Lavoro, assunzioni e omofobia alla Corte di Giustizia
14 maggio, 2013 | Filled under OPINIONI, orientamento sessuale, unione europea |
|
di Carmelo Danisi
Con la sentenza C- 81/82 del 25 aprile 2013 della Corte di Giustizia, la direttiva 2000/78 trova la sua prima applicazione alla discriminazione di una persona omosessuale in materia di assunzione.
Chiamata a pronunciarsi sul rinvio pregiudiziale proposto dalla Curtea de Apel di Bucarest, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) si è confrontata nuovamente con le discriminazioni fondate su un orientamento sessuale minoritario in materia di occupazione e condizioni di lavoro al cui contrasto, nell’ambito dell’Unione Europea, è dedicata la direttiva 2000/78 (GU L 303, p. 16). Finora la CGUE aveva avuto modo di applicare tale direttiva al diverso trattamento riservato al lavoratore unito in una partnership con una persona dello stesso sesso rispetto a quello garantito ai colleghi uniti in matrimonio (casi Maruko, C 267/06 – 1 aprile 2008, e Romer, C 147/08 – 10 maggio 2011). Con questa sentenza, invece, la Corte si è pronunciata sull’applicazione della direttiva in relazione al particolare aspetto delle discriminazioni che una persona ritenuta omosessuale può sperimentare nell’accesso al mondo del lavoro in seguito a dichiarazioni omofobe da parte di colui che viene percepito come tale dal datore di lavoro.
Il caso da cui ha origine il rinvio pregiudiziale riguarda la denuncia presentata nei confronti del sig. Becali, il “patron” della squadra, e della società calcistica SC Fotbal Club Steaua București SA dall’associazione per la difesa dei diritti delle persone LGBT Accept in seguito alla mancata assunzione di un calciatore professionista presumibilmente per il suo orientamento omosessuale. Il sig. Becali aveva infatti rilasciato affermazioni quali “Neppure se dovesse chiudere la FC Steaua, prenderei in squadra un omosessuale” o ancora, “Non c’è posto per un gay nella mia famiglia e la [FC] Steaua è la mia famiglia”. La sua posizione era stata avvallata in modo inequivocabile dalla società calcistica, secondo la quale la presenza di un omosessuale avrebbe creato tensioni in squadra e tra gli spettatori. Ad avviso del Consiglio nazionale per la lotta alle discriminazioni, a cui la denuncia era stata inizialmente indirizzata, le dichiarazioni in oggetto non costituivano una discriminazione diretta ai sensi della direttiva 2000/78. Al contempo, il “patron” non poteva essere configurato come un datore di lavoro o una persona incaricata delle assunzioni, dal momento che tali decisioni spettavano alla società calcistica di cui lui era solo un azionista. Investita del ricorso contro tale decisione, la Curtea de Apel ha sostanzialmente chiesto alla CGUE se le affermazioni del sig. Becali potessero costituire una discriminazione diretta fondata su un orientamento sessuale minoritario, la quale – si ricorda – non è suscettibile di alcuna giustificazione, e se esse rientrassero nell’insieme dei “fatti” dai quali si può presumere che vi sia stato un trattamento differenziato ingiustificato secondo quanto prevede la direttiva 2000/78 agli articoli 2.2 a) e 10.1.
La CGUE afferma con molta chiarezza che la direttiva 2000/78 può trovare applicazione in una situazione come quella fin qui descritta, anche se l’ingaggio di un calciatore non si presenta nella forma più tipica della pubblicazione di un bando per la copertura di un posto di lavoro a cui segue una selezione che può portare a preferire in modo non giustificato aspiranti lavoratori eterosessuali sui candidati omosessuali. Ancor più significativa appare la puntualizzazione circa la non necessarietà che vi sia una vittima accertata per affermare che la società calcistica persegua una politica di assunzione lesiva del principio della parità di trattamento sancito oggi anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Infatti, anche nel caso in cui non sia stata avviata alcuna trattativa con un professionista omosessuale, dichiarazioni come quelle fatte proprie dal “patron” sono di per sé sufficienti per presumere che la società non assumerà giocatori caratterizzati da un orientamento sessuale minoritario. Ai fini di tale valutazione, non ha rilevanza la posizione occupata dal sig. Becali rispetto alle decisioni prese dalla società calcistica in materia di assunzioni. Da un lato, quest’ultima non aveva preso le adeguate distanze dalle dichiarazioni del suo azionista; dall’altro, non si può negare la percezione diffusa tra i mezzi di informazione e nella società in generale sul presunto ruolo del “patron” di una squadra di calcio come decisore di ultima istanza, ancorché privo del potere di vincolare la società rispetto alle assunzioni dei giocatori.
