antifederaliste della maggioranza della Corte.
In molti Stati, infatti, la giurisprudenza favorevole al same sex marriage ha suscitato reazioni contrarie da parte del legislatore oppure da parte dell’opinione pubblica, anche se la maggioranza degli americani sembra oramai propendere, peraltro cambiando orientamento nel breve volgere di un quinquennio, per il riconoscimento del right to marry alle persone dello stesso sesso. La Corte, in altri termini, sembra voler rimanere spettatrice, ancora per qualche tempo, del discorso pubblico, suscitato dal confronto tra i diversi formanti del diritto costituzionale statale. La vocazione contro-maggioritaria della giurisprudenza costituzionale cede, dunque, il passo al dibattito democratico.
Ad ogni modo, la decisione rivela anche la fase di transizione degli equilibri del Collegio. Per un verso, esso si conferma ancora fortemente influenzato dalle sue anime conservatrici, restie al riconoscimento, soprattutto attraverso la clausola dell’equal protection, di nuovi diritti che non si presentino inequivocabilmente come l’espressione di esigenze di tutela diffuse e radicate nella società americana; per l’altro comincia ad avvertire le influenze della componente liberal che pur aderendo all’escamotage procedurale indicato dal Chief Justice, finisce per ottenere un risultato favorevole nella sostanza alla causa delle same sex couples.
Le due pronunce consegnano agli Stati la libertà di riconoscere i matrimoni tra persone dello stesso e sesso, mentre la Federazione si impegna a riconoscere gli effetti dell’unione sul piano del diritto federale. Il risultato è ottenuto senza dedicare neppure una parola al principio di eguaglianza e alla categoria dei diritti fondamentali. È una Corte con una certa ritrosia ad affrontare i nodi più spinosi del dibattito costituzionale americano, ma forse con un’invidiabile sensibilità per la soluzione pratica dei casi controversi.
Bibliografia essenziale
M.J. Klarman, From the Closet to the Altar: Courts, Backlash, and the Struggle for Same-Sex Marriage, Oxford UP, Oxford, 2013.
D. Cole, Getting Nearer and Nearer, in The New York Review of Books, Jan. 10th 2013, disponibile all’indirizzo www.nybooks.com/articles/archives/2013/jan/10/getting-nearer-and-nearer.
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