Coppie di donne e p.m.a.: la legge n. 40/2004 torna alla Consulta
4 luglio, 2018 | Filled under OPINIONI |
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di Angelo Schillaci
Pubblichiamo l’ordinanza con la quale il Tribunale di Pordenone ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 12 della legge n. 40/2004, nella parte in cui limitano l’accesso alla procreazione medicalmente assistita alle sole coppie formate da persone di sesso diverso, escludendone così le coppie di donne.
Il giudice era stato adito con procedimento cautelare d’urgenza da una coppia di donne che si era vista rifiutare dalla locale Azienda Sanitaria la richiesta di accedere alla procreazione medicalmente assistita mediante fecondazione eterologa con donazione di seme. La coppia – assistita dall’Avvocata Maria Antonia Pili (alla cui cortesia dobbiamo la pubblicazione dell’ordinanza) – si era dunque rivolta al Tribunale di Pordenone per ottenere, in via d’urgenza, l’accesso al trattamento, contestualmente richiedendo la sollevazione della questione di legittimità costituzionale, cui il Tribunale ha infine aderito.
La legge n. 40/2004 tornerà dunque all’esame della Corte costituzionale, che sarà nuovamente chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di una delle (numerose) previsioni restrittive che costellano la legge e che, nel corso degli anni, sono state oggetto di severe censure: si ricordino, a titolo di esempio – le ben note sentenze n. 162/14 e 96/2015 con le quali la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità – rispettivamente – del divieto di fecondazione eterologa e del divieto di accesso alla p.m.a. con diagnosi preimpianto per le coppie fertili, ma portatrici di malattie geneticamente trasmissibili.
Le disposizioni sospettate di illegittimità costituzionale – l’art. 5 e l’art. 12 – riservano, come noto, l’accesso alla p.m.a. alle sole coppie di maggiorenni, coniugate o conviventi, di sesso diverso (così l’art. 5), sanzionando per l’effetto – all’art. 12, commi 2, 9 e 10 – la condotta di coloro che applichino tecniche di p.m.a. in coppie composte da persone dello stesso sesso. Su tale previsione discriminatoria si appuntano le censure del giudice rimettente, che lamenta la violazione di una serie di parametri, ed in particolare:
a) l’art. 2 Cost., sotto il profilo della violazione del diritto a realizzare la propria scelta di diventare genitori che – come riconosciuto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 162/14 – rientra nella più generale libertà di autodeterminarsi garantito dal medesimo articolo 2 nella dimensione individuale e nelle formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo. Interessante sottolineare come, a tale riguardo, il Tribunale di Pordenone espressamente riconosca nell’unione civile tra persone dello stesso – alla luce dell’art. 1, comma 1, della legge n. 76/2016 e della sentenza n. 138/2010 – una specifica formazione sociale nell’ambito della quale deve essere garantita anche la realizzazione della scelta di diventare genitori;
b) l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevole discriminazione delle coppie omosessuali rispetto alle coppie di soggetti di sesso diverso. A tale riguardo, il Tribunale di Pordenone richiama la ben nota Cass., sez. I civ., n. 19599/2016, ed in particolare il passaggio nel quale la Corte di legittimità assimila – ai fini del ricorso alla p.m.a. – le coppie omosessuali alle coppie eterosessuali infertili, considerato che entrambe non possono procreare in modo spontaneo, nell’ambito di un progetto di realizzazione della vita familiare e della genitorialità che deve ritenersi del tutto analogo. Particolarmente interessante, poi, il secondo profilo di discriminazione sottolineato dal rimettente, e derivante dalla circostanza che – in conseguenza del divieto – possono accedere alla p.m.a. all’estero le sole coppie omosessuali in grado di sostenere il costo del cd. esilio procreativo. Vale sottolineare – come richiamato dal rimettente – che tale profilo di discriminazione era stato alla base della dichiarazione di illegittimità costituzionale del divieto di ricorso alla p.m.a. eterologa, ad opera della sentenza n. 162/14 della Corte costituzionale;
c) l’art. 31, comma 2 della Costituzione, dal momento che le disposizioni censurate – impedendo alle coppie di donne di accedere alla maternità in condizioni non discriminatorie – si pongono in “stridente contrasto” con l’obiettivo costituzionalmente sancito di protezione della maternità, “favorendo gli istituti necessari a tale scopo“;
d) l’art. 32, comma 1, della Costituzione, che protegge il diritto alla salute fisica e psichica: come già ritenuto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 162/2014, il divieto di accesso alle tecniche di p.m.a. e la conseguente impossibilità di formare una famiglia nell’esercizio della fondamentale libertà di autodeterminarsi di cui all’art. 2 Cost. ricade negativamente sulla salute della coppia;
e) l’art. 117, comma 1, della Costituzione per violazione indiretta degli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sotto il profilo della tutela – da realizzarsi secondo canoni non discriminatori – del diritto alla vita privata e familiare.