Un ulteriore profilo di interesse riguarda l’onere della prova. È noto, sulla base di una giurisprudenza consolidata della CGUE, che l’effettiva applicazione del principio della parità di trattamento richiede un parziale rovesciamento dell’onere della prova a carico dei convenuti. Di conseguenza, una volta accertato che possa sussistere una politica discriminatoria in virtù di dichiarazioni come quelle rese dal “patron” della società rumena, spetta a quest’ultimo e alla società dimostrare che le assunzioni dei giocatori non sono motivate da ragioni ricollegabili al loro orientamento sessuale. A tale proposito, il giudice del rinvio ha chiesto alla CGUE se il rovesciamento dell’onere della prova non porti a una situazione in cui la società calcistica sia impossibilitata a dimostrare l’assenza di politiche discriminatorie perché si troverebbe costretta, per difendersi, ad ammettere di aver siglato in passato contratti con giocatori omosessuali violando il loro diritto alla vita privata sancito, tra l’altro, nell’art. 8 CEDU. Per la CGUE, se la parte convenuta è tenuta a dimostrare “con qualsiasi mezzo giuridico […] che la loro politica delle assunzioni si basa su fattori estranei a qualsiasi discriminazione fondata sulle tendenze sessuali”, non necessariamente deve far valere eventuali assunzioni di giocatori omosessuali come prova di politiche di assunzione conformi al principio della parità di trattamento. A tal fine, invece, possono rilevare eventuali dichiarazioni con le quali la società calcistica si dissoci dal suo “patron” oppure faccia valere regolamenti interni con i quali garantisce che le assunzioni sono ispirate ai principi di pari opportunità e non discriminazione.
Riconosciuta, infine, l’adozione di una politica discriminatoria anche in assenza di una vittima identificabile, una corretta ed efficace attuazione della direttiva 2000/78 deve comportare sanzioni che non siano meramente simboliche ma garantiscano un effetto dissuasivo. Il semplice ammonimento, come quello che nella causa principale era stato applicato ai convenuti, non può infatti essere considerato sufficiente alla luce dell’oggetto e dello scopo della direttiva 2000/78.
Con la sentenza in oggetto, in conclusione, appare consolidarsi il concetto di “discriminazione potenziale”, affermato dalla CGUE già nella sentenza Feryn (C 54/07 – 10 luglio 2008) in relazione a dichiarazioni discriminatorie da parte di un datore di lavoro che aveva dichiarato di essere contrario ad assumere lavoratori di una particolare origine etnica, i quali venivano così esclusi a priori dal processo di selezione per le posizioni disponibili. Trovando applicazione per la prima volta rispetto al fattore orientamento sessuale, esso ribadisce il principio per cui non risulta necessaria la presenza di una vittima identificabile al fine di denunciare una politica discriminatoria laddove tale politica abbia l’effetto di precludere l’accesso alla procedura di selezione da parte di una minoranza accomunata da uno dei fattori protetti dalla direttiva anti-discriminazione. Si tratta pertanto di un significativo sviluppo se si tiene conto di settori lavorativi, come quello calcistico, in cui le persone omosessuali ancora sperimentano difficoltà non solo ad esprimere la “sfera più intima della loro personalità”, riprendendo le parole della Corte europea dei diritti umani, ma ancor prima ad avervi accesso a causa di frequenti dichiarazioni di stampo omofobo da parte di diversi attori (allenatori, patron, calciatori stessi) che, seppur non decidano direttamente in merito a ogni singola assunzione, le influenzano fortemente.