Esclusa la possibilità dell’interpretazione conforme a Costituzione e della disapplicazione per contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (eventualità peraltro esclusa dalla costante giurisprudenza della Corte costituzionale: cfr. ex multis C. Cost., sent. n. 80/2011, 317/2009, 348 e 349 del 2007), il giudice solleva dunque la questione di legittimità costituzionale, chiedendo alla Corte di eliminare la discriminazione irragionevolmente posta in essere dalle disposizioni impugnate.
Quanto all’esclusione dell’interpretazione conforme, ci si limita in questa sede a richiamare – del tutto sinteticamente – la posizione di quella dottrina che, all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 76/2016, aveva sostenuto che, in virtù dell’art. 1, commi 20 e 36 di tale legge, l’art. 5 della legge n. 40/2004 si sarebbe già potuto ritenere applicabile alle coppie omosessuali femminili (Gattuso, Un bambino e le sue mamme, in Questione giustizia, 2018). Ed infatti, sia considerando la nozione giuridica di coppia recata dall’art. 1, comma 36 della legge n. 76/2016 in tema di disciplina delle convivenze di fatto (e riferita tanto a coppie eterosessuali quanto a coppie omosessuali) sia considerando la clausola di equivalenza di cui all’art. 1, comma 20 della medesima legge, condivisibilmente tale dottrina ritiene che l’attributo dell’eterosessualità non possa essere considerato ostativo all’applicazione dell’art. 5 anche alle coppie omosessuali conviventi o unite civilmente (diverso, e assai problematico, il discorso legato alla inequivoca formulazione del divieto di cui all’art. 12, comma 2, della legge n. 40/2004, e alla conseguente antinomia interna che si verrebbe a determinare).
Sebbene motivata in forma sintetica, l’ordinanza che pubblichiamo affronta compiutamente i diversi profili della discriminazione tra coppie eterosessuali infertili e coppie omosessuali (femminili) per ciò che riguarda l’accesso alla procreazione medicalmente assistita, mettendo nuovamente in luce le profonde carenze della legge n. 40/2004, che affondano le loro radici nella stessa limitatezza originaria della ratio che ha ispirato l’adozione della legge, e che è stata oggetto di una progressiva profonda revisione da parte della Corte costituzionale. Ci si riferisce, in particolare, alla combinazione – foriera di numerose irragionevoli discriminazioni – tra restrizione dell’accesso alla p.m.a. alle sole coppie eterosessuali e individuazione del presupposto del ricorso alle tecniche di p.m.a. nella sussistenza di una patologia che provochi sterilità o infertilità. Sul punto, si è registrata una significativa evoluzione della stessa giurisprudenza della Corte costituzionale, specie nel passaggio dalla sentenza n. 162/2014 alla sentenza n. 96/2015. Se, infatti, la sentenza n. 162/14 – pur avendo legato, significativamente, l’accesso alla p.m.a. alla realizzazione della scelta di diventare genitori (a sua volta espressione della libertà di autodeterminarsi riconosciuta e tutelata dall’art. 2 Cost.) – non aveva investito il profilo dei presupposti (sicché l’accesso alla p.m.a. eterologa veniva consentito alle medesime condizioni previste per il ricorso alla p.m.a. omologa, vale a dire la sussistenza di una patologia della riproduzione), la sentenza n. 96/2015 realizza un significativo passo in avanti, valorizzando ulteriormente il nesso con la libertà di autodeterminarsi in ordine alle scelte riproduttive. Con tale decisione, infatti, la Corte non solo dichiarò l’illegittimità costituzionale del divieto di diagnosi preimpianto, ma aprì – per l’effetto – l’accesso alla p.m.a. alle coppie fertili portatrici di malattie geneticamente trasmissibili, con ciò determinando una prima, significativa rottura della ratio restrittiva dell’originario testo della legge n. 40.
La pronuncia sulla questione sollevata dall’ordinanza di Pordenone potrebbe rappresentare – in questa prospettiva – un ulteriore momento di chiarimento della ratio e della portata della legge n. 40/2004, nonché del suo più corretto inquadramento costituzionale, sciogliendo l’artificiosa tensione – sollecitata proprio dall’originaria formulazione della legge – tra diritto alla salute e protezione delle scelte in ambito riproduttivo e, dunque, affettivo e familiare. In altri termini, ben oltre il profilo del superamento della discriminazione oggetto di censura, la decisione sulla questione in esame potrebbe contribuire ad una migliore articolazione del bilanciamento tra i diritti e gli interessi costituzionalmente rilevanti investiti dalla disciplina della procreazione medicalmente assistita, ed in particolare il diritto alla salute, la tutela della dignità personale nella sua dimensione di libera autodeterminazione personale, riproduttiva e affettiva nelle formazioni sociali a questo scopo riconosciute dall’ordinamento, e il principio costituzionale di eguaglianza, declinato nella sua dimensione di garanzia della pari dignità sociale di quegli stessi percorsi di autodeterminazione